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“Finalmente l’alba” (2023) di Saverio Costanzo
All’uscita da un cinema una ragazza viene notata da un agente che la invita a fare un provino. Parteciperà anche la sorella che però viene scartata in quanto troppo timida, ma la star del film in produzione, vedendola, la preferisce alle altre e la convince a recitare nel suo film. “Finalmente l’alba” era in concorso a Venezia nel 2023 e ci mostra Cinecittà dopo la guerra e all’indomani del neorealismo, con film leggeri e starlet nevrotiche e capricciose. La ragazza senza grande ambizione si troverà catapultata in un ambiente che non le appartiene e durante una festa in cui succede un po’ di tutto, il suo imbarazzo raggiungerà il culmine. Un buon soggetto, soprattutto per quel rimando a certe cose passate come "Bellissima" di Visconti, ma il film fatica a reggersi in piedi, per via di personaggi disegnati male e per una lunghezza esagerata, malgrado un cast di ottimo livello che non è riuscito a salvarlo.
Finalmente l’alba **
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Barrett!!! Ciao, come stai tutto bene? A proposito di Venezia, stai seguendo la mostra del cinema? Bei film per ora, peccato l'eccessiva politicizzazione secondo me. Te che ne pensi?
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conogelato
Barrett!!! Ciao, come stai tutto bene? A proposito di Venezia, stai seguendo la mostra del cinema? Bei film per ora, peccato l'eccessiva politicizzazione secondo me. Te che ne pensi?
Tutto bene grazie. La sto seguendo soprattutto grazie ad Hollywood Party. Non credo sia la miglior mostra possibile, comunque il film di Rosi su Napoli sembrerebbe un gran film, un docufilm probabilmente.
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Nei mesi scorsi Hollywood Party ha dedicato una intera puntata al cinema dei fratelli Coen, ho riguardato così alcuni dei loro film a partire dal primo “Blood Simple” (1984), un noir dal bel finale anche se ancora distante dal loro stile che invece ritroviamo immediatamente nel successivo, “Raising Arizona” (1987 - Arizona Junor qui da noi), dove una coppia formata da una poliziotta e un criminale non potendo avere figli ne rapiscono uno. La vicenda paradossale che fa incontrare e innamorare due persone che invece dovrebbero stare ben distanti tra loro rende evidente come gli autori volessero prendere le distanze dalla società dell’epoca. I personaggi dei Coen del primo periodo sono quasi sempre delle caricature come usciti da un fumetto, le loro storie appaiono reali ma sono raccontate come se non lo fossero. Con “Barton Fink” (1991) arriva il successo e la Palma d’oro a Cannes. Un autore teatrale viene convinto a scrivere per Hollywood, ma una volta arrivato a Los Angeles è costretto a confrontarsi con personaggi surreali che sembrano usciti fuori dalla penna di uno scrittore. Gli Oscar arriveranno con “Fargo” (1996), nel quale un uomo organizza il rapimento della moglie per costringere il suocero a pagare il riscatto. Il film è un mix di fatti realmente accaduti ma i Coen trasformano la vicenda drammatica in una sorta di commedia grottesca. Anche in “The Big Lebowski (1998) c’è un rapimento e un riscatto da consegnare e una sfilza di grandi attori che vi recitano. Lo sfaccendato Lebowski è il personaggio più famoso uscito dalla penna dei due fratelli e Jeff Bridges lo interpreta alla perfezione. La sua vita cambierà per sempre per un caso di omonimia ma il film zoppica nella narrazione apparendo più come una serie di sketch legati tra loro come un medley dove il lavoro principale viene fatto sui personaggi. Tralasciando alcuni film arriviamo al 2008 e a “No Country for Old Men”, tratto da un libro di Cormac McCarthy, quindi con un lavoro di sceneggiatura facilitato ma che rende meno personale lo stile del film a cui però non si sottrae il personaggio principale interpretato da Javier Bardem. Ricordato per la sua pettinatura impresentabile, l’attore impersona un killer psicopatico alla ricerca di chi ha sottratto il bottino al “legittimo” proprietario in uno scenario che ricorda un western moderno. Anche se probabilmente non è il film che li rappresenta al meglio è il mio preferito. Dell’anno dopo è “A Serious Man” dove un uomo di origine ebrea è perfetto sia a casa come a scuola dove insegna, ma non riesce a raccogliere quanto seminato e delle vicende della sua vita chiede conto alla sua religione. E’ un film complesso con delle riflessioni sulla vita che ricorda il Woody Allen di “Crimes and Misdemeanor” ma che alla fine rende evidente come i fratelli vogliano prendere altre strade come pure in “Inside Llewin Davis” del 2013 (A proposito di Davis il titolo italiano). Un cantante folk si esibisce al Greenwich Village all’inizio degli anni 60 prima del ciclone Dylan (che si tra l’altro vedrà alla fine del film); non riuscendo a sfondare, senza soldi si barcamena tra un letto e un altro offertogli dagli amici e quando viene a sapere che ha messo incinta una ragazza fa di tutto affinché abortisca. Il personaggio è l’opposto di quello di “A serious man”; qui di serio o serioso non c’è nulla, si vive alla giornata in attesa che capiti l’occasione giusta, un lavoro migliore per poi tornare alle origini. Il film ha una delle loro migliori regie e una fotografia dalla luce cupa che non si può non apprezzare.
Non ho inserito i film che avevo già recensito e altri considerati minori. Ma su questo non c’è certezza in quanto osservando le classifiche presenti in rete può capitare che il miglior film per alcuni sia uno dei meno interessanti per altri.
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Ok, grazie. Ti avevo chiesto dell'eccessiva politicizzazione (e non riguardo solo alla questione palestinese). Il cinema non dovrebbe solo fare cinema, secondo te?
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Il cinema è sempre stato un potente mezzo politico, pensa alla propaganda fascista e nazista. Leni Riefenstahl è stata una grandissima regista al servizio di Hitler. Venendo ai giorni nostri il bellissimo cinema iraniano denuncia da anni il regime degli ayatollah, l'anno scorso c'è stato il film brasiliano "Io sono ancora qui" che ha vinto un sacco di premi oscar compresi dedicato alla dittatura degli anni 70.
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Non ho posto bene la domanda, perdonami. È chiaro che il cinema sia ANCHE politica, basta pensare al neorealismo del dopoguerra. Io parlavo del contorno: le manifestazioni, i cortei, gli striscioni, i fumogeni, le bandiere, quasi tutti gli attori che si sentono in dovere di fare dichiarazioni politiche.... boh, mi sembra un di più, un eccesso, un debordare lo spirito della mostra. È una mostra del cinema, non un congresso di partito.
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conogelato
Non ho posto bene la domanda, perdonami. È chiaro che il cinema sia ANCHE politica, basta pensare al neorealismo del dopoguerra. Io parlavo del contorno: le manifestazioni, i cortei, gli striscioni, i fumogeni, le bandiere, quasi tutti gli attori che si sentono in dovere di fare dichiarazioni politiche.... boh, mi sembra un di più, un eccesso, un debordare lo spirito della mostra. È una mostra del cinema, non un congresso di partito.
Venezia è sempre stata così, anzi nel passato molto di più se si pensa a chi andavano i premi. Durante la Guerra Fredda Venezia era al confine con il blocco dei paesi che appartenevano all'area sovietica, una sorta di check point. Ma poi anche la sua cultura è sempre stata multinazionale, l'oriente e l'occidente che si mescolano. Io oggi la vorrei più sobria e con meno red carpet, strizza troppo l'occhio a Hollywood e la qualità dei film ne risente.
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Perfetto. La penso così anch'io.
Grazie, a domani.
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Leone d'oro a Jim Jarmusch col film "Father Mother Sisters and Brothers". Assolutamente inaspettato dopo una mostra piena zeppa di film politici e attuali. Il cineasta americano parla invece di famiglia e sentimenti....
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“Harvest” (2024) di Athīna Rachīl Tsaggarī
Gli abitanti di un villaggio inglese in epoca medievale, dediti all’agricoltura, con l’arrivo di alcuni forestieri che diffondono i benefici della rivoluzione industriale vedono messa in pericolo la loro economia; rifiutano la modernità e un eventuale utilizzo dei primi macchinari che permetterebbe una maggiore produzione, ma anche la suddivisione delle terre coltivate per favorire la proprietà privata e con cui si darebbe avvio a una primordiale società capitalistica. Quando il raccolto risulta inferiore alle attese la colpa viene data ai forestieri, interessati secondo loro solo ad appropriarsi dei terreni. Il film era in concorso a Venezia l’anno passato e ha ricevuto perlopiù recensioni negative. Ha però delle frecce al proprio arco, come una regia a tratti interessante ed efficace, come ad esempio nella sequenza della festa dopo la fine del raccolto e una fotografia analogica che evidenzia le caratteristiche di paesaggi scozzesi dove il film è girato. Dove zoppica è nella sceneggiatura fin troppo lunga, che sfocia spesso in alcune sequenze inutili e con dialoghi che più che evidenziare lo scetticismo alla modernità lo condannano con concetti difficili da comprendere al giorno d’oggi in una società come la nostra cresciuta con quei valori.
Harvest **
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“Harvest” (2024) di Athīna Rachīl Tsaggarī
Gli abitanti di un villaggio inglese in epoca medievale, dediti all’agricoltura, con l’arrivo di alcuni forestieri che diffondono i benefici della rivoluzione industriale vedono messa in pericolo la loro economia; rifiutano la modernità e un eventuale utilizzo dei primi macchinari che permetterebbe una maggiore produzione, ma anche la suddivisione delle terre coltivate per favorire la proprietà privata e con cui si darebbe avvio a una primordiale società capitalistica. Quando il raccolto risulta inferiore alle attese la colpa viene data ai forestieri, interessati secondo loro solo ad appropriarsi dei terreni. Il film era in concorso a Venezia l’anno passato e ha ricevuto perlopiù recensioni negative. Ha però delle frecce al proprio arco, come una regia a tratti interessante ed efficace, come ad esempio nella sequenza della festa dopo la fine del raccolto e una fotografia analogica che evidenzia le caratteristiche di paesaggi scozzesi dove il film è girato. Dove zoppica è nella sceneggiatura fin troppo lunga, che sfocia spesso in alcune sequenze inutili e con dialoghi che più che evidenziare lo scetticismo alla modernità lo condannano con concetti difficili da comprendere al giorno d’oggi in una società come la nostra cresciuta con quei valori.
Harvest **
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“Elisa” (2025) di Leonardo Di Costanzo
Elisa è in una prigione psichiatrica per aver ammazzato la sorella e tentato alla vita della madre. Veniamo a conoscere della sua vicenda attraverso il racconto che lei ne fa a un criminologo interessato alla sua storia. Si viene a sapere dei suoi cattivi rapporti con la madre, che neppure la voleva, delle responsabilità che i parenti le avevano dato affidandole le redini dell’azienda di famiglia ben conoscendo i suoi limiti. Il film era in concorso a Venezia pochi giorni fa e presenta un soggetto interessante a cui sceneggiatura e soprattutto regia non riescono a dare un vestito efficace, oltre ad alcuni personaggi disegnati male, soprattutto il criminologo che sembra fuori contesto. Rimane l’ottima interpretazione di Barbara Ronchi che riesce a trasmettere il malessere, il vuoto esistenziale e l’incapacità di mantener i nervi saldi nei momenti critici che accompagnano la protagonista per l’intero film.
Elisa **
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"Duse" (2025) di Pietro Marcello
Eleonora Duse è 10 anni che non recita. È malaticcia, piena di debiti, si limita a visitare i soldati al fronte. Sembra essere sul punto di morte quando ha un sussulto che la porta a esprimere il desiderio di tornare sul palcoscenico. Non pensa al cinematografo, l’arte del futuro, ma sempre al teatro, però sperimentale. Ma è un fiasco e allora si affida a d'Annunzio, l'Italia al duce. Il film era a Venezia dove ha ricevuto ottime recensioni. Non è un film semplice, con una fitta recitazione di stampo teatrale che alimenta delle perplessità all'inizio, poi fugate dalla regia di Marcello, molti fronzoli ma bravo a catturare ogni spunto di espressione degli attori. Bellissime le immagini di repertorio, riprese con un bel colore. E poi c’è la Bruni Tedeschi, vera protagonista della pellicola. Non ho mai amato particolarmente la sua recitazione, ma qui non si può non apprezzare lo sforzo effettuato nell’immedesimarsi nella Duse.
Duse ***
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Lo abbiamo visto anche noi ieri! Si, il film sta tutto nella Bruni Tedeschi e nella sua interpretazione: anche troppo lirica.