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“Luglio del 1975: imparo a volare”, è il titolo del racconto dello scrittore triestino Mauro Covacich. Il testo è stato pubblicato domenica scorsa nell’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera.
Il racconto è diviso in 6 brevi capitoli e li propongo alla vostra lettura in 6 post.
“Iniziava l’estate del 1975 e io, credo con l’intenzione di prepararmi al meglio per l’esame di quinta elementare, quella mattina mi tagliai le unghie dei piedi un po’ troppo in profondità, pizzicando con il tronchesino un pezzetto di alluce e procurandomi ciò che già all’epoca imparai a chiamare, dal referto medico consegnato a mia madre, ‘escrescenza carnosa infiammatoria’. Tagliai, imparai, è insolito per me usare il passato remoto, ma è un’epoca così lontana che proverò a farlo.
Cinquant’anni esatti. Quando, da ragazzo sentivo qualcuno dire vent’anni fa, o peggio, trent’anni fa, avevo un cedimento alle ginocchia. Come si poteva rievocare, ancora vivi e vegeti, un tempo così lontano ? Ora mi accingo a raccontare un’esperienza personale rimasta intatta laggiù, a una distanza di mezzo secolo.
Il medico mi prescrisse lunghi bagni di amuchina, nella speranza che dopo qualche settimana l’escrescenza si staccasse da sola. Altrimenti sarebbe stato necessario un piccolo intervento chirurgico , ipotesi che nella mia testa di bambino divenne subito la spada di Damocle incombente sull’estate.
In ogni caso, affrontai l’esame e circa un mese dopo partimmo per le vacanze. Una ventina di giorni sulle spiagge di Grado, a un’ora di macchina da Trieste.. Era un po’ di moda per i triestini di quegli anni spostarsi verso i litorali sabbiosi dell’Adriatico friulano anziché godersi gli scogli dei nostri stabilimenti, sebbene i miei lo facessero soprattutto per l’eczema di mia sorella a cui, a quanto pare, giovava l’abbinamento sole e sabbia. Ma, a farmi specie ora, non è la nostra destinazione, quanto il fatto che un’autista d’autobus e un’operaia della manifattura tabacchi con due figli a carico potessero permettersi una villeggiatura, pur modesta, in una località balneare (senza contare la settimana bianca a febbraio).
Dubito che oggi sarebbe possibile. Nel 1975 invece, benché l’Italia fosse uscita da poco dalla cosiddetta austerity, mio padre non si era fatto intimidire dalla crisi petrolifera e aveva acquistato una Fiat 128 giallo ocra, che mi capita di rivedere in versione taxi nei film girati a Roma in questi anni, con puntuale tuffo al cuore. Già all’epoca ero un bambino emotivo.
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Grazie alla mia giovane maestra, socia del Wwf (e militante di Lotta continua), avevo progettato un parco nazionale sulle Alpi Giulie, anche se il mio sogno era farlo sul delta del Gange per la recente scoperta dei romanzi salgariani. Più di Sandokan mi piaceva Tremal-Naik, perché era circondato da animali. Subito dopo, leggendo London, incontrai Buck e Zanna Bianca … Amavo gli animali sovra ogni cosa. Riempivo le schede di prestito della biblioteca di quartiere, in casa non c’erano molti libri, e mi cimentavo in strane forme di autocoscienza a sfondo ecologico che sarebbe difficile definire racconti, ma insomma, sì, immaginavo un mondo di buoni e provavo a imitare gli scrittori che ammiravo, quei tizi baffuti (Salgari) o barbuti (Verne) o ben rasati (London) coi loro nomi stampati sulle copertine.
Non si trattava di secchionaggine, non ero un secchione, mezzo secolo fa i bambini leggevano romanzi d’avventura più o meno come oggi giocano coi videogame. E poi ero uno sportivo. Praticavo tutti gli sport. Nuotavo, correvo, giocavo a minibasket. Gli sport venivano al secondo posto, appena dietro gli animali. Come spettatore, la competizione che preferivo seguire era in realtà un programma televisivo trasmesso in eurovisione dove squadre miste di ragazze e ragazzi si destreggiavano in prove di abilità ai limiti del funambolismo, lungo percorsi colpiti da getti d’acqua cosparsi di sapone e pieni di altri trabocchetti. Si chiamava ‘Giochi senza frontiere’. Lo adoravo. A quanto pare ero già un convinto internazionalista, non credo a causa del comunismo della mia maestra, forse piuttosto a causa del mio animalismo. Animali di tutto il mondo unitevi.
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Affittammo un appartamento alla periferia di Grado. I due anziani proprietari , probabilmente non più anziani di me ora, cedevano la loro casa, immagino per cifre irrisorie, ai villeggianti che si succedevano durante tutta la stagione, mentre loro traslocavano nel garage. Una forma estrema di air-bnb, a cui nessuno prestava troppa attenzione, figurarsi noi bambini. Io personalmente non ci vedevo niente di male, c’erano senz’altro tigri del Bengala rinchiuse in gabbie più piccole. Salendo dalla spiaggia gettavo giusto un occhio nel loro tugurio, li salutavo chinando il capo e poi mi preparavo spensierato al pranzo, rigatoni al pomodoro. Mia madre aveva preparato la passata nei giorni precedenti la partenza, tonnellate di pomodoro, sigillato nei vasetti, stipato in un cartone, caricato nel bagagliaio insieme alla scorta di pasta. Rigatoni al pomodoro, pranzo e cena. Oddio, carboidrati di sera ? Sì, carboidrati di sera, tutte le sere, prima del gelato. Eppure non ho mai visto ingrassare nessuno in famiglia. Forse cinquant’anni fa era diverso anche il metabolismo umano, chissà, mezzo secolo … Comunque durante i pasti io dovevo infilare l’alluce in una tazzina, prelevata dal servizio dei due anziani, e lasciarlo in ammollo nell’amuchina fino al momento di alzarsi da tavola. Era un rito a ui mi sottoponevo di buon grado, sperando ogni volta di ritrovarmi alleggerito della famosa escrescenza. Poi, sconsolato, me ne andavo a fare il riposino.
Il riposino, più che un rito, era un obbligo a cui nessun bambino poteva sfuggire. Una specie di cesura della giornata, di solito non più lunga di un paio d’ore, che ci appariva, a me e a mia sorella, ma credo un po’ a tutti i bambini, di una vastità sterminata, perdipiù totalmente priva di senso, qualcosa di simile alla tortura del sonno al contrario, dormire anche se non vuoi, o forse meglio, un’ordalia: non nell’acqua o nel fuoco, bensì nella noia, come prova da affrontare sempre, ogni stramaledetto pomeriggio, a dimostrazione della propria bontà d’animo e innocenza infantile. Ovviamente il riposino serviva a garantire qualche ora di quiete ai genitori, era stato inventato soprattutto per questo.
Cinquant’anni fa i genitori non si sentivano in colpa a ricavarsi un paio d’ore di intimità, non stavano accanto ai loro figli ogni minuto che dio manda in terra con la paura che il silenzio e la penombra postprandiale potesse traumatizzarli. I miei almeno non erano così. Finiti i rigatoni, ci chiudevano in cameretta, ovvero il piccolo salotto con divano-letto e branda dove probabilmente i due anziani, dopo l’estate, sarebbero tornati a guardare la tv, la minuscola Voxson bianca che si erano portati nel garage.
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Mia sorella pettinava le barbie, oppure sussurrava cose farneticanti con gli occhi puntati sul soffitto, imitazioni, dialoghi immaginari. Io preferivo annoiarmi a pancia in giù, sfogliando l’Intrepido o il Monello, nei casi più disperati leggendo le barzellette della ‘Settimana enigmistica’. Non farò ora il peana del riposino, il vuoto che stimola l’ingegno, sguinzaglia la fantasia eccetera eccetera. No, stare sdraiati lì era una rottura pazzesca. Però non so se il pieno saturo dell’intrattenimento profuso dai genitori di oggi garantisce ai bambini pomeriggi estivi migliori. Quello che so è che dopo era tutto più bello, il resto della giornata si spalancava con il sorriso di mia madre che, finalmente, ci rimetteva in libertà. Riprendevamo la strada non breve verso la spiaggia, camminando a testa bassa sotto i nostri cappellini da ciclista, attraversando isolati ancora deserti, con balconi sempre più affollati di asciugamani e costumi messi a stendere, via via che ci avvicinavamo allo stabilimento.
A un certo punto, nella canicola delle quattro compariva all’orizzonte l’alone riverberante del bar gelateria. I miei prendevano il caffè freddo, conservato in bottiglioni nel frigo sotto il banco, versato in bicchieri dalla base pesante, lunghi e stretti. A me e a mia sorella toccava il gelato che, all’epoca ( e ancora oggi in certe gelaterie triestine di retroguardia), si misurava in palline, per la forma semisferica dell’utensile apposito, che scavava in una sostanza dura, tutt’altro che cremosa, credo impraticabile per le spatole odierne. Io, due palline nocciola e cioccolato. Mia sorella, due palline limone e fragola, di cui mangiava meno della metà rifilando il resto a mio padre.
Nel 1975 a Grado, i gusti erano questi, più altri tre: pistacchio, crema, stracciatella. Solo un paio d’anni dopo comparve il misterioso malaga. Ricordo l’eccitazione con cui guardavamo quei chicchi d’uva passa, immersi nel giallo dello zabaione. Per non parlare dell’inesorabile effetto ‘madeleine’, quando la scorsa estate, in una gelateria romana, ho affondato la lingua in un cono al malaga.
Ma al di là delle reviviscenze proustiane, è il colpo d’occhio che deve prevalere, a proposito di quella vetrinetta gradese: beige, marrone, bianco, rosa, verde, giallino, bianco punteggiato di nero, giallone. Fine, Penso all’angoscia dei bambini di oggi di fronte alle infinite vaschette in doppia, tripla fila, con le etichette piene di nomi complicati. Be’, l’imbarazzo della scelta non figurava ancora tra i problemi esistenziali del 1975.
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In spiaggia si giocava a frisbee. Un gioco assurdo che poteva tutt’al più i cani da riporto, visto che la maggior parte del tempo la passavi a recuperare quello stupido disco di plastica dopo il lancio esagerato del tuo amico. Ma era la novità del momento e veniva da quel posto magico , pieno di cowboy e Bobby Fischer e Mark Spitz e giovani dai capelli lunghi che lanciavano il frisbee benissimo.
Ovviamente si giocava anche con le palline dei ciclisti, il cui divertimento aveva il suo picco all’inizio, quando si tracciava la pista con il sedere della malcapitata di turno trascinata per i piedi. Ciò avveniva soprattutto quando mi capitava la fortuna di mischiarmi con i più grandicelli, il solito gruppo di piccoli maschi serenamente fedeli al patriarcato e già tutti col chiodo fisso. Ma la questione ancora non mi riguardava, a quell’età ero totalmente indifferente al fascino femminile.
Andavo a nuotare con mio padre, me la cavavo già discretamente. Che strana la trepidazione di vedere il corpo del padre che nuota accanto al tuo, anche solo il suo petto di adulto che scende nella tua stessa acqua e si immerge accanto a te. Nell’estate del 1975 si faceva il bagno al largo ancora senza particolari patemi, il film ‘Lo squalo’ sarebbe uscito nelle sale italiane solo a dicembre.
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Le ore che non trascorrevo in spiaggia le passavo nel parcheggio del caseggiato, in compagnia di Paolino. Lui era sempre lì. Uscivo e lo trovavo che parlottava con dei pezzi di legno. Oppure uscivo e dopo un attimo sbucava dal portone di rimpetto, come se spiasse i miei movimenti. Era magro, pallido, non andava al mare, come tutti i locali. Altro non sapevo, né mi importava granché. Parlavamo quasi solo giocando. Lunghe litigiose partite, una palla spelacchiata e le ciabatte da mare per racchette. Lo chiamavamo tennis ma, a ripensarci ora, direi che si trattava, ahimé, di una versione ante litteram del paddle. Volevamo essere entrambi Bjorn Borg. In alternativa, dopo la lite, uno dei due ripiegava su Jimmy Connors. Il mito di Adriano Panatta sarebbe scoppiato da lì a poco. ‘Facciamo che io ero…’. E’ con questa frase , il cui imperfetto ci gettava nella dimensione dell’epos, che scendevamo nell’agone. Quando toccava a Paolino stare sul lato dei garage, vedevo alle sue spalle i due anziani che seguivano la partita distesi a letto tra nasse, taniche, ruote di bicicletta. Se ne stavano lì a guardarci, riparati dalla porta basculante che fungeva anche un po’ da tettoia. Perché lo trovavo così naturale ? Dormivo sul loro divano. Ficcavo il mio alluce dentro la loro tazzina. Com’è possibile che la cosa non mi turbasse ?
A proposito dell’alluce, l’infiammazione mi dava ogni giorno meno fastidio, finché una mattina, indossando gli infradito, mi accorsi che l’escrescenza era sparita. Evviva, niente bisturi. A casa lessi d’un fiato ‘Il gabbiano Jonathan Livingston’. Ora si trattava solo di imparare a volare”.
Mauro Covacich
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Citazione:
Originariamente Scritto da
Ninag
Mai stata in colonia, mio padre non era molto favorevole a lasciarmi andare troppo lontano, però tanti ne parlano con nostalgia. Quando andavo alle elementari c'era la mensa scolastica riservata a quelli che avevano un basso reddito, io da figlia unica ne ero preclusa, quanto ho desiderato mangiare qualcosa là dentro:D, ma nulla.
Io purtroppo di quei due anni di colonia ho solo brutti ricordi come dicevo, per dire, ero l'unico str0nz0 del palazzo obbligato ad andarci mentre gli altri ragazzini giocavano per il rione liberi ed indipendenti, ciò ha creato un gap tra me e loro in merito alle esperienze di vita in strada... :swear:
...forse anche per questo adesso sto in fissa con tuffi e nuotate, le volte che ho visto il mare nel 1975 si contano sulle dita di una mano giacché saranno accadute casualmente qualche w.e. [ai vecchi le balneazioni non interessavano granché ed io ero ancora troppo piccolo per andarci da solo :disgust:]
...meno male che l'anno dopo i vecchi hanno avuto il buon gusto di mandarmi a punta Sottile che la almeno si poteva fare il bagno sebbene con orari rigidi e supercontrollati :Pazienza:
:mahciao:
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Allegati: 2
] La mia scuola elementare.
Allegato 37529
Col cell … non riesco a metterla correttamente ������