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follemente
Lo pubblico qui, perché non vorrei discuterne, ma solo far sapere cosa accade.
Oggi su La Stampa, dove potete trovare anche un video sulle condizioni spaventevoli dei migranti nel Silos di Trieste.
Nella discarica dei migranti: se a Trieste finisce l’umanità
Al “Silos” 400 migranti vivono senza cibo tra ratti e immondizia. Afghani, pakistani, bengalesi: «Il luogo più brutto e peggiore di sempre»
NICCOLÒ ZANCAN
11 Marzo 2024 alle 01:00
3 minuti di lettura
«Li vedi questi?». Li vedo, li vedo eccome. Sono buchi nella carne, sono strappi nella maglietta con la scritta New York, sono scarpe da ginnastica rosicchiate. «Big mouse, amico. Hai capito? Qui di notte è pieno di grandi topi. Io mi chiamo Ahamad Aftab, ho 35 anni, sono stato in Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Croazia. Ma questo è il posto più brutto della mia vita, questi sono i giorni peggiori di sempre».
Piove. Piove forte. Tin tin sulle tende e sui cartoni, su questi tetti senza speranza. Piove e sotto un riparo il signor Aftab si scalda le mani al fuoco di un falò, mentre cucina ali di pollo. Il fuoco è dentro il suo cubicolo, non si respira. «Sono qui da tre mesi e dodici giorni, aspetto che la questura mi chiami per avere il foglio. Voglio vivere in Italia, voglio lavorare. Ma non mi chiamano mai», dice un amico di Aftab in attesa della cena. E dopo la cena, spenti i fuochi, verrà il buio.
Trieste, il Silos della vergogna - Il videoreportage
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Buonanotte dalla terra dei sorci. Buonanotte da Trieste. Buonanotte da questa discarica di persone, dove esseri umani vivi vengono trattati come morti. Si chiama Silos, ha ospitato gli esuli istriani durante la Seconda Guerra mondiale. Era un deposito di merci e granaglie. È diventata una costruzione in disgrazia ormai da decenni, a fianco della stazione ferroviaria. Qui la vita marcisce, mentre vengono annunciati in continuazione nuovi treni in partenza.
«Bad situation, help me», dice un ragazzo di vent’anni. «Ho fame», dice il suo amico. Le tende sono ovunque, nello spazio di due campate. C’è la parte dei migranti pakistani, quella dei bengalesi e questa, dei ragazzi scappati da Kabul e dalle persecuzioni dei talebani. «Mi chiamo Muhammad Shaz Zeb Raz, so fare il barbiere e voglio lavorare. Io sono fortunato. Perché sono qui solo da ventitré giorni».
Trieste è la frontiera nord-est italiana, punto di passaggio per tutti i viaggiatori della rotta balcanica. Ma sta succedendo qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Qualcosa che non si era mai visto in una città abituata da sempre a essere un luogo di passaggio e di incontro. Adesso al Silos si affollano persone in attesa di risposte da parte dello Stato italiano. Stanno nel pantano di fango, in conseguenza di un pantano istituzionale. «Vite abbandonate». Così si intitola il rapporto scritto dalla rete di associazioni che si occupano dei migranti a Trieste: Ics, Linea d’Ombra, Diaconia Valdese, Comunità di San Martino al Campo, Donk, International Rescue. Quello che si scopre leggendo il report è sorprendente. A Trieste non c’è nessuna emergenza: 13 mila migranti arrivati nel 2022, sono diventati 16 mila nel 2023. L’80% di questi scelgono di abbondare immediatamente la città, dopo una sosta brevissima. La media delle domande di asilo qui è bassa: 5 al giorno d’inverno, 10 in estate. E allora, cosa ci fanno quei 415 esseri umani nel Silos (numero che risale al primo dicembre 2023)? Cosa indicano queste tende e questo abbandono? Sono tutte persone che hanno scelto di fare domanda d’asilo proprio a Trieste, ma non riescono a ottenere neppure la prima risposta, quella che gli permetterebbe l’inserimento nei percorsi di accoglienza.
«No problem», dice l’aspirante barbiere Muhammad Shaz Zeb Raz. «Io vado ogni giorno in questura. Prima o poi chiameranno il mio nome».
Intanto stanno qua. Sotto il diluvio che cola dal cemento. Ognuno con i suoi ricordi orribili. «In Ungheria mi hanno picchiato sulla testa». «In Croazia mi hanno tolto le scarpe e mi hanno fatto tornare indietro due volte». «Evita la Bulgaria, amico. Non ti auguro proprio di incontrare certi poliziotti della Bulgaria». Dalle tende risuonano musiche del mondo. I topi aspettano il momento per banchettare.
Il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza ha detto frasi che hanno offeso la sensibilità di molti cittadini. Per esempio: «Anche se in mezzo ai topi, paradossalmente chi sta al Silos sta bene». Due giorni fa ha risposto così alle domande: «Bisogna realizzare un hotspot in Friuli, lo dico da vent’anni». E poi, ancora, rivolto ai giornalisti: «Potrei parlare di Bologna, di Milano, di Torino, non avete idea di che cosa c’è là ma si parla solo del Silos di Trieste».
Se qualcuno pensasse che i triestini siano indifferenti a tutto questo, commetterebbe un errore imperdonabile. L’iniziativa appena lanciata da alcuni pensionati ha già raccolto 3.500 firme. È un appello al presidente Mattarella: «Per superare l’immobilismo delle istituzioni». Lì c’è scritto tutto: «Condizioni inumane, freddo, ratti». Singoli cittadini e associazioni vengono ogni giorno al Silos per portare coperte e cibo. Ma la situazione non cambia mai. Perché?
Trieste ricorda Ventimiglia. Quello che succede qui è una conseguenza di precise linee politiche. Non ci sono altre spiegazioni. Ne è convinto Gianfranco Schiavone, il presidente di Ics, il Consorzio di solidarietà: «La chiave di lettura della questione Silos non si trova, o non prevalentemente, nella crisi del sistema di accoglienza italiano, ma in una strategia più perversa con due finalità. La prima è abbandonare per lungo tempo i richiedenti asilo per spingere il maggior numero di loro ad andarsene altrove. La seconda è diffondere la falsa immagine di un’invasione di migranti dalla rotta balcanica, per spingere l’opinione pubblica a pensare che se centinaia di persone affondano nel fango del Silos ciò non è dovuto a inqualificabili inadempienze istituzionali, bensì al fatto che ci sono troppi ingressi. Ma è falso. Lo dicono i numeri. Quindi tenere il Silos in questa situazione risponde a obiettivi politici ben chiari, che non si possono dichiarare perché sono tanto illegali quanto moralmente spregevoli».
Ecco cosa son questi topi fra le caviglie dei ragazzi afghani, ecco spiegati questi cumuli di rifiuti. Sono una scelta. «No problem, amico. Noi aspettiamo. Vuoi assaggiare un pezzo di pollo?