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Le vite degli altri
(Das Leben der Anderen)
Un film di Florian Henckel von Donnersmarck. Con Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur, Thomas Thieme, Hans-Uwe Bauer, Volkmar Kleinert, Matthias Brenner. Genere Drammatico, colore, 137 minuti. Produzione Germania 2006.
Uscita nelle sale: 06/04/2007
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Trama: Berlino Est, 1984. Il capitano Gerd Wiesler è un abile e inflessibile agente della Stasi, la polizia di stato che spia e controlla la vita dei cittadini della DDR. Dovendo controllare tramite microfoni una coppia di artisti, lui scrittore e lei attrice, Christa-Maria Sieland e Georg Dreyman, l'inflessibile Gerd trova modo di riflettere su tante cose che la società del tempo oppressiva e dispotica rende difficili, come la libertà di pwnsiero e la conseguente impossibiltà di denunciare angherie intellettuali che portano spesso al suicidio chi le subisce. come reagire a questa tempesta di emozioni ? deve uscire l'uomo o l'ufficiale ?
Commento: premiato all'ultima serata degli Oscar come miglior film straniero, questa pellicola diretta da Florian Henckel von Donnersmarck ( opera prima ) si colloca come il film della settimana ( ma anche del mese e forse più ) che non si deve perdere a tutti i costi in quanto pieno di straripante potenza emotiva, oltretutto esplicata con una facilità di linguaggio decisamente fruibile, anche dallo spettatore poco disposto a una visione d'impegno, per chiarezza, nonostante sia carico di simbologie e frasi da interpretare come delle icone di pensiero.
Il film si svolge nella ex DDR prima della "Glasnot", cioè la trasparenza, voluta da Gorbaciov per rivitalizzare l'immagine, ma sopratutto l'economia, dei paesi dellì'Est agli occhi del mondo.
Dovendo vivere in un paese che li controlla e li opprime nella possibilità di esprimersi ( una semplice barzelletta satirica diventa un pericolo per chi la dice, e il nome della polizia di controllo la dice lunga, Stasi ), la percentuale dei suicidi è molto alta ma dal 1977 la dirigenza evita di fornire delle cifre al proposito anche se propina statistiche di tutto per dimostare il suo pieno controllo.
Come sempre in questi casi, sono gli artisti a dover cercare di rompere il cerchio della chiusura mentale usando la loro capacità di creare emozioni nei vari campi, ed è per questo che il regime li controlla da vicino notte e giorno con un sistema di microfoni. Ma anche gli artisti che dovrebbero erigersi a primi difensori hanno i loro difetti, provocando una sorta di resa dell'animo, quando invece dovrebbe sostenerli il coraggio, se gli si paventa di non poter più eseguire le loro opere. Figlio de " La conversazione" di Coppola, sin dal manifesto con in primo piano il volto e la testa con sopra le cuffie, questo ottimo film ci parla di amore tradito a cui basta un bagno per sentirsi discolpati, di ammirazione e conglobazione, dove un servitore dello Stato ( convinto della giustezza della sua posizione ) man mano che segue le vite degli altri assorbe le stesse e ne prende i lati migliori, paradossalmente estraendo succo non dalle loro opere ma da loro stessi, non dai prodotti magari finti o edulcorati della loro arte ( cesoiati anche da una censura ignobile ), prendendo insieme alle sensazioni di una notte d'amore la coscienza. Non esistono poi veri cattivi, ma solo burattini in uno Stato simile, come dimostra il collega del capitano che sa fare un rapporto sentito senza neppure accorgersi di trasmettere emozioni.
Il vero messaggio in effetti è quello di tirare fuori il meglio di noi stessi capendo e aiutando il prossimo, perchè solo essendoci degli altri diversi potremo migliorare le nostre vite che in solitario sarebbero squaliide anche se ci sembrano perfette, perchè dopotutto ferme.
Emozioni, pathos, cambiamenti, vigoria delle intenzioni e raggiri sono perfettamente calibrati, e lo scrittore Georg Dreyman ( Sebastian Koch, recentemente visto in "Black Book", era il nazista consapevole della futura disfatta, guarda caso ) rende questi stati d'animo come una specie di specchio riflettente e propagante per l'ignoto ( per lui ) scrutatore della sua vita ( interpretato da Ulrich Mühe ) che assorbe il tutto per poi modellarlo a nuovo insegnamento, attratto anche dalla fascinosa compagna chiamata in codice Cms ( Martina Gedeck ), che lo strega perchè sa che lei tramette delle emozioni che lui solitario uomo non potrà avere. Tra l'altro come potrete vedere il rispetto dei sentimenti è talmente immenso che Wiesler non osa minimamente impedire il prosguimento dell'amore della coppia, anzi farà di tutto per preservarlo.
Si parlava dei simbolismi visivi e di frase, che sono eccezionali. Ce ne sono diversi, ma i migliori sono quelli riguardanti le posizioni contro il regime. Ad un certo punto al protagonista viene chiesto se non gli dispiace scrivere in rosso ( unico colore disponibile ), la risposta " cercherò di non fare errori ", è quanto mai al vetriolo.
Sempre Lazlo cerca di fare un nodo alla cravatta, ma non ci riesce ( simbologia della impossibilità di cadere vittima del suicidio intellettuale e della oppressione di pensiero ), non si adegua a farlo, mentre la vicina collaborazionista ci riesce benissimo senza sforzo. Nella sua casa poi è presente una opera d'arte che ritrae una libellula con 4 ali, simbolo della voglia di volare e del senso della libertà. Infine viene detto da un rappresentante del regime " Le promozioni te le guadagni con i risultati, non con i voti " riferimento al fatto che un cambiamento di fede non porta nessun beneficio.
L'azione poi dopo un inizio preparatorio si dipana in maniera sempre interessante, donando arricchimenti visivi e di pensiero come quelli detti sopra, mentre la casa controllata diventa una sorta di alveolo della comunicazione della propria arte e delle emozioni, una sorta di quadro d'insieme trasportante e che ci porta a capire quanto sia importante che ognuno di noi possa dire come la pensa. E il vero suicidio non è quello del corpo ma del fatto di non sapere dire altro, dove anche un bambino con una palla in mano può dirti verità che non vuoi sentire.
Recitazione misurata, che rende credibilissimi i mutamenti dello stato d'animo, regia precisa che sottolinea tutto senza pedanterie, fotografia con colori scuri che danno un giusto senso di grigio ed oppressione ( il sole praticamente non splende mai ) sono i punti di forza creativi dei vari comparti. Speriamo che la distribuzione, anche in virtù del premio acquisito, sostenga questo importante e ottimo bel film, e che il passaparola di chi lo ha visto sia una sorta di prosecuzione del pensiero di un oscuro microfonista, dicendo al prossimo di vederlo per conoscere aspetti che il cinema rende validi e pregni di significato. Una lezione da imparare, sopratutto se poi si resta nell'anonimato della dedica di un libro, mettendo su carta le emozioni consegnate e quindi non perse come per tutto il film.
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Le Avventure Galanti Del Giovane MolièRe (Molière)
TITOLO ORIGINALE: Molière
NAZIONE: Francia
GENERE: Commedia
DURATA: 120 min. colore
DATA DI USCITA: 06 Aprile 2007
CAST TECNICO E PRODUZIONE
REGIA: Laurent Tirard
SCENEGGIATURA:
Laurent Tirard
Grégoire Vigneron
SOGGETTO:
Laurent Tirard
Grégoire Vigneron
PRODUZIONE:
Olivier Delbosc produttore
Marc Missonnier produttore
Christine De Jekel produttore esecutivo
MONTAGGIO: Valérie Deseine
FOTOGRAFIA: Gilles Henry
SCENOGRAFIA: Françoise Dupertuis
COSTUMI:
Gilles BoduLemoine
Pui Laï Huam
PierreJean Larroque
MUSICA: Frédéric Talgorn
PERSONAGGI E INTERPRETI
Romain Duris JeanBaptiste Poquelin dit Molière
Fabrice Luchini M. Jourdain
Laura Morante Elmire Jourdain
Edouard Baer Dorante
Ludivine Sagnier Célimène
Fanny Valette Henriette Jourdain
Mélanie Dos Santos Louison
Gonzague Montuel Valère
Gilian Petrovsky Thomas
SophieCharlotte Husson Madeleine
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Trama Francia, 1644. Il commediografo Molière è ridotto senza soldi e deve cercare di pagare i suoi creditori. L'occasione di pagare i debiti potrebbe venire da un ingaggio artistico sotto mentite spoglie presso il ricco Sig. Jourdain, che ha bisogno di interpretare un atto unico per sedurre una ricca vedova. Ma il destino vuole che la trascurata moglie del ricco e bizzoso Jourdain ....
Commento: Innanzitutto il titolo italiano, che come al solito storpia signifcati e intenti nel tentativo di far sembrare il film qualcosa che non è. Con un titolo simile si potrebbe pensare a una sequela di corteggiamenti senza fine per ripetere una sorta di Casanova style con tutte le donne che cadono ai suoi piedi, quando invece in tutto il film il vero amore è solo uno. E oltretutto il fine e gli intenti di Laurent Tirand non sono quelli di raccontare una storia in costume in cui si susseguono fughe per l'arrivo dei mariti e flirt boccacceschi, ma di riuscire a tracciare un percorso narrativo in cui il grande commediografo si trova a dover scegliere tra onore e sentimento, tra arte e convenienza, frenando la sua voglia di tragedia per rimanere a fare commedie. Durante il film il lunghissimo flash back ci dimostra come il giovane Moliere apprenda dall'avventura presso il fastoso castello la futilità dell'etichetta e di alcuni comportamenti, e dell'importanza di rallegrare umili contadini lungo il paese piuttosto che annoiati ricconi, della forza di alcune donne contrapposte ad altre che, anche se trascurate, riescono ad avere una coscienza personale che gli permette di poter avere avventure molto più pregne delle futili conoscenze di palazzo.
le due figure femminili che predominano nel film, cioè Elmire Jourdain ( interpretata in maniera splendida da una Laura Morante solare e decisa ) e Célimène ( Ludivine Sagnier, rossa dalla bellezza catturante ), sono contrapposte in un gioco di valori ben preciso : la moglie dell'ingenuo Jourdain ( un Fabrice Luchini stralunato e farfallone ) costruisce nella assoluta trascuratezza da parte degli altri e del marito fondamenta convinte di come va gestita la famiglia anteponendo le proprie gioie a quelle della figlia, assorbendo e catalizzando gli stimoli del mondo esterno, rinunciando a ciò che tiene di più per un plusvalore meno stimolante ma più nobile, cosa che invece non fa la egocentrica vedova che raduna folle di cortigiani solo per glorificare se stessa e il proprio sogno di centralità, considerando i regali unico pregio nella corte che riceve da un uomo, incurante dei sentimenti che questo ha per lei.
Tutto il film è una colorata ricerca in costume di una verità del come e perchè fingere, del non essere se stessi per nascondersi oppure per prevalere, quando invece in fondo i nobili reali sentimenti di Moliere sarebbero adeguati e paganti anche all'interno della grande commedia della vita, come dimostra la rappresentazione nel finale . Non a caso viene infatti ripresa l'intera vicenda, l'unica cosa che può fare grande una commedia che sa far anche piangere: le storie autentiche della vita. Lo step che permette a un grande spettacolo di uscire dai versi per entrare nei cuori parla di noi stessi, che sembriamo tanto banali eppure così profondi nelle nostre diuturne quotidiane monotonie.
In questo senso il film è grande, ma non è solo venato di filosofia, in quanto i costumi sono stupendi, le locations strepitose, la recitazione davvero convincente con la Morante e Romain Duris in cattedra, e si sorride spesso anche se qualche volta amaro, come si conviene nelel intenzioni dell'autore, visto il terribile senso di spreco sia artistico ( i maestri costretti a fare anticamera ) che monetario che governa i luoghi dove un grande autore si rifugia per colpa del mancante vil denaro.
Una menzione particolare oltre che alla Morante va a Duris ( che ricorderete per "L'appartamento spagnolo" ), un autentico gigione con dei numeri artistici non da poco, che folleggia geniale lungo il film, senza mai fermarsi dal parlare o recitare per la troppa tempesta emozionale, verso l'arte e verso la nobildonna, che lo pervade. Mossette, imitazioni ed espressioni sono da gran mattatore.
Un gran bel film in definitiva, leggero da interpretare per la sua perfetta codificabilità ed espletamento dei concetti, che non si accontenta di divertirci con il colore sfavillante ma vuole anche mostrarci che nella vita esiste un grigio imperdibile completante, generato paradossalmente insieme alla gioia della risata per riflettere con il dovuto ottimismo sulle difficoltà, costruendo un trampolino per superarle. Imparata la lezione, possiamo andare sicuri per il mondo come Moliere a parlare di noi, sicuri di non essere mai banali anche parlando di cose semplici nella tragica commedia della vita.
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Allegati: 1
The Descent - Discesa nelle tenebre
(The descent)
Regia di Neil Marshall.
Interpreti: MyAnna Buring, Craig Conway, Natalie Jackson Mendoza, Molly Kayll, Stephen Lamb, Shauna Macdonald, Oliver Milburn.
Genere Horror
99 minuti.
Gran Bretagna 2005.
Trama:
Sarah
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benvenuta Verde Irlanda tra i critici speriamo di leggerti ancora presto
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complimenti anche da parte mia ovviamente sopratutto per la capacità di sintesi che a me manca totalmente... :-)
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Nero Bifamiliare
Cast Artistico
- Marina: Claudia Gerini
- Vittorio: Luca Lionello
- Slatko: Emilio De Marchi
- Bruna: Anna Marcello
- Carlo Nobili: Max Giusti
- Maruska: Ilaria Cramerotti
- Mamma di Marina: Cinzia Leone
- Carmine: Ernesto Mahieux
- Dott. Salini: Yari Gugliucci
- Macellaio: Alessandro Di Carlo
- Colonnello Piacentini: Remo Remotti
- Ossobuco: Adriano Giannini
Cast Tecnico
- Regista: Federico Zampaglione
- Soggetto e Sceneggiatura: Rudolph Gentile, Federico Zampaglione
- Aiuto Regia: Inti Carbone
- Direttore della Fotografia: Arnaldo Catinari
- Scenografo: Tonino Zera
- Costumista: Nicoletta Ercole
- Montatore: Consuelo Catucci
- Musiche: Tiromancino
- Casting: Roberto Bigherati
- Fotografo di scena: Nico Marziali
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Trama: Marina e Vittorio comprano una casa lussuosa e gigantesca con ampio giardino, che lei cura con amore per una passione smodata per i fiori. Vivendo di un lavoro modesto e arrotondando con piccoli espedienti Luca si trova di fronte alle difficoltà di pagare il mutuo e vorrebbe aprire un sito di compravendita via Web, ma gli strani vicini di casa sembrano intenzionati a non lasciare tranquilla la coppia...
Commento:Nero Bifamiliare è il classico film minore impreziosito da una sua dignità per la buona volontà di voler raccontare una storia. Di solito questi film che partono timidi e con un budget non proprio faraonico, sono dettati dalla buona volontà del regista ( Federico Zampaglione, marito della Gerini, alla prima prova registica e fondatore del gruppo musicale i Tiro Mancino, autori delle musiche ) di raccontare una storia che sente propria e quella magari di un attore o attrice ( nel caso specifico la Gerini ) di eseguire una parte diversa dal solito in un film senza troppe ansie di riscontro al botteghino, permettendo di esprimersi liberamente. Zampaglione prende i classici canoni dell'ossessione per chi può, essendo un tuo limitrofo, interferire e distruggere la tua vita, la porta ai limiti estremi permettendosi di inserire delle scene simil oniriche da viaggio trip. Ossessione del non dormire tranquilli, difficoltà di costruire visto il pericolo vicino e costante, disagio per giustificarsi con amici e parenti (a questo proposito è molto bello vedere Cinzia Leone, che fa la madre di lei, sulle scene in una parte nevrotica nicotino-dipendente quasi ad esorcizzare i ricordi della terribile malattia realmente subita) sono degli step sempre più marcati man mano che la pellicola scorre. Varia umanità scorre sullo schermo, purtroppo con poca fantasia di caratterizzazione e senza troppe diversità di situazione (il portiere che legge i fumetti pornografici con davanti un serio periodico che sa tutto quasi fosse un oracolo continuamente interpellato, gli amici coatti e sbruffoni, i vicini trucidi con segreti che hanno dialoghi al limite dell'orripilante con una realtà di fondo che intuiamo abbastanza alla svelta sin dallle prime schermaglie),oppure ai limiti della paranoia abbastanza gratuita e poco affascinante(come il medico ossessionato dagli insetti). Il senso della corrosione da paranoia viene visivamente dettato da un abbruttimento fisico di Vittorio (un Luca Lionello in parte, presente anche in Sangue-la morte non esiste, guarda caso un altro film con delle zanzare citate) che cerca di nascondersi alla vista, contrapposto a quello della Gerini che cerca di mantenere un stato di bellezza apparente per non rovinare una facciata di fronte al mondo.
La Gerini tra l'altro si concede a degli strip sensuali e provocanti, con della lingerie di grande impegno da portare solo avendo un fisico adeguato, fisico che lei concede alla vista senza problemi sia in versione costume da bagno che minigonna stratosferica.
Il film è ambientato durante i mondiali di calcio del 2006 per uno scopo ben preciso e non solo per comoda celebrazione verso lo spettatore che si identifica affettivamente subito con l'avvenimento, ha un suo preciso fine, riuscendo a trovare un escamotage di effetto e di sorpresa.
Questi film sono delle piccole coraggiose ricerche di boccate di ossigeno, che potrebbero avere una maggiore valenza se si proponessero in maniera meno stereotipata e pasticciona, disperdendo in piccoli inutili ritratti di umanità qualunque abbastanza monotoni e scontati, il proprio valore di base partendo da un plot intelligente.
I novanta minuti di cui è composto questo puzzle di guarda e patisci, sintomo dell'invidia ma anche delle difficoltà di codificare bene il carattere delle persone, scorre abbastanza bene ma purtroppo non graffia e si disperde, penalizzato anche da musiche e canzoni inserite solo per dovere di produzione e non vera coniugazione con il visivo poco stimolanti.
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Perfect Stranger (2007)
Genere: Drammatico Thriller
Durata: 109 min.
Data uscita nei cinema: 13/04/2007
CAST
Bruce Willis interpreta Harrison Hill
Halle Berry interpreta Rowena Price
Giovanni Ribisi interpreta Miles Haley
Gary Dourdan interpreta Cameron
Nicki Aycox interpreta Grace
Jason Antoon interpreta Bill Patel
James Foley regia
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Trama: Rowena e Miles sono due abili incastratori di personaggi famosi tramite elaborate registrazioni. Un misterioso omicidio li porta sulle tracce di un facoltoso uomo di affari...
Commento: prendete due attori belli e famosi che si riuniscono per creare un thriller a tinte fosche (Halle Berry e Bruce Willis ), un regista in crisi d'ingaggi ( James Foley dal 2003 con <i>Confidence</i>, protagonista Dustin Hoffmann non dirigeva più, ma ricordiamo anche il film con Madonna <i>Who's that girl</i>) che vede la ghiotta occasione per lavorare con due star su plot non difficilissimi, creiamo una parte per una spalla (Ribisi) e aggiungiamo tanto hi-tech, frulliamo il tutto ed abbiamo uno dei thriller più sbilenchi della ultima stagione.
Poverissimo di invenzioni per lo meno decenti, squallido in dialoghi del tutto stereotipati, questo <i>Perfect stranger</i> rappresenta la pillola ideale per chi vuole farsi una bella dormita risparmiandosi l'assuefazione, concedendo al sonno ristoratore un ben più importante ruolo nella nostra vita di questi 100 minuti inutili.
Halle Berry aveva voglia di fare un film, dopo anche il sinuoso ruolo di Catwoman, che rendesse visivamente la bomba sexy qual'è, bella ma anche un po' cinica. Niente di tutto questo si vede sullo schermo: le situazioni sono al limite del paradossale, ci si perde tantissimo nel chiedersi perchè e per come succede questo o quello, oltretutto il regista indugia e si sofferma su glamour e ricevimenti oltre il tempo utile (abbiamo anche un cameo di Heidi Klum doppiata stile gallina), l'azione si muove al rallentatore e la camera sembra avere una calamita sul sedere di Halle. Decisamente lei fa la sua grande figura in vestiti chic e di firma, esegue delle movenze e delle scelte di zona da profumare molto intriganti (vedere per credre), ma non riesce minimamente a trascinare in un pathos con una recitazione convinta una storia scricchiolante piena di personaggi che hanno esploso addosso tutti il marchio di Sex and the City. Riempiendo il plot dell'uso di pc e oggetti hi-tech sembrerebbe che il terrore che corre sul messenger potesse ricavare nuovi orizzonti di tensione, ma invece abbiamo un effetto contrario di repulsione per troppa ingerenza della necessità di giustificare ingressi pirata nel web che non muove minimamente la trama.
In uno sfacelo totale di inutili concatenazioni si salva solo la gradevole presenza di Bruce Willis, gigolo' snob e duro come si deve sottoutilizzato. Tutto superficiale, tutto scontato, tutto monotono anche se visivamente corretto nella messa in scena dei locali, con un finale da far accapponare la pelle tanto privo di qualunque fascino. Inutile che lo dica a questo punto, evitare con cura.
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L'ultimo Inquisitore
(Goya's Ghosts, Spagna, 2006)
Regia di Milos Forman
con Javier Bardem, Natalie Portman, Stellan Skarsgård, Randy Quaid, Blanca Portillo
106', Medusa, drammatico
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Trama: Spagna,1792, il pittore Goya vede la sua prediletta e musa ispiratrice rinchiusa dalle crudeli istituzioni religiose dell'inquisizione per eresia, confessata sotto tortura. Colpita profondamente da questo fatto, il pittore fa di tutto per liberarla insieme al padre della ragazza, ma il terribile Lorenzo l'inquisitore ostacola ogni tentativo fino a che egli stesso non rischia di cadere vittima dell'inquisizione per colpa di un tranello genialmente ordito...
Commento: Il grande Milos Forman torna a dirigere e lo fa regalando, a noi spettatori, un grande affresco sulla situazione politico sociale della Spagna alla fine del 1700 inizio 1800.
Il tutto viene visto attraverso gli occhi ma sopratutto le pitture del grande pittore Goya (Stellan Skarsgård, Dogville e L'esorcista la genesi), che con la sua opera testimonia il flusso degli avvenimenti. Forman sceglie di usare un sistema spot (inserendo le figure dei dipinti al momento giusto) per far capire quanto Goya assorbisse dalle vicende del suo paese per mettere sensazioni e situazioni su tela. Come in Amadeus, il protagonista non è l'artista ma il suo antagonista (un ispirato Javier Bardem, Mare dentro), che prende le situazioni e le volge a proprio favore senza un briciolo di aderenza a una ideologia di bandiera. Si ripete più volte nel film chiaramente il concetto preciso di una popolazione che non impara mai dai propri sbagli (come dichiarato dal regista), tornando su se stessa anche dopo patimenti e i vari cambi di regime. Sono gli uomini singoli che conservano un valore di appartenenza alla stirpe della coscienza, e anche nei momenti più difficili non perdono mai lavoglia di lottare, come Goya, e qualcuno può riscattare i suoi errori pagando ampiamente il dazio ma conservando l'onore.
Forman per questa stupenda rappresentazione mantiene uno stile da camera in quanto le scene si svolgono sopratutto in interni (ne abbiamo solo una grande in esterni e campi lunghi che tra l'altro è abbastanza veloce con un dispiego di uomini e cavalli spropositato per la sua importanza nella storia ma molto bella visivamente), con luci sempre ben dosate, utilizzo massiccio di candele e in quelle delle segrete delle ombre sulla scena di primissimo livello.
Raccontandoci le terribili sofferenze della giovane Ines (una strepitosa Natalie Portman, la principessa di Star Wars) viviamo in maniera completa la totale sottomissione che si ha di fronte all'inquisizione, che vive imponendo terrore e torture, sistema quanto mai comodo per liberarsi di avversari politici.
Ma l'incredibile è, come si diceva prima, che la memoria storica nonostante le sofferenze, è quanto mai corta e sopratutto non impara dai propri errori.
Javier Bardem con il personaggio multiforme di Lorenzo, sintetizza l'intenzione illogica di preservare i propri beni ad ogni costo, anche quando questi possedimenti non hanno nessuna capacità di portarci gioia vera, inutili per rimediare agli errori del passato.
Terreni, soldi, ricchezze sono nulla rispetto all'amor per la propria patria e per l'arte che ne difende l'unità politica e denuncia i sorprusi, più affilata e pericolosa della spada in quanto ci si identifica con un solo sguardo.
Forman usa la simbologia animale per chiarire il concetto di una fondamentale ignoranza di base, asini e galline, che brucano e corrono pasteggiando e seguendo la corrente del pensiero del momento.
Chi si avvicina a questo film con l'idea di approfondire l'opera di Goya resterà deluso, non sono questi gli intenti (sui titoli di coda comunque appaiono parecchie opere del maestro,senza commenti), il pittore viene visto come l'animo sordo di corpo ma non di spirito, contraltare dell'egoista Lorenzo e del vuoto senso di potere della monarchia, tutta impegnata a notare gli autoritratti da mettere nei sontuosi palazzi e non a fermare la mano crudele dell'inquisizione. Questa analisi dettagliata sugli stili pittorici non c'è (tranne veloci cenni visivi alle composizioni delle acqueforti), ma invece abbiamo una ricostruzione sontuosa, grande lavoro fotografico, costumi ottimi, ma sopratutto una storia coinvolgente dall'inizio alla fine supportata da un trio di attori perfetto, che ci avvicina non solo alle opere in maniera fine a se stesse ma alle sensazioni che esse trasmettono.
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Last minute Marocco (2006)
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Genere: Commedia
Data uscita nei cinema: 13/04/2007
Un film di Francesco Falaschi. Con Valerio Mastandrea, Kesia Elwin, Lorenzo Balducci, Daniele De Angelis, Jamil Hammoudi, Esther Elisha, Nicolas Vaporidis, Paolo Sassanelli, Gabriella Barbuti, Babak Karimi, Vira Carbone, Paolo Stella, Bianca Ciocca, Stefano Dionisi, Maria Grazia Cucinotta. Genere Commedia, colore, 88 minuti. Produzione Italia 2006.
Trama : quattro ragazzi partono per il Marocco con l'intento di seguire un concerto e fare una vacanza alternativa. Non avendo il permesso dei genitori (divorziati) uno di essi, Valerio, deve arrangiarsi per sfuggire alle ricerche del padre che si sente in colpa di non averlo seguito abbastanza. Ma giunti nel paese africano sorgono altri problemi a causa di una bella ragazza italiana di origini marocchine...
Commento: Last minute Marocco si può riassumere nell'idea del regista e dei produttori (presente in questo senso anche la Cucinotta che recita anche brevemente) in questa maniera: basta con le commediole giovanili in Italia, ormai consunte e senza valore, facciamo una commediola giovanile ambientata in Marocco. Questo è il senso del film, che ci guadagna soltanto per gli splendidi paesaggi e null'altro, perchè cambiando lo sfondo non si stravolge il risultato sostanziale. Tra l'altro si mette in evidenza la presenza del divetto per ragazzine Nicolas Vaporidis (reduce dalle due <i>Notti prima degli esami</i>) proprio per non allontanare un concetto attirapubblico settoriale partendo da un film che di base potrebbe essere altro. La messinscena operata da Francesco Falaschi (<i>Emma sono io</i>) non ha assolutamente nulla di nuovo rispetto al solito: abbiamo il ragazzo sensibile, lo sfigato serio e inquadrato, il coatto a caccia di ragazze, l'amico che vende fumo. Per cercare di elevare il tono del film, sperando di coinvolgere nel pensiero di chi assiste anche ricordi di recenti fatti di cronaca nera, si parla di fidanzamenti tra italiani e mediorientali con mille difficoltà, rapporti genitori figli sull'orlo del tracollo, ma non c'è nessun segno che queste difficoltà relazionali abbiano una panacea e una cura nel viaggio che si sta per intraprendere. Un viaggio caciarone, legato alle donne e alla maria (la religione non c'entra nulla ovviamente) e senza una vera attrattiva, che scorre monotono tra discoteche (abbiamo anche un ballo con sottofondo di Village People) e belle ragazze che sembrano spuntate proprio nel momento giusto.
Si salva in questo deja vu e monotonia insulsa, cercando di tratteggiare un ritratto di padre decente preoccupato per il figlio, Valerio Mastandrea, con una recitazione che a pelle trasmette le sensazioni delle colpe presunte e del disagio di rifarsi una vita.
A condire e chiudere il tutto preziosismi futili come tramonti ricercati senza logica di trama e le musiche sparate a casaccio e per nulla attinenti alla scena che sono hit italiane del momento come da becera tradizione di genere.
Evitate accuratamente questa commedia qualunque mascherata da viaggio per la conoscenza.
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La masseria delle allodole
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TITOLO ORIGINALE
La masseria delle allodole
TITOLO INTERNAZIONALE
The Lark Farm
NAZIONE
Italia/ Bulgaria/ Francia / Spagna/ Gran Bretagna
GENERE
Drammatico
DURATA
122 min. (colore)
DATA DI USCITA
23 Marzo 2007
REGIA
Paolo Taviani, ...
SCENEGGIATURA
Paolo Taviani, ...
DISTRIBUZIONE
01 Distribution
PROTAGONISTI
Paz Vega
Moritz Bleibtreu
Alessandro Preziosi
Ángela Molina
Mohammed Bakri
Tchéky Karyo
Mariano Rigillo
Hristo Shopov
Trama : nel 1915 una famglia armena sente lontana la guerra in atto tra Russia e Turchia, e convivendo pacificamente in territorio Turco vive giornate tranquille in condizioni agiate. Ma questa felicità è destinata a non durare, e dopo la morte dell'anziano patriarca un sinistro presagio sembra purtroppo realizzarsi...
Commento: Dal libro di Antonia Arslan. Gli Armeni che anticipano la tragedia Ebrea, persone piene di cultura e intelligenti che costruiscono ricchezze in seno a uno Stato che li accoglie con un occhio di cupidigia verso questo florido benessere, pronto a carpire ogni loro bene invidioso e timoroso di tanta prospera capacità. La Masseria del titolo è la casa di campagna, una sorta di Last Hope privata in cui loro non devono vivere a contatto con una popolazione che nemica non è, per il momento, ma che di fatto non ha di buon occhio la loro presenza. Nella Masseria ci si sente liberi, tranquilli, e difatti diviene una sorta di inutile eremo per cercare di uscire dagli orrori della persecuzione.
Ma anche quando ci si autocostringe nella riserva la cosa sembra non bastare, in quanto la furia cieca dell'odio e della violenza non ha confini, e non si deve fare come il bambino perchè inutile nascondersi ma bisogna combattere. Questo sembrano dire i Taviani in questa opera che racconta la storia di una famiglia e piena di simbologie, iniziando il film con una citazione strepitosa da Quarto potere con il chicco d'uva che cade (citazione poi ripresa con una mela in una forma diversa per simboleggiare che si lascia la tentazione di trovare un paradiso per conservazione la dignità). Rendendo in immagini il loro stesso scibile filmico, i due fratelli registi iconizzano la sofferenza nella croce che viene utilizzata per le sofferenze delle donne e nella presa delle cose più care. Non a caso infatti all'aspirante pugile che cerca l'America (immagine del sogno) viene tagliato il braccio, al dottore che salva le vite impedito di metterne al mondo altre, alle donne i loro uomini costretti ad abbandonarle mentre i Turchi approfittano di esse.
Un lavoro sentito e composito, che prosegue man mano introducendo nuove situazioni e scenari rispetto alla fase di inizio, coinvolgendo i parenti italiani. La cosidetta fase dell'uva (prosperità iniziale degli acini maturi nella prima inquadratura, poi speranza garzie al gioiello che ritrae i frutti della vendemmia) vive fasi alterne di acidità e speranza, metro e bilancia della disperazione e della voglia di ribellarsi a un destino segnato.
La scena clou del pathos tiene a morte e battesimo un bimbo, stritolato disperatamente, atto a mostrarci quanto un popolo sta soffrendo nella morsa di due belligeranti. Belle scene sicuramente, adeguata musica ad accompagnarle, e a maggior pregio non ci si cura di non mostrare il sangue (che vediamo dalla prima scena e per tutto il film con continui rimandi ai colori dei vestiti). Il film però, nonostante tutti questi pregi, un difetto di base l'ha, la mancanza di un cast all'altezza dell'impegno della storia e di alcune colpevoli cadute nel romanzo tv in alcune situazioni che estraniano. La presenza di Preziosi non è certo una punta di diamante e rimane ancorata al Conte Ristori di Elisa di Rivombrosa, senza nessun sussulto di maggiore autentica drammaticità, mentre Paz Vega, nota per aver lavorato con Almodovar in Parla con lei ma sopratutto per aver mostrato le sue grazie con Lucia y el sexo e alcune commediole, una con Adam Sandler (Spanglish), non è certo attrice per rendere bene una parte principale e composita come quella che interpreta sentitamente ma con risultati scarsi (mostrando senza problemi anche se in scene molto pudiche le sue grazie notevoli). La presenza poi di un attore fondamentalemnte brillante come Dussollier (Cuori di Alain Resnais) nei panni di un gerarca dell'esercito, sembra più una partecipazione da guest a uno sceneggaito tv tanto la parte gli è estranea.
Anche alcune scelte di trama sono forzate e un po' troppo debitorie della fiction tv, come il finale forzato per arrivare a una certa situazione di pathos anticipatrice del coro di conferma della volontà dei giovani turchi di non volere le minoranze indesiderate, oppure coem il soldato buono in una tenda ordinatissima, non degna della soldataglia che vive intorno.
Ma nonostante questi difetti di partecipazione recitativa e di cadute situazionali (comunque brevi), abbiamo un film validissimo con una voglia precisa di richiesta di denuncia di un massacro da parte di chi l'ha compiuto anni indietro, una serie di scene emozionanti e alcune citazioni-iconografie di tutto rispetto. Non sfigura affatto l'immagine del film che i libri in fondo sono tesori, dato che quello che i Taviani ci hanno raccontato è un piccolo gioiello da conservare per cercare anche noi di capire quanto il passato sia importante, anche se una storia sembra tanto lontana da non poter più avere influenza su nulla.
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The good sheperd, l'ombra del potere
Cast : Martina Gedeck, John Sessions, Matt Damon, Robert De niro, Angelina Jolie, Billy Crudup, Alec Baldwin, Michael Gambon, William Hurt, Timothy Hutton
Regia Robert De niro
Sceneggiatura Eric Roth
Durata 02:47:00
Data di uscita Venerdì 20 Aprile 2007
Genere Thriller
Distribuito da MEDUSA (2007)
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Trama--- la nascita della Cia, le difficoltà di gestire i rapporti famiglia ed interpersonali quando si è un agente operativo, le logiche che la regolano e il dolore di dover fare azioni moralmente scorrette per un dovere di risultato di risultato esatto. E sopra tutto l'occhio vigile di chi ti controlla e di chi ti guarda, come un pastore che regola le proprie greggi nel più assoluto anonimato...
Commento: quando un grande attore, anzi, uno dei più grandi di sempre, si cimenta nella regia, è inevitabile che tutte le tecniche che egli ha assorbito a pelle dai registi (tanti con la R maiuscola) vengano poi applicate nel suo lavoro direttivo. De Niro (mi sembra superflua qualunque citazione esemplificativa di suoi lavori precedenti) raduna per questo film sugli albori e del come e perchè della nascita della Cia un cast di stelle (Hurt, Damon e Jolie in primis) concedendosi una breve sporadica (ma terribilmente significativa) presenza in qualche punto del film. Come negli insegnamenti avuti dai grandi ( Leone in primis con “C'era una volta in America”) il neo regista sa che il lavoro a flash-back è quello maggiormente performante per i buoni risultati quando si intende raccontare una vicenda che affonda le sue radici nel passato (in questo caso la seconda Guerra Mondiale) per farla prepotentemente riaffiorare in superficie al momento della ripresa del nodo della vicenda attuale. Costruendo su eventi successi nel apssato possiamo capire come mai l'irreprensibile agente interpretato da Damon abbia un tale senso del dovere, vediamo che comunque non è scevro di sentimenti, e che nonostante egli scelga la strada retta per restare ligio al dovere queste decisioni sono per lui fonte di sofferenza, uomini che lavorano per la patria ma poco per se stessi, prima l'agenzia (il cui statuto è stato curiosamente scritto da Ian Fleming, l'autore di 007) e poi Dio come detto nel film, esemplificando nella scena del ringraziamento prepasto il tutto. In maniera raffinata e ben bilanciata partiamo da un inizio che ci fa capire quanto il lavoro possa essere sporco (lotta nel fango e successiva urina), ma ancora di più nel proseguo vediamo come le cose più sporche avvengano in fondo in famiglia, dovendo chiudere in una bottiglia i sentimenti così come le barche che alzano le vele solo quando sono rinchiuse, possono esserci ma non devono uscire. I due comparti (seconda guerra mondiale e primi anni 60) non sono due grandi blocchi contrapposti ma si alternano sapientemente in una crescita parallela (azione e ragione della),
e continuando con essa vediamo come la necessità di un lavoro sotterraneo per coprire falle e scoprire spie (il tutto ricordiamo che avviene durante i periodi più bollenti della guerra fredda per la conquista politica di Cuba, da parte dei Russi per tenere allineato Fidel Castro) possa essere vanificato anche dal più piccolo particolare imprevisto, e che anche mezzi per l'epoca tecnologici possano non tenendo conto del valore emozionale portare a un risultato completo e a scoprire verità nascoste.
Il plusvalore occulto di questo film sta nel fatto che la vicenda procede con una accorta lentezza, dando il senso del tutto come se fosse una vera indagine, ma per mantenere il corpus di attenzione e non far cadere nel torpore lo spettatore il flashback (con narrazione più spigliata e meno debitoria di meccanica lenta) viene utilizzato come spiegazione e movimento, scelta quanto mai intelligente e mirata.
DeNiro offre ai suoi numerosi estimatori una prova decisamente sfavillante nella direzione, sia come valore tecnico che direzione degli artisti, (notevole la fotografia con dei chiaroscuri di ovvia simbologia) che non cade assolutamente mai nel banale e che centralizza la figura di Damon a totale mattatore (le altre stelle in fondo sono comprimari oltretutto dallo scarso minutaggio in presenza), graffia al vetriolo (“qualcosa mi sta mangiando le gambe, mi stanno tagliando i piedi pezzo per pezzo” dice il grande occulto da lui interpretato) e oltretutto rischia senza problemi senza mai dotare di inseguimenti esasperati, sparatorie esagerate (gli omicidi avvengono di solito secondo la teoria de il “Cacciatore”del colpo solo) in una filologia perfetta di ragioni sommesse e azioni nascoste, chiudendo il suo arco di narrazione in una ideologia di totale chiusura verso il mostrarsi esterno.
Se un difetto lo vogliamo trovare sembra mancare un po' il fascino dell'invecchiamento umano, dove in fondo solo un paio di occhiali dalle lenti più marcate non danno vera idea della maturità, separando in maniera visivamente meno netta i due periodi.
Lo spettatore che si avvicina a questo lavoro dalla durata extra (167 minuti) deve farlo in una ottica di attesa e di svolgimento paziente, con attenzione, con al soddisfazione di profanare luoghi sacri di un America timorosa che un tempo preferiva anche agire underground e non apertamente come adesso, tronfia e sicura delle sue invincibili legioni che possono conquistare al di là delle ragioni o della logica.
Grazie Mitico Bob.
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I racconti di Terramare
Titolo Originale: GEDO SENKI
Regia: Goro Miyazaki
Interpreti: -
Durata: h 1.55
Nazionalità: Giappone 2006
Genere: animazione
Al cinema nell'Aprile 2007
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Trama : un giovane dotato di straordinari poteri magici, incontra Sparviere, un mago che gli fa da Mentore nel suo cammino di ricerca della conoscenza e per affrontare i crudeli scopi di Aracne, un mago nero deciso a...
Osservazioni : quando un maestro assoluto dell'animazione ha un figlio, sembra quasi logico che la progenie debba dedicarsi alla stessa arte tanto nobilitata dal padre (come dimenticare Il castello errante, La città incantata o la Principessa Mononoke ma in fondo tutta la sua opera omnia), l'unica cosa che dobbiamo tenere conto è che in questo caso non possiamo vivere di veri inaspettabili parametri ma quanto più di assimilazione, perchè sarebbe impensabile che al primo lavoro si possano raggiungere fasti passati con tanta sublime poesia. Questo film di Goro figlio di tanto Hayao, prodotto come sempre per i lavori paterni sotto l'egida dello Studio Ghibli, abbandona la filosofia delle tipologicamente stranissime, ma geniali, macchine volanti o della meccanizzazione esasperata per concentrarsi sulla magia, sulle trasfigurazioni draghesche (già viste anche ne La città incantata)e sulla paura e nobiltà in chiave ombre minacciose o nobili rapace (come il nome del grande mago o delle trasformazioni di Aracne). Il film ci parla di spade che possono cambiare il destino, di coraggio e di fiducia da indurre negli altri per la propria persona in modo da poter agire sicuri di avere un appoggio, di biechi servitori e popolazioni rassegnate che non trovano la luce (come nella scena del carro dove solo Erran si risveglia dal suo torpore) per ribellarsi alla tirannia e al giogo delle catene.
Tutte cose che però sono solo induzioni da passato e reminescenze di altri lavori che non vengono trasposte in immagine autoriale (la scena del drago che vediamo sul cartellone è tipica di altro cinema stranoto anche se deriva da tradizione diversa) e significativa, frullando il fantasy del cavaliere errante appoggiato da un Gandalf mentore, con la ricerca di se stessi e non solo delle proprie pallide ombre di esistenza, con personaggi comprimari in fondo stereotipati e di poco spessore come il gruppetto delle guardie inefficaci.
I disegni sono sottotono rispetto agli standard supremi del padre, con degli sfondi molto semplici e mai ricchi di grandi particolari privilegiando la struttura agreste rispetto a quella urbana (abbondano scene con prati e cieli, mentre quelle nelle città sono meno presenti e non raggiungono profondità multistrato significative, come avveniva ne La città incantata), con i movimenti meno morbidi e dettagli dei personaggi meno marcati.
Oltretutto la cerchia dei protagonisti è ristrettissima, e mancano del tutto le icone antropomorfe che vedevamo popolare in maniera splendida i sopracitati lavori, disperdendo la lettura delle ricercatezze di citazione da filosofia orientale.
In definitiva questi Racconti di Terramare (precisiamo che la storyline è unica e non si tratta di diversi episodi come qualcuno potrebbe credere) sono molto un dejavu e senza un grande fascino, possono garantire un divertimento ristretto nelle due ore di proiezione, ma la mancanza di poesia, ricercata e densa di significati presente solo nelle stupende canzoni di Terru, oltre al fatto che non c'è un cattivo di fascino, ci obbliga a gradinare verso il basso questa opera prima, attendendo altri lavori e sperando in risultati migliori, più complessi e meno semplici. Non bisogna comprimere le speranze degli esordienti, ma questo è il risultato di cui bisogna parlare indipendentemente dal volonteroso seme instillato su pellicola. Attendendo ovviamente a braccia aperte il ritorno anche del padre maestro.
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I dannati di Varsavia
Titolo originale: Kanał
Regia: Andrzej Wajda
Anno: 1957
Genere: Guerra / Drammatico
Durata: 95 minuti
Cast: Teresa Izewska, Tadeusz Janczar, Wienczyslaw Glinski, Tadeusz Gwiazdowski, Stanislaw Mikulski, Emil Karewicz, Vladek Sheybal, Teresa Berezowska
Trama: Una sparuta compagnia di 43 ribelli (corrispondente quasi alla nostra resistenza partigiana) nella Varsavia del '44, occupata quasi interamente dai tedeschi, è costretta a ritirarsi attraverso il sistema fognario (Kanał in polacco).
Commento: Una storia di guerra (che poi si diramerà in tre epopee parallele di diversi protagonisti), secondo film della trilogia bellica, insieme a Generazione (Pokolenie, 1955) e Cenere e diamanti (Popiół i diament, 1958) di quello che considero uno dei tre migliori registi polacchi del novecento (insieme a Munk ed a Kieslowski), Andrzej Wajda.
Pellicola molto pessimista, rappresentativa della situazione della Polonia in tempo di guerra, assediata sin dal ’39. La morale è chiara: non esiste speranza, i sentimenti (l'amore, la solidarietà fra compagni) non ci salvano dall'orrore: la guerra è guerra, è solo l'amore per la vita che ci spinge a strisciare negli abissi per trovare la via della salvezza, ma sperare di salvarsi è inutile, l'unica certezza è la morte o altra sofferenza. Concetto perfettamente coerente, se ci si pensa, con il titolo italiano: i dannati dell’Inferno sperano in continuazione di poter trovare la luce e di porre fine al loro tormento, ma ciò non potrà mai accadere ed in terra c’è solo altro dolore. L’accostamento Inferno – condotto fognario funziona a meraviglia, puzza e lamenti corrispondono all’immaginario collettivo di Inferno (per i più di provenienza dantesca ma anche di altra), con la sola differenza che i dannati hanno commesso peccati in vita, questi soldati invece non hanno colpa; ma questo parallelismo scaturisce dalla “traduzione” italiana del titolo originale che in realtà con essa non ha nessuna relazione di significato, quindi questa interpretazione rimane esclusivamente a livello di supposizione.
La cinematografia polacca riguardo alla seconda guerra mondiale si rivela ancora molto efficace come in Eroica (1958) di Andrzej Munk, anche se rispetto a questo Kanal è molto più schietto e diretto e molto meno "emotivo", nel senso che non si concentra molto sulle emozioni e sui pensieri delle persone - anche perchè non concede un minimo momento di pausa per esaminare i sentimenti dei personaggi, che sono continuamente incalzati dalla sofferenza, dalla paura di morire o di essere catturati dai nazisti - ma sulla loro condizione disumana di soldati in guerra. Insomma, per spostare l'attenzione dello spettatore sul lato emozionale della situazione abbiamo bisogno di momenti di "inattività", cioè di intervalli di tempo in cui si possa fare uso più o meno massiccio di dialoghi e/o nei quali la guerra non si manifesti esplicitamente (con esplosioni, sparatorie o con la sofferenza dei protagonisti) e questo accade pressoché in tutti i film di guerra che abbia visto: Full metal jacket (le scene delle "interviste"), La sottile linea rossa (i lassi di tempo inattivi tipici di Malick), Salvate il soldato Ryan, ma soprattutto Jarhead, Flags of our fathers, Letters from Iwo Jima o volendo spostarsi fuori dall'ambito della Seconda guerra mondiale, film come Glory - Uomini di gloria: è questo che ho trovato innovativo in questo film.
Inoltre mentre questo propone una visione totalmente pessimistica della guerra mentre in Eroica si cercava di bilanciare i due aspetti - non a caso è un film diviso in due episodi, il primo in chiave comica (ma senza dimenticarsi che la guerra non è uno scherzo, insomma come ha cercato di fare Monicelli ne Le rose del deserto senza riuscirci) ed il secondo in chiave seria.
Bellissime le musiche del polacco Jan Krenz (che ha collaborato spesso con Wajda e di nuovo con Munk in Eroica)
In definitiva un film magistrale, persino doppiato (anche se avrei preferito la versione sottotitolata) con un finale altrettanto magistrale ed interpreti molto bravi. Spero di poter approfondire il cinema polacco riguardante la seconda grande guerra (anche e soprattutto guardando gli altri due della trilogia) perché ha rivelato di essere intenso almeno quanto quello ben più conosciuto americano.
Voto: 8/9
P.S. Guardate che bello il manifesto, è un autentico quadro realizzato da un certo Jan Lenica nel 1957 apposta per il film.
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grande recupero Zazza...complimenti.postare questo dopo il tuo mi sembra quasi irriverente...
The Shooter
Mark Wahlberg interpreta Bob Lee Swagger
Michael Pena interpreta Nick Memphis
Danny Glover interpreta Col. Isaac Johnson
Kate Mara interpreta Sarah Fenn
Elias Koteas interpreta Jack Payne
Rhona Mitra interpreta Alourdes Galindo
PRODUZIONE
Antoine Fuqua regia
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Trama: un cecchino dell'esercito americano superspecializzato deve ritirarsi a vivere nascosto tra i monti per non incorrere in guai peggiori da aprte dei suoi superiori per aver visto troppo. Il suo isolamento però dopo tre anni viene a mancare in quanto deve sventare un attentato addirittura al presidente degli Stati Uniti...
Commento dopo essere apparso in The Departed, Mark Wahlberg interpreta questa parte di duro estremo specialista del tiro a lunga distanza dove in pratica è un OMA (One Man Army) totale, coraggioso e patriottico fino all'inverosimile incurante dei metodi per giungere allo scopo (ricorda molto del resto il personaggio di Jack Bauer del serial tv 24 in questo). Karatè, fucili, bombe, pistole, in questo film lui fa tutto e costruisce tutto, novello Rambo si fa ricucire ferite artigianalmente e senza nessun problema attraversa zone che pullulano di nemici con la sfrontatezza dell'uomo invincibile. Partendo da un prologo in Etiopia dove si viene a conoscenza della solita macchia sul passato dove qualcuno a lui vicino muore, e nel frattempo scopriamo quanto sia bravo nell'uso del fucile di precisione, l'azione si sposta negli Usa dopo un salto temporale di 3 anni per permetterci di urbanizzare le sue conoscenze e sopravvivere nella peggiore delle località selvagge, la civiltà, che lui aveva rinnegato per chiudersi nei boschi con il suo cane (affidandolo a un amico"Fagli leggere delle tabelle di balistica se si sente depresso"). Dopo aver citato Commando (nella scena dove vanno nella sua casa a contattarlo all'inizio) si passa per una straniante citazione di Rambo nell'autolavaggio, per poi continuare con ogni tipo di arma possibile e immaginabile aiutato dal più impacciato degli agenti dell'Fbi, camminando spinto dal vento delle esplosioni e del napalm al pomeriggio che sa di vittoria. Un film di grana decisamente grossa, prevedibilissimo nei suoi meccanismi, anche quando dovrebbero essere secondo gli sceneggiatori delle trovate geniali, che goffamente abbandona anche per qualche momento lo spara e rimbomba cercando la denuncia sociale di sistema ( ovviamente se non lo avesse fatto i risultati erano migliori, se di meglio si può parlare nell'ottica di un lavoro tanto basico). Le cose valide sono tecniche, invero le uniche buone, che Fuqua ci fa vedere (autore del molto più valido Training day) sono degli ottimi movimenti aerei di camera davvero suggestivi, aiutati nel comporre un quadro di bellezza estetica dalla natura sublime delle locations.
Nel film troviamo due vecchie conoscenze come Danny Glover (Arma Letalee Saw) e Ned Beatty ( Otis in "Superman" al fianco di Gene Hackman), incartapecoriti nella loro parte di sola alimentare presenza.
C'è tempo anche nel finale per citare il misconosciuto "Condannato a morte per mancanza di indizi", cercando il solito annacquato messaggio di provocatoria denuncia dei panni sporchi comunque lavati.
Un film scontatissimo e a tutta grancassa, senza nessun pregio particolare che può soddisfare un pubblico di soli amanti della potenza del Thx che viene messo a dura prova da continue esplosioni manco fossimo nel pieno di una guerra mondiale, o dei muscoli a tutto tondo, cercando solo una fugace presenza nella sala per trascorrere le due ore che mancano all'appuntamento in pizzeria, con un controllo sotto la sedia che non ci sia qualche residuo della violenza assolutamente esagerata esplosa sullo schermo descrivendo un Mub filmico anzichè un Bum.
Una curiosità: nel cast troverete Rhona Mitra, questa avvenente ragazza (apparsa nella terza stagione del serial Tv di NIp/Tuck) che si vede tra l'altro nel film molto poco, doveva essere Lara Croft in Tomb Raider prima che la produzione la scartasse per reclutare la Jolie.
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Sunshine
Cast Chipo Chung, Paloma Baeza, Rose Byrne, Cliff Curtis, Chris Evans, Troy Garity, Cillian Murphy, Hiroyuki Sanada, Mark Strong, Benedict Wong
Regia Danny Boyle
Sceneggiatura Alex Garland
Durata 01:57:00
Data di uscita Venerd
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Grazie Mars... per fare le recensioni devo solo trovare il tempo, il che è difficile fra compiti, scuola ed impegni vari...
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non dirmelo zazza...qualche volta mi sento come Silvio pellico e le mie prigioni...
Svalvolati On the Road
Titolo Originale: WILD HOGS
Regia: Walt Becker
Interpreti: Tim Allen, John Travolta, Martin Lawrence, Marisa Tomei, William H. Macy, Ray Liotta, John C. McGinley, Jill Hennessy, Drew Sidora, Coco d'Este
Durata: h - 100 minuti
Nazionalità: USA 2007
Genere: avventura
Al cinema nell'Aprile 2007
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Trama : quattro attempati amici di lunga data hanno abbandonato da tempo le loro motociclette e le loro voglie di libertà per vivere delle vite scialbe e piene di problemi. Uno dei quattro, di fronte all'ennesimo fallimento personale, decide che è il momento di tornare in sella e tirare fuori le polverose casacche di pelle dei "Maiali selvaggi"...
Commento dietro a un titolo italiano imbecille come non mai, (quello originale, Wild Hogs, si riferisce all'emblema delle loro casacche, un maiale che sbuffa) coniugazione quanto mai ardita di un termine slang italico con una parola inglese, si cela un film adeguatamente divertente, spassoso, leggero e con battute simpatiche che non sconfina mai nel volgare. Dopo un inizio con sipario a quadro nero che ci fa leggere il nome di ogni protagonista e poi ce lo descrive per darne un ritratto, parte uno dei viaggi più scalcagnati e sfortunati che si siano visti con l'intenzione di vivere vicino alla natura abbandonando legami e cellulari. I quattro protagonisti, variegati per tipologia di ticchi e problemi familiari, affrontano questo on the road movie con il piglio e l'intenzione di trovare una meta, un nuovo indirizzo di vita e nuove sicurezze di cui al vita normale sembra essere priva. Travolta rappresenta l'uomo realizzato di facciata ridotto ormai in rovina da troppi sprechi, quello che non avendo nulla da perdere accende la miccia del desiderio di rivalsa e ha l'idea del viaggio, Allen, quello in definitiva con meno problemi, fa il dentista con il colesterolo alto che d'accordo con la famiglia perfetta (moglie e figlio) deve rilassarsi dal rischio di uno stress alle porte e vuole dimostrare quanto vale al figlio, Macy è il programmatore di computer sfigato desideroso di compagna pasticcione che cerca di dimostrare a se stesso quanto vale, Lawrence vessato dalla moglie vorrebbe avere ben altro lavoro e rispetto. Quattro uomini in cerca di orgoglio, che sulla libertà delle due ruote troveranno quello che cercano.
Purtroppo, il limite di questo film sta proprio in questo: sappiamo già dall'inizio che dopo le dovute peripezie tutte le cose avranno un loro giusto compimento, che il viaggio li farà robusti e sicuri per cominciare di nuovo. L'introspezione psicologica è davvero minimale, non ci sono veri momenti di grande riflessione o di stupore nell'aprirsi di meravigliosi paesaggi, tutto è confinato con la lotta contro i bikers, cattivi da operetta, denominati "Los Fuegos" capitanati da Ray Liotta (Hannibal) tatuatissimo e truce oltre il credibile, e l'incontro lungo il viaggio con personaggi macchietta. Film con stesso tema erano già stati tentati in passato, citiamo quello del 1991 con Billy Crystal Scappo dalla città, con risultati migliori a livello di significati emozionali.
Il viaggio comunque anche se devalorizzato, come si diceva in apertura, è divertente e movimentato, e il regista Walt Becker, con i suoi scarsi mezzi (la distribuzione italiana curiosamente aveva titolato il suo film precedente "Maial College", creando una citazione involontaria) non fa nulla per abbandonare il cammino leggero del sicuro procedere con una trama lineare e circolare che si sviluppa tornando su se stessa.
Cittadine piene di ragazze che ti guardano con il sorriso (incredibile Marisa Tomei, oscar non protagonista per Mio cugino Vincenzo, ancora con il viso acqua e sapone e giovanilmente rassicurante), sceriffi incapaci, trucidoni cattivi di faccia ma dal cuore in fondo tenero, nulla di nuovo sotto il sole della commedia, ma per cercare un po' di svago senza nessun impegno dopo una giornata lavorativa pesante e monotona quella volta almeno, siamo nella direzione giusta. Lasciamo stare altre velleità che proprio non ci sono.
E poi comunque la canzone"Highway the hell"si sente sempre con piacere.
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Mio fratello è figlio unico
Genere: Commedia
Titolo originale: Mio fratello è figlio unico
Nazione: Italia
Anno: 2007
Durata: 96
Regia: Daniele Luchetti
Cast: Riccardo Scamarcio, Elio Germano, Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Luca Zingaretti
Produzione: Cattleya, Babe Film
Distribuzione: Warner Bros.
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Trama:Latina,1962, l'adolescente Accio dopo una crisi di coscienza, provocata anche dal fratello Manrico che gli consegna una foto dell'attrice Marisa Alassio che lo turba ormonalmente, lascia il seminario per tornare alla sua famiglia (padre,madre, fratello, sorella). Un ritorno difficile e contrastato, con i genitori che lo trascurano e i fratelli che lo maltrattano. L'incontro con il simpatizzante fascista Mario gli cambia vita e prospettive sopratutto quando qualche anno dopo...
Commento: cresciuto come attore e regista alla scuola di Nanni Moretti (partecipando ad Aprile e a Bianca come attore) Lucchetti ha sempre proposto nella sua filmografia temi impegnati (dal Portaborse a Arriva la bufera) e con questo film cerca di proseguire una linea di questo tipo con una storia che attraversa gli anni dal 1962 a quelli successivi alla grande rivoluzione culturale con i moti del 1968. La fase iniziale con il piccolo Accio in piena crisi (simbologia di una difficoltà ad identificarsi con un movimento culturale) è forse sicuramente quella più carica di emozioni, con le frasi sparate a zero (ci sono attacchi precisi nelle parole di Manrico più taglienti di un coltello per quanto riguarda la chiesa) e i battibecchi e le difficoltà che si impongono a una vita di colalborazione. Basi queste per le future lotte politiche che la storia ci proporrà. Dopo uno stacco quanto mai ardito (Accio adolescente ha la faccia nell'acqua e nel passato, Manrico gliela rialza e passa qualche anno facendo apparire Elio Germano, apparso anche in Mary e in Quo vadis baby?), i sapori della conoscenza si condiscono di nuovi aspetti e mentre un fratello va da una parte, proseguendo gli insegnamenti avuti nel passato da Mario il fascista (Zingaretti) l'altro prende una strada diversa (Msi contro Pci), permettendoci di giocare di contrapposizioni e di simboli.
Lucchetti ci dice che Accio in fondo non è un vero pensatore, agisce di influenze e di sensazioni del momento, manipolabile come vuole da parte di chi si fida e assolutamente un muro di pietra verso chi proprio non lo prende con i dovuti metodi (la madre, delusa, una buona Finocchiaro o Manrico il grande nemico contrapposto), simbolo ovvio del popolo che si fida dei comizi e delle promesse (qualcuno ha detto Silvio?) senza veramente capire molto dell'argomento. Le continue altalenanti dimostrazioni di affetto verso questo o quello sono da vedersi nella scena dove si contorce e si ribalta nel letto saltando, ripresa in chiave diversa sul finale nella spiaggia, mentre è nascosto e prigioniero di una condizione e colpa non sua. Tradimenti continui (figurativi e non) che Accio prosegue senza ragionamento scevro di emozioni, in un percorso di storia politica che prosegue lineare senza particolari approfondimenti immaginifici (il nero picchia "Fa comodo avere un fascista in casa", il rosso occupa e protesta, il bianco democristiano si chiude nel suo splendido isolamento, il seminario, per tenere ben caro i quattrini, le case dovute ad altri e la tranquillità in generale). Purtroppo Lucchetti ci mette una storia d'amore sbilenca (ma con presente Scamarcio come faceva a non picchiarla lì?), che nulla serve e nulla fa se non a far pruriginare Accio per il grande tradimento (per sapere quale dei tanti bisogna vedere), appesantendo il tutto senza senso come del resto la scena sul finale del grande contrasto (il vero violento è quello che alla fine vuole i soldi e non l'ideologo di base).
Il film ha il grande pregio di restare superpartes raccontando le infamie di ogni parte, non è per nulla pesante da seguire ma purtroppo alla fin fine non graffia neppure, troppo disperso nel presentare un racconto il più possibile completo nell'arco degli anni.
Per questo tipo di film servono ben altri attori, non giovani divetti per teen (reduce dall'orrendo Ho voglia di te Riccardone ricciolone voleva darsi tono migliore ma decisamente è meglio che guadagni placido soldoni e lasci a un Placido parti simili) oppure segaligni attori come Germano che si muovono sulla scena senza vero nerbo, mai da accentratori del racconto come il minutaggio di presenza pretenderebbe.
In definitiva un film che parte con un buon assunto, ha una messinscena pulita (macchine, luoghi e apparecchi elettronici del tempo , come cabine telefoniche e televisori, rigorosamente rispettati), qualche buona simbologia ma poi per necessità di imposizione di produzione (la suddetta storyline amorosa) si disperde in acqua anzichè in vetriolo, ritirando la mano della vera denuncia dopo aver alzato il braccio per scagliare il sasso, in una sorta di condanna solo parziale (le case non consegnate al popolo) e di soddisfazione finale. Come se la politica fosse un grande risiko, Lucchetti fa parlare i suoi personaggi di politica ma alla fine le parole rimangono poco impresse.
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Spiderman 3
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Trama: mentre Mary Jane e Peter Parker hanno problemi a sistemare una difficile coesistenza tra il supereroe osananto e la sua fidanzata che perde lavoro e autostima, un nuovo terribile criminale si prospetta all'orizzonte stimolato da un costume simbionte, il lato oscuro di Spiderman! Mentre nuove rivelazioni sulla tragica fine dello Zio Ben e l'arrivo di un nuovo supercriminale e il ritorno vendicativo di uno vecchio rendono veramente difficile la vita a New york...
Commento:quanti cattivi in questo terzo chapter del nostro affezionato Uomo Ragno di quartiere. Abbiamo Venom, Goblin Jr e L'Uomo Sabbia. Raimi in questo capitolo dopo aver fatto i primi due con un solo villain protagonista gioca d'accumulo e piazza una triade di tutto rispetto a tenere viva l'attenzione della platea pagante. Rispetto al fumetto (presente l'autore/exsceneggiatore Stan Lee con il solito cameo) il regista si muove in una direzione di rispetto del senso variando il filo degli eventi differenziando anche le situazioni. Se infatti troviamo i duetti da liceali gelosi tra Mary Jane (Kirsten Dunst) e Gwen Stacy (Bryce Howard, figlia di Ron Howard), anche se in una versione più matura e meno scanzonata, vi sono anche delle situazioni assolutamente non comprese nel mondo delle nuvole parlanti, come il caso dello Zio Ben e l'Uomo Sabbia oppure la genesi di Venom (qui arriva con un meteorite, nel fumetto si dovette traslocare un nutrito gruppo di eroi su un pianeta nello spazio per avere le Guerre Segrete al cui interno Peter Parker ebbe il costume simbiotico). Altre cose, che lasciamo scoprire al piacere del lettore, che possa conoscerle per un passato abbastanza remoto da appassionato, per non rovinare la sorpresa, sono la perfetta testimonianza che Raimi voleva costruire un Spiderman 3 omaggiante ma autoriale, debitorio della sua nascita ma meritevole anche nelle sue riletture. Così, purtroppo, non è stato. Siamo subito chiari, il Blockbusterone è lì luccicante e preciso, ingemmato di effetti speciali di grandissimo pregio (basati sulla messa in scena e la genesi della caduta verso il basso, falling down con cui mory Gwen Stacy nel fumetto ad opera di Norman Osborn-Goblin Senior) e con belle scene di botte da orbi volanti, ma la tanto sbandierata oscurità di fondo del doppio cattivo è patetica, poco graffiante e per nulla introspettiva nella sua costruzione.
Il cambiamento del ragno da solare in oscuro è innocuamente rappresentato sia nella scelta della messa in scena (come nel caso del ballo nel locale) che nella recitazione, dove un Tobey Mcguire volonteroso cambia la posizione dei capelli ma non quella del suo orientamento recitativo, creando una sorta di gemello diverso ma del tutto privo di vera sana cattiveria. Non possiamo neppure imputare a Raimi di non averci provato a fare un film anche leggermente intimista (non parliamo di vero approfondimento perchè non era neppure proponibile per il tipo di prodotto legato a un marketing di ferro), i comparti con sezioni parlate e confronti psicologici ci sono, ma alla fine sono talmente frenati e del tutto leggeri da dare fastidio e farci sperare che arrivi il momento dello stupore visivo (e ai più piccoli non interessano per nulla).
La trama è di una semplicità spaventosa e tutto sembra talmente prevedibile che il tentativo di dare anche al lettore scafato di vecchia data la sorpresa (non è solo Spiderman di Stan lee e Steve Dikto e poi John Romita, è anche il mio, sembra dire Raimi) un tentativo quasi ingenuo, mentre tutto si svolge all'ombra delle torri, delle bandiere (in una scena gronda patriottismo dalla pellicola) in maniera cadenzata alternando parole a botte per non incorrere nel sonno da cinema (quanto mai dispendioso,meglio dormire a casa senza pagare) o impegnare troppo platee abboffate di pop corn venute a trascorrere un pomeriggio senza impegno.
Dei tre Villain il più caratterizzato è di sicuro L'uomo Sabbia, personaggio anche nel fumetto di buon inserimento nelle trame, che oltre a godere di effetti di demolecolarizzazione favolosi, ha anche una sua personalità marcata e una necessità di movimento logica meglio spiegata (anche se quello che accade nel finale è davvero poco reale come comprensione). Thomas Haden Church ( Sideways) disegna un buon ritratto del tormentato padre che si sgretola per colpa di un contatto con un esperimento, dando espressività almeno decente ai dubbi e le paure che si innescano in una vita giocata sempre pericolosamente sul filo di lana. Venom non parla al plurale come nel fumetto ("noi siamo!" dando meno il senso di simbiosi e assimilazione), e la corrosione da possesso è talmente esagerata e veloce in Brock rispetto a Parker (non vi spoilero nulla perchè nel trailer i distributori hanno, anche stoltamente ma la scena era d'effetto, fatto chiaramente vedere che la cosa accade) che ci domandiamo effettivamente se fosse stato più cattivo il soggetto umano o il simbionte per raggiungere tali livelli di cinismo.
Un film che parla di perdono, di vendette, di problemi sentimentali e incomprensioni in maniera balbettante, quasi a voler inserire elementi decisamente forzati messi in tale maniera rispetto alle strepitose scene d'azione (quella della gru è veramente una perla), che però hanno il difetto di tirare un po' la corda per la loro eccssiva ripetitività.
Kinsten decisamente in ruolo, fascino da rossa immutato anche se secondo me non aderente alla tigrotta del fumetto (alta, slanciata), sopratutto nella versione celeberrima di Romita senior, mentre tutti gli altri si muovono telecomandati esibendosi in siparietti rispetto ai protagonisti (jj jameson in primis).
In definitiva un gran bello spettacolo nel visivo diretto da stupore per effetto speciale, del tutto pretenzioso in approfondimenti cercati ma falliti, molto leggero in scene come non si pensava (sangue, ferite o lacerazioni sono del tutto assenti anche se si prendono sberloni assurdi, vedi la scena della metrò ma tutte in generale, manco fossero Superman) da vedere senza nessuna pretesa accontentandosi di estendere la trama iniziata con i primi due capitoli. Tra l'altro i non fan del fumetto e della sua continuity lo apprezzeranno molto di più per la mancanza di percezione delle troppe diversità rispetto al grande classico dei comics che lo ha generato.
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Titolo: The Number 23
Titolo originale: The Number 23
Genere: Thriller, Dramma
Anno di produzione: 2006
Nazione: United States
Regia
Joel Schumacher
Cast
Jim Carrey
Virginia Madsen
Danny Huston
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Trama:Walter Sparrow riceve dalla moglie in regalo un libro rosso chiamato Number 23, che riporta l'ossessione di un uomo per le congiunzioni numeriche. Walter, che di professione fa l'accalappiacani, si trova a dover interagire con questa storia nella quale si identifica sempre di più come se fosse il racconto della sua vita. Il numero 23 appare dappertutto e la cosa sta portando Walter sull'orlo della follia, ma è semplice caso oppure qualcuno sta premeditando cose molto più gravi ...
Commento: L'incostante Joel Shumacher (regista capace di fare buoni film come Un giorno di ordinaria follia e Il clientealternando prove penose come il terzo e quarto Batman o Il Fantasma dell'opera) dirige questo film sull'ossessione dei numeri con l'intenzione di raccontare la discesa in un abisso di follia alternandola con dei flashback (girati con fotografia flou di ricordo Depalmiano) per alimentare anche una sorta di indagine personale compiuta su se stessi. Walter Sparrow (un Luciferino e sempre bravo Jim Carrey) legge i 23 capitoli del libro (guarda caso...) come se dovesse codificare un dossier poliziesco sulla sua vita, volendo creare nello spettatore l'idea di una sorta di angosciante vita parallela, condita di elementi Hard-Boiled di genere anni Cinquanta. Il timido accalappiacani (Carrey gioca citando se stesso in Ace ventura) si trova ad avere una visione della vita quanto mai disperata, insicuro di tutto e di tutti.
L'assunto di base su cui Schumacher gioca non è affatto male, peccato che l'idea giri su se stessa senza nessuna vera evoluzione, si cita il gioco dei numeri all'infinito e in ogni modo allungando il brodo (incredibile poi aver dimenticato il gioco più semplice, 11 settembre 2001, 11+9+2+1=23), si inseriscono trovatine del tutto campate per aria fino ad arrivare ad un finale tanto risicato quanto alla fine inutile, perchè più che di motivazioni del 23 ormai si viveva di ossessioni, tanto che noi spettatori guardiamo più che l'evoluzione della trama, bislacca e mal strutturata, numeri e parole del film per arrivare sempre e comunque a 23.
L'ossessione di cercare segni del diavolo nel fare 23 diventa tanto una costante quanto una spossante, sin dalla fase preproduttiva del film e distributiva ( iniziato a girare il 23, uscito il 23 e via dicendo) a cui tutto ricorre il numero maledetto, dandogli un indubbio fascino tradito poi dal film costruito.
Non si può pretendere di costruire un film thriller con un giochino che diventa del tutto fine a se stesso senza poi dare una motivazione reale di esistenza in fase di chiusura, oltretutto impasticciando il tutto con presunte prove d'autore personali come i flashback, ci si ritrova straniati e presi in giro, totalmente insoddisfatti della messa in scena che oltretutto ha ormai stancato tanto è ripetitiva. Un gran pastrocchio pretenzioso, che partendo dalla precedente visione martellante di un trailer montato benissimo faceva sperare molto di più, invece in questa sede avremmo voglia di dirvi come finisce per risparmiarvi spese inutili. Partecipa oltre a Jim Carrey (che nel deserto della trama trova modo di autocitarsi anche con la scena del camion presa da Una settimana da Dio), Virginia Madsen (Sideways)in una doppia parte e Rhona Mitra (presente questa settimana anche nell'ultra movimentato Shooter).
Non contate fino a 23 per decidere se vederlo, dopo conterete fino a un milione i motivi per evitarlo.
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7 Km da Gerusalemme
Un film di Claudio Malaponti. Con Luca Ward, Alessandro Etrusco, Rosalinda Celentano, Alessandro Haber, Eleonora Brigliadori, Emanuela Rossi, Isa Barzizza, Alessandra Barzaghi. Genere Fantastico, colore, 108 minuti. Produzione Italia 2006.
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Trama:Alessandro, un pubblicitario in crisi, decide di fare un viaggio meditativo/conoscitivo per superare problemi personali e amarezza da fallimento personale. La conoscenza con Gesù Cristo in persona gli permetterà di vedere le situazioni e le persone secondo luci e ombre diverse.
Commento: tratto dal libro di Pino Farinotti, questo lavoro di CLaudio Malaponti (La Grande Prugna), è un lavoro maturo e profondo, calibrato e lontanissimo dal cinema italiano di facile connotazione pretestuosa di oggi che vorrebbe fregiarsi di valori parlando di un argomento impegnato realizzando poi un lavoro attentissimo al botteghino pieno di vacue immagini.
Luca Ward (uno dei più grandi doppiatori italiani, fa strano sentire la sua voce sapendo che stiamo vedendo anche lui nel film) recita convinto e benissimo, tratteggiando un ritratto sicuro e bilanciato di un uomo sospeso tra realtà ed incredulità.
Novello San Tommaso il personaggio di Francesco Forte non crede alla presenza del vero Cristo davanti a lui tornato per rinnovare la parola ai fedeli (un Alessandro Etrusco perfetto in quanto iconografia cristiana, sua prima interpretazione), e ne mette in continuazione la parola in discussione in un abile gioco di logica e di critica prima ascoltativa e poi dubitativa. Malaponti gestisce il cammino di riscoperta personale di Alessandro come un peregrinare da persona a persona (dalla malata terminale, la Celentano, fino alla saggia anziana, Isa Barzizza sempre piacevole da vedere sugli schermi) per cercare se stessi, per completare il proprio io personale in modo da essere sempre pronto a gestire il difficile incontro con l'entità in persona, che risponde serafica e preparata ad ogni critica oppure a ogni dubito, sia che siano domande ataviche oppure rierite al media internet del mondo moderno.
Importantissimo il discorso sulle figure pubblicitarie e sulle iconografie di immagine, dove l'essere è meno importante del mostrarsi, pensiero di validità effimera mostrato nei dialoghi tra i dipendenti dell'agenzia nell'asservimento dei quali Alessandro non si trova più, salendo sul palco a dire verità sincere che come quelle dette in televisione non sono ben accettate.
Si scopre che la venuta del Cristo in tempi odierni è una parola nuova da dare ai fedeli che si sentono ormai staccati da scritti ispirati a una figura terrena ormai 2000 anni fa, serve un segno che la Chiesa ha nei suoi dogmi principali dei semi ancora validi da far germogliare nonostante che i tempi abbiano subito le mutazioni radicali di una società sempre più raziocinante che stenta ormai a credere ai miracoli.
Il tono del film è praticamente perfetto, giocato su un labirinto non facile da orchestrare di ricordi e di attualità, con delle graffianti critiche al mondo della televisione ("Non scrivere dei libri perchè te li potrebbero pubblicare" dice Alessandro alla cinica conduttrice televisiva di Vis a Vis pronta a d essere onesta solo con i propri interessi e che fallisce nel mostrare il proprio ego in maniera sfacciata) che è disposta solo a cercare placida soddisfazione nell'audience senza guardare ai reali contenuti("La poetessa si è fatta conoscere grazie a me da un milione di persone, prima la conoscevano in dieci"..."Per come l'hai presentata rimarranno gli unici dieci che la conoscono veramente"). Televisione che del resto presta volti come Eleonora Brigliadori (molto bella la sua parte della donna in carrozzella, moglie di Farinotti nel film) e Paolo Limiti, in un gioco quasi parodistico che critica con i suoi personaggi la propria esistenza, che vorrebbero magiore onestà senza legarsi ai dati auditel.
Era facile con un tema simile cadere nel banale, ma invece la strepitosa recitazione di Ward, veramente incredibile, unita a una sceneggiatura e una regia attenta, mai innocua, mai patetica, unita a dialoghi agrodolci che bilanciano un tono di speranza e di amarezza, ci dona un bel film veramente, che si schiera difendendo la parola Cristiana di base ma senza nasconderne le sue sfaccettate venature sbagliate, che il corso del tempo ha corroso disperdendo significati e messaggi. Il bisogno di credere a un valore superiore non è necessario per chiedere miracoli, ma valido per chiedersi i come e i perchè di tante cose per affrontare al meglio le situazioni. Alessandro dopo l'esperienza diventerà più Forte, consolato che i tanti sbagli della sua vita sono stati un percorso di scelte e non di destino prefissato come le carte della televisione vogliono incurcargli in maniera ipnotica e illusoria.
Un bel film in definitiva, da vedere senza problemi in quanto pone domande importanti senza essere per nulla pesanti, dando un'immagine onesta del tutto priva dei dogmi dell'illusione della pubblicità, con un linguaggio assolutamente fruibile e non dispotico nell'imposizione di quanto vuol dire, assolutamente propositivo e non dogmatico.
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quanti bei film mi sto perdendo...
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Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck con Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur, Thomas Thieme, Hans-Uwe Bauer, Volkmar Kleinert, Matthias Brenner.
Mi sono fatto influenzare dai commenti entusiastici su questo film e non ho voluto perdermelo.
Mi è venuto però da pensare che se si grida al capolavoro per un film simile significa che siamo ormai assuefatti ad opere di un livello talmente basso che anche un film appena al di sopra della mediocrità è portato in palma di mano dalla critica.
Per carità, è un prodotto ben confezionato ed anche recitato in modo dignitoso, ma la storia qual'è?
Dov'è la fiction?
Non riesco a non annoiarmi assistendo ad un film d'ambientazione storica che va alla ricerca di particolari in vicende ormai conosciute, note, stranote e arcinote.
Per dare un minimo di creatività ad un'opera cinematografica improntata a fatti realmente accaduti, secondo me, o se ne propone un'interpretazione originale, nuova, magari un po' in contrasto con quella che va per la maggiore, oppure, si vanno a cercare degli aspetti o delle prospettive nuove (come tutti i film bellici che vedono la storia dalla parte dei perdenti ad esempio).
In questo caso il film propone quasi dei clichè stereotipati delle emozioni dei personaggi i quali a loro volta sono talmente scontati che risultano quasi imbalsamati.
Il poliziotto della STASI che prima crede in quello che fa, poi s'immedesima e poi va in crisi è roba da museo delle cere, il funzionario di partito grasso e arrivista che sfrutta la sua posizione di potere per fini anche sessuali è scontato dal primo fotogramma all'ultimo.
Le dinamiche di potere all'interno di un regime autoritario e poliziesco sono appena accennate e lo sono in modo superficiale.
Dopo film d'ambientazione storica come quelli della Cavani, Bertolucci, Visconti, Von Trotta, Spielberg e Eastwood, questa sembra la versione semplificata di temi già affrontati e sviscerati.
Tanto per capirci, manca totalmente e non si riesce nemmeno a vedere lontanamente la bambina del ghetto di Schindler's list che si colora di rosso nel bianco e nero della tragedia che si sta consumando come sfondo.
Una grossa delusione.
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ovviamente sono totalemnte discorde su le vite degli altri ma grande punto di vista mat. ottima disamina, le mie controragioni sono due pagine indietro.andiamo avanti...
Titolo Originale: GHOST SON
Regia: Lamberto Bava
Interpreti: John Hannah, Laura Harring, Pete Postlethwaite, Coralina Cataldi Tassoni
Durata: h -
Nazionalità: Italia, Sudafrica, Spagna, GB 2006
Genere: drammatico
Al cinema dal 4 Maggio 2007
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Trama: Mark e Stacey vivono isolati in una fattoria Africana giorni lieti vivendo il loro amore, quando all'improvviso delle apparizioni e degli strani avvenimenti di presagio sembrano minacciare la serenità della coppia, quando una tragedia e un successivo lieto evento ...
Commento: Lamberto Bava torna a dirigere un film per il cinema dopo che la sua carriera sembrava relegata alla proposizione televisiva (intrapresa dopo l'orrendo Le Foto di gioia del 1987), e da onesto artigiano molto meno talentuoso rispetto al padre Mario, a cui si debbono lavori tanto ingenui quanto affascinanti fatti con due soldi ed effetti di cartapesta nel tempo che fu, compie un lavoro tutto sommato semplice senza diversificare la sua produzione rispetto al passato.
Il film ci parla di apparizioni e di ricordi, raccontando una storia d'amore che si trasforma in un incubo dal suo seme più bello.
Scelto la foresta con casa isolata come ambientazione suggestiva, Bava inserisce iconografie del terrore nelle statue che assumono pose allucinate ed allucinanti, momenti di tensione con musiche sparate al momento predestinato ed animali come le iene a presagio del pericolo, che unito a vecchie leggende popolari e donne anziane con la pelle rinsecchita compiono il gigantesco omaggio al cinema di un tempo, segno forte di mancata capacità di disaffrancamento piuttosto che di riscoperta e rilettura per la terribile sensazione di dejavu. Infatti il film per quanto abbia elementi davvero suggestivi nell'ambientazione non riesce proprio a catturare la nostra attenzione per tutta la sua durata (tra l'altro abbastanza breve) penalizzato da una storia che proprio a decollare non ci pensa, ripetendo meccanicamente gesti e situazioni senza nessun vero fascino sintetizzabile. Bava infatti si è concentrato molto sull'immediato visivo unito al sonoro (le statue con i rimbombi del temporale, la iena con al musica d'effetto), cercando di stimolare l'angoscia per la progenie indegna ( lezione invece riuscitissima nel capolavoro Rosemary's Baby ad esempio) con una sequela di cose a compartimento stagno dette troppe volte rispetto al necessario. Non potendo disporre di un budget faraonico (fuoriscito sopratutto per scriturare gli attori) il film è privo di effettacci (solo delle gambe innaturalmente storpiate e disposte), deludendo chi magari si aspettava un film per una serata all'insegna dello splatter, mancanza in fondo del tutto ininfluente in una base di logica cinematografica, anzi migliorativa se sorretta da una trama che non ti lascia respiro, ma che mancando questa e non essendoci l'altro lascia lo spettatore del tutto insoddisfatto. Bava ci consegna una nostalgia del passato debitoria di tanti altri film, senza ritmo, che purtroppo con i tempi disincantati di oggi viene a targarsi di una ingenuità del tutto priva di fascino. Più televisivo che cinematografico, questo film va visto da coloro che hanno a cuore tempi e modi di fare film thriller e a sfondo horror ormai persi. Tutti gli altri possono tranquillamente evitarlo.
Nel comparto attori, praticamente tre, abbiamo Laura Hanning (Mullholland Drive), John Hannah (La Mummia), Pete Postlethwaite (Dragonheart), che si muovono sulla scena, i primi due, cercando di dare un ritratto di marito e moglie convincente per giustificare gli atteggiamenti successivi alla svolta, e di persona cara nel sostegno, per il terzo, ma purtroppo il solo ritratto (convincente sopratutto la Hurring) non basta se questo ha uno sfondo di sceneggiatura che non valorizza le emozioni con gli acacdimenti.
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quello che viene per me è un capolavoro... ma io sono innamorato di Parigi e le sue canzoni!
La vie en Rose
La vita in rosa
Parole: Edith Piaf. Musica: Louiguy 1946
Occhi che fanno abbassare i miei
Un rire che si perde sulla sua bocca
Ecco il ritratto senza modifica
Dell'uomo al quale appartengo
Quando lo prende nelle sue braccia,
Me parla qualsiasi fondo
Vedo la vita in rosa,
Mi dice parole d'amore
Parole di tutti i giorni,
E quello mi fa qualcosa
È entrato nel mio cuore,
Una parte di felicità
Di cui conosco la causa,
È lui per me,
Io per lui nella vita
Me l'ha detto, lo ha giurato
Per la vita
Ed appena lo scorgo
Allora sento in me
Il mio cuore che batte
Notti d'amore più da finire
Una grande felicità che prende il suo posto
Difficoltà, dispiaceri si cancellano
Felici, felici a morirne
Notti d'amore da morirne
Una grande felicità che prende il suo posto
Le difficoltà, i dispiaceri si cancellano
Felici, felici per il mio piacere
*la vie en rose*
Genere: Drammatico Biografico
Durata: 140 min.
Data uscita nei cinema: 04/05/2007
Titolo originale:
La Môme
Cast: Marion Cotillard, Sylvie Testud, Clotilde Courau, Jean-Paul Rouve, Pascal Greggory
Produzione: Olivier Dahan (regia)
Trama: la tumultuosa vita di Edith Piaf raccontata con dei flash back dall'infanzia difficile ospite gradita in un postribolo e poi sulla strada, costretta dal carattere del padre che non va d'accordo con nessuno a fare la cantante ambulante. Con il successo però il suo carattere fragile la porta agli eccessi di una vita senza regole.
Commento: La biografia di Edith Piaf (1915-1963) raccontata in maniera lucida e perfetta da Olivier Dahan (I Fiumi di Porpora 2), con un progetto che risale al 2004. La vita della cantante, una delle più amate di Francia, è stata un percorso di perdizione e di eccessi, e la cosa viene detta senza nessuna retorica anche se sempre in un ottica di grandissimo rispetto per le sue canzoni immortali.
Racconto fatto per flash-back irregolari nel tempo (grandioso a questo proposito il montaggio finale) partendo dagli inizi dove la piccola Edith viene presa e accudita da una prostituta dopo l'abbandono del padre.
Le fasi della crescita sono sintetizzate in tre tempi diversi tra di loro, con la cantante piccola, adolescente e poi nella maturità che il troppo bere e i vizi fanno diventare una terza età precoce. Dobbiamo segnalare, e incensare, la prestazione recitativa di Marion Cotillard (A Good Year-Un ottima annata) assolutamente strepitosa, un trionfo di emozionalità e di espressività, sia nei momenti (rari) lieti e tranquilli sia in quelli tempestosi e minati dalla malattia. Il trucco perfetto segue le movenze aritmiche e gli ingobbimenti da senescenza precoce per abuso di alcool e droghe, esponendo una totale immersione nel dolore che tutto il vissuto gli provoca.
Rimaniamo a bocca aperta mentre la vediamo cantare arie immortali (un po'meno per il doppiaggio parlato non proprio perfetto), mentre si contorce quando gli vengono annunciati dolorosi eventi, quando piange o quando sorride, quando spocchia piena di ego o quando si lascia andare alal disperazione. In una sola parola, la perfezione interpretativa in ogni senso calandosi in un personaggio per renderne omaggio sentito.
La vie en Rose è decisamente un film celebrativo (la cui importanza è anche precisata dalla presenza di Gerard Depardieu in un ruolo breve di minutaggio ma importantissimo per la trama), ma non si tocca mai lo stucchevole oppure l'incensante vacuo. Si racconta senza fronzoli la vicenda umana di una grandissima artista, che come molti altri suoi illustri colleghi vive del genio e della sregolatezza, riconoscendone le doti ma anche le fragilità, che come al solito con i soldi abbondanti e il successo vengono alla luce perentorie. Edith è la grandeur ma anche l'anima di Parigi, che con i suoi ricordi immortali condiziona anche i momenti nelle città americane, città dove cantare sembra diverso e più corroborante anche se le canzoni sono uguali.
Parlando delle visioni asciutte non possiamo dimenticare le scene nel bordello dove una bambina piccola vive a contatto con scene di sesso più o meno pulite, non dimentichiamo la scena dove inizia a cantare per aiutare a racimolare del denaro per il padre impaurita (una situazione che sembra quella de la Strada di Fellini) e poi quando entra in scena definitivamente la Coutillard avviene l'esplosione emozionale, con un progressivo cambio di marcia e caduta nell'abisso sempre con una fotografia virata allo scuro. Il racconto a flash back aiuta a mostrare meglio i momenti per compararli, facendoci capire che in fondo la Piaf (il passero) non ha mai avuto delle vere stazioni di felicità nella sua vita ma quanto più un illusorio viaggio di successo mal gestito ("Cosa serve essere Edith piaf se non posso fare questo?").
Un finale di grandissima emozione con il flusso finale dei ricordi completa la visione di un biopic strepitoso, che soddisferà chiunque voglia avvicinarsi alla pellicola sia per godere delle canzoni che della storia umana di una donna coraggiosa ma nel contempo talmente fragile da cantare talmente bene le emozioni da non saperle dominare, godendo di una storia costruita in modo che sia di immediata fruizione nonostante una lunghezza extra di 140 minuti.
Tra l'altro curiosamente la versione italiana presenta solo tre canzoni tradotte e non tutte.
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Citazione:
Originariamente Scritto da
marsellus wallace
ovviamente sono totalemnte discorde su le vite degli altri ma grande punto di vista mat. ottima disamina, le mie controragioni sono due pagine indietro.andiamo avanti...
Avevo intravisto la tua recensione e l'ho letta di proposito dopo aver visto il film per non esserne influenzato.
L'ho apprezzata, ovviamente, ma apprezzo ancora di pi
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Cast
Ray Liotta
Nora Timmer Jolene Blalock
Luther Pinks LL Cool J
Isaac Duperde Mekhi Phifer
Chet Price Guy Torry
Crediti
Anno: 2007
Nazione: Stati Uniti d'America
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 93'
Data uscita in Italia: 04 maggio 2007
Genere: thriller
Regia: Wayne Beach
Sceneggiatura: Wayne Beach
Fotografia: Wally Pfister
Musiche: Jeff Rona
Montaggio: Kristina Boden
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Trama cosa succede alle 5 del mattino ? cosa si nasconde dietro un misterioso omicidio? Cosa sta ordendo la bella lady che sembra muovere le fila ? c'è pococ tempo per capire la grande trama dietro a queste cose...è meglio che il procuratore distrettuale si sbrighi a capire tanti perchè se vuole che una tragedia non accada...
Commento: Ray Liotta (Hannibal e Svalvolati On the Road) decide di investire un po' dei soldi guadagnati come attore producendo questo filmetto dai toni oscuri ( riferimenti a Under Suspicion e i Soliti Sospetti) in cui lui è protagonista a tutto tondo. Liotta come attore di contorno, di solito viene relegato in queste parti, già non è decisamente la punta dell'iceberg di bravura, come protagonista diviene addirittura quasi ridicolo tanto si nota lo sforzo per dare il massimo con una recitaziona contrita di smorfie e occhi increduli. Prendendo spunto dai classici "Chi è stato?", il film si sviluppa in due diverse direzioni, quella del confronto con la fase incrociata dei ricordi che si contraddicono tra due testimoni (LL Cool J, qui con il suo vero nome, e la splendida Jolene Blalock) per stabilire motivi e identità dell'assassino, e secondariamente quella delle cause laterali all'omicidio che non è fine a se stesso ma ha un disegno più grande dietro (del tutto banale e subito capibile, ve lo dico chiaramente). Interessante il gioco di luci camaleontico che viene innestato durante questa operazione "doppio sguardo", dove si chiarifica che nulla è come sembra ma tutto è da scoprire. La progressione del lavoro che non vuole di certo addormentare lo spettatore ma ci va vicino parecchio dopo la buona fase iniziale, è però lenta e monotona, fatta di colpetti di scena cadenzati sulla durata del film senza fantasia e con trovate risapute (oltretutto debitorie di ben altri film come quello di Synger) colmando le lacune narrative con dei nudi soft di grande pregio della splendida protagonista (Enterprise in Tv). Due sezioni, una fatta di interrogatori e l'altra di azione, compongono un lavoro totalmente trascurabile che il regista Wayne Beach (opera prima) usa anche per omaggiare gli ispiratori, più o meno illustri, e criticare apertamente la serie televisiva di Friends con una battuta al vetriolo del tutto personale probabilmente ("si è proprio caduti in basso se si guarda Friends"). Buon inizio, ritmo blando, protagonista inguardabile, cose già viste e trama appassita. Non possiamo nenache consigliarlo per una serata di disimpegno in quanto in alcuni punti è pretenzioso e cerca delle cose autoriali che hanno solo il risultato di confondere invece di esplicare, andando bene al massimo per una puntata di serial televisivo.
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L'uomo dell'anno
Titolo Originale: MAN OF THE YEAR
Regia: Barry Levinson
Interpreti: Robin Williams, Christopher Walken, Laura Linney, Jeff Goldblum, Tina Fey, Doug Murray, Rick Roberts
Durata: h 1.55
Nazionalità: USA 2006
Genere: commedia
Al cinema dal 11 Maggio 2007
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Trama: il conduttore satirico Tom Dobbs nelle prove di una trasmissione viene ispirato durante una trasmisisone da una spettatrice a cercare di diventare il presidente degli Stati Uniti e di iscriversi alla campagna delle elezioni. Iniziata l'avventura anche per aumentare gli ascolti del suo programma e la sua popolarità, inaspettatamente i favori degli elettori sembrano volgere verso di lui. Se non che...
Commento: Barry Levinson aveva già diretto Robin Williams in altri film (Toys e Good Morning Vietnam) e aveva già affrontato tematiche legate alle decisioni di alto livello con protagonisti De Niro e un altro suo attore feticcio come Dustin Hoffman (Sesso e Potere). Il film è idealmente diviso in due parti: quella della illuminazione personale con cui il presentatore satirico si propone l'obbiettivo e la seconda in cui avvengono dei fatti che modificano la sua proposizione verso la gente e l'impatto che deriva dal suo essere istituzionalmente diverso rispetto alla consuetidine in una situazione tanto delicata, il tutto raccontato da Christopher Walken (Pulp Fiction) che fornisce l'ennesima prova da caratterista di contorno misurata e precisa. La prima parte è una sorta di delirio egocentrico, elogio di se stesso eseguita da un Robin Williams staripante, che a raffica spara battute nella conduzione dello spettacolo senza risparmiare nessuno. Fase molto importante, perchè capiamo come un comico potrebbe nel suo essere basico gradito a un pubblico che lo capisce e lo assimila con più facilità, dicendo le cose giuste nel modo più genuino possibile. La seconda parte, quella della ascesa, identifica l'indecisione, la difficoltà di passare dalle parole ai fatti, che dovendo dare un risultato tangibile non possono essere solo un modo di scelta del come dirle ma nel renderli realtà efficaci. Non basta a quel punto essere un comico, bisogna che la satira sia sostituita dalla strategia. Il grande significato del film sta qui: un uomo come Tom Dobbs può piacere, ma non può valere in una particolare situazione. Si tratta di un film di satira politica apertamente surreale virato alla commedia, per cui bisogna doverosamente cercare di perdonare le innumerevoli incongruenze di logica della trama, tutte legate alla dolce ma determinata Laura Linney (The Truman Show), che avvengono molte volte in maniera straniante.
Levinson tralascia a lungo di virare verso il tragico questa storia, veicolando solo nel finale un evento di decisa rottura con l'ambiente di genere, predilegendo una soffusa atmosfera di ingenua accettazione senza domandarsi troppo quanto il pericolo creato dovrebbe portare alla decisa eliminazione di chi è scomodo, oppure con incontri al limite del possibile. Delle volte il cinema ha ipotizzato la presenza di uomini diversi o insoliti alla Casa Bianca (come Dave, presidente per un giorno) ma stavolta abbiamo la centralità della televisione che determina gioie e fortune insieme alla asettica presenza del computer, dove un presentatore può in virtù delle fortune catodiche creare una massa di elettori (speriamo che vedendo il film Maria De Filippi non abbia strane idee...).
In definitiva un film godibilissimo e satiricamente leggero, fruibile e capibile senza nessun impegno particolare come la parametrazione degli standard intellettuali che il media casalingo si impone per motivi di audience, ideale per una serata che vuole avere oltre al divertimento una punta di riflessione sui pericoli che il troppo esporsi alla confortevole logica della tv crei falsi miti oltre i loro limiti.