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BARDASSA O BARDASCIA:
Giovane omosessuale che si prostituisce, cinedo.
Termine comunissimo nei documenti antichi fino all'Ottocento, ma oggi non più usato.
Deriva dall'arabo bardag, "giovane schiavo", che a sua volta deriva dal persiano hardah, "schiavo".
II significato "ufficiale" in italiano è oggi quello di "monello", "ragazzo scapestrato", che ha riscontro anche in parecchi dialetti, ed ha un parallelo nel siciliano garrusu.
Più raramente è usato anche per indicare una prostituta.
Nell'italiano antico invece definiva normalmente l'omosessuale che si lascia penetrare analmente o, qualche volta, un prostituto.
Particolare curioso: veniva usato anche al genere femminile (una bardassa = un sodomita passivo).
L'identificazione della "persona priva di potere" (prima lo schiavo, e poi soprattutto il giovane) con il "passivo", era comune e facilmente comprensibile nella società antica, in cui il comportamento omosessuale era rigidamente ruolizzato a seconda dell'età e della posizione sociale dei partner. Analogo parallelo fra "giovinetto" e "sodomita passivo" era probabilmente contenuto in origine nel siciliano garrusu / arrusu.
II riscontro più sorprendente lo troviamo pero nell'italiano ragazzo, derivante dall'arabo magrebino raqqas, "giovane messaggero", "paggio", che è stato messo in relazione con l'evangelico raca (cfr. Matteo, V, 22, di solito tradotto con un banale "stupido"), interpretato proprio come "sodomita passivo", "rottinculo" (vedi in proposito: Warren Johansson, Whosoever shall say to his brother, "racha", "The cabirion and gay books bulletin", n. 10 (winter-spring 1984), pp. 2-4).
L'ampia diffusione passata di questo termine è testimoniata dall'esistenza di un corrispondente francese antico bardache (passato poi a indicare i travestiti sciamanici dell'America del Nord) e di uno spagnolo antico bardaje.
Alcuni esempi d'uso:
Queste bardasse isfondolati e ghiotti
vanno scopando il dì mille bordelli
e per mostrarci se son vaghi e belli
cercando van per chi dietro gli fotti.
(Francesco Da Colle, seconda metà sec. XV, in: Lanza, vol. 2, pp. 639-640).
Siena di quattro cose è piena:
di torri e di campane
di bardasse e di puttane.
(Proverbio attestato nel 1566 in Henri Estienne, Apologie pour Hérodote [1566], Liseux, Paris 1879, p. 41).
Aretin, se per quanto hai mostrato
sei mezzo pazzo e mezzo sei prudente,
(...)
mezzo bardascia e mezzo buggiarone
dimmi, per Dio, com'è possibil questo?
(Nicolò Franco, Rime contro Pietro Aretino, Carabba, Lanciano 1916, p. 47).
BUGGERONE, BUZZARONE O BUGGIARONE:
Altro termine molto usato prima dell'Ottocento ma in disuso ai nostri giorni.
Ne è rimasta una traccia solo nel verbo buggerare (che anticamente significava "sodomizzare") che oggi vuol dire "ingannare", esattamente per la stessa ragione per cui anche "inculare" viene ora usato nellinguaggio colloquiale per dire "ingannare", "imbrogliare".
Deriva da bu(l)garus ("bulgaro") attraverso il francese boulgre / bougre (che ha dato anche l'inglese bugger), probabilmente attraverso un ulteriore adattamento latino in bugeronem (da: bugero / bugeronis). Indicava l'opposto di bardascia, ossia il sodomita attivo.
Lo slittamento di significato si spiega col fatto che la sètta eretica dei càtari o albigensi - che si diceva avesse avuto origine, appunto, in Bulgaria - venne accusata nel XIII secolo dalle autorità ecclesiastiche di darsi, fra altre scelleratezze, alla sodomia.
È possibile che tale accusa alludesse in origine all'uso di pratiche anticoncezionali nel coito eterosessuale (i càtari ritenevano che tutto il mondo sensibile fosse opera del Male, e quindi procreare fosse "cattivo") perché buggioressa e buggeressa ("donna che si lascia sodomizzare"), sono attestati nella nostra lingua almeno una settantina d'anni prima di buggerone ("uomo che sodomizza").
Tanto martellante fu questa propaganda che il nome di bulgaro servì da allora per definire tanto gli eretici in genere che i sodomiti.
Col passare del tempo il primo significato andò perso, e rimase solo il secondo, che a sua volta ha poi ceduto il passo a quello attuale di "imbroglione".
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La figura dell'eretico e del sodomita sono state confuseintenzionalmente per ragioni di propaganda nel 1200-1300, e non è un caso che proprio a quest'epoca risalgano i primi roghi documentati di sodomiti (il più antico è del 1277). E non a caso Battaglia ipotizza che l'identificazione fra le due categorie sia avvenuta, semplicemente, "per l'identità della pena".
Tale tattica non è del resto ignota al nostro secolo: si pensi a come, durante e dopo l'ultima guerra, si sostenne la tesi secondo cui il nazismo era "intrinsecamente omosessuale", oppure come, in ambienti di destra, l'omosessualità sia considerata una tipica "deviazione bolscevica".
Così già nel fabliau francese Du sot chevalier, che risale proprio ai secoli XIII-XIV, un sodomita viene definito hérite (letteralmente: "eretico"):
Je n'irai mie à cel erite
qui en tele oevre se delite:
miex valdroie estre en croiz tenduz
que je fusse d'omme foutouz. "Io non andrò da quell'eretico
che si diletta in tale opera:
preferisco essere crocifisso
che fottuto da un uomo".
(Montaiglon, vol. 1, p. 225).
Anche in Italia l'identificazione fra "eretico" e "sodomita" ebbe successo, come attesta a cavallo fra Due e Trecento Cola di Messer Alessandro, poeta perugino, che nell'accusare gli spoletini di sodomia fa un sol mazzo delle accuse di sodomia ed eresia patarina:
Amico, sappie l'uso de Spolìte
(...)
femmine commune [prostitute] ne so' sbandite
(...)
son tutte [tutti] patarine, al ver parlare,
e 'nnaturate sodome condìte [sodomiti incalliti]. (Marti, p. 770.)
Il legame fra "bulgaro" e "sodomita" era ancora evidente nel XIV secolo inoltrato, come mostra Buonaccorso Pitti (1354-dopo 1431?) che raccontando nella sua Cronica un fatto del 1395 descrive come:
"Essendo egli caldo di vino e riscaldato del giuoco, mi cominciò a dire: "Ah, Lombardo vilano traditore, che farai? Vincierai tutta notte, bulghero, sodomito?"
(Buonaccorso Pitti, Cronica, Romagnoli-Dall'Acqua, Bologna 1905 , p. 88).
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La prima attestazione nella nostra lingua che abbia trovato con l'esplicito senso di "sodomita" risale al 1370, ed è riportata in un processo per insulti:
Sozzi bugieroni marci, io sono fuori di presone ad vostro dispecto!
(Bongi, p. 114).
Ecco altri esempi d'uso:
Qui giacion tutti quanti i cardinali,
chi buggeròn e chi per altro tristo,
ma ciaschedun di lor nemico a Cristo.
(Anonimo [1540], in: Valerio Marucci et all., Pasquinate romane del Cinquecento, Salerno, Roma 1984, p. 562).
Fatevi buggeròn, voi che non sête,
e in cul ponete ogni speranza vostra
(...)
piangete il tempo che perduto avete
(...)
e queste pote [fighe] siansi sempre a noia,
lasciando le morir, crepar di foia.
(Giovan Battista Marino (attribuita a), Persuasiva efficace a coloro che schifano la delicatezza del tondo. Foglio volante, s.i.t., circa 1650, (Parigi, Bibliothèque nationale, Enfer), p. 1).
Giunto al cospetto del Culiseo Romano
così cantava un buggeròn toscano:
"Il mio genio [gusto] è buggerone,
non inclina al sesso imbelle:
donerìa cento gonnelle
per un lembo di calzone".
(Giuseppe Parini, Tutte le opere, Barbera, Firenze 1925, p. 491).
Buggerone è stato, nel corso dei secoli, adattato a vari dialetti italiani: lombardo bolgiròn, veneto buzeròn e buzaròn, siciliano buzzarrùni ecc.
Ha paralleli anche con l'antico tedesco puzeron, il cèco buzerant e lo spagnolo bujarrón.
CHECCHA:
"Omosessuale effeminato".
Deriva da un vezzeggiativo di Francesca tuttora diffuso in molte zone d'Italia (Lazio, Toscana, Lombardia...), di cui esiste anche il maschile Checco.
L'uso di un vezzeggiativo femminile ha ovviamente, quando riferito ad un uomo, un'intenzione offensiva. Esso ha paralleli "canonici" in altre lingue, come per esempio nell'antico inglese Molly, Nelly e Mary-Ann, e probabilmente anche nello spagnolo odierno marica (che deriva dal nome "Maria" secondo Hernan Rodriguez Castelo, Lexico sexual ecuadoriano y latinoamericano, Libri mundi, Quito 1979, pp. 332-333).
Per un parallelo italiano si veda il veneto peppia: "donna lagnosa e noiosa" ed "omosessuale effeminato", "checca".
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Checca è molto usato soprattutto in Lazio e Lombardia, ma anche, in misura minore, nel resto d'Italia, e comprende almeno tre significati leggermente diversi.
Il primo è quello, già enunciato, di "omosessuale effeminato", in senso spregiativo:
Nell'omosessualità come mondo monosessuale il maschilismo viene continuamente alimentato. Le caratteristiche di imitazione femminile della "checca" sono solo parzialmente in contrasto con quanto detto.
(Giovanni Forti, II maschilismo omosessuale, "Ombre rosse", n. 18/19, gennaio 1977, pp. 123-128, a p. 127).
Il secondo è quello di "omosessuale" in genere, ancora in senso spregiativo.
Luciano invece è stato sbertulato tutta la sera da questo orrendo, questa orrenda checca. "Marchetta", lo ha chiamato dall'inizio alla fine, senza carità né per lui né per me.
(Dario Bellezza, Lettere da Sodoma, Garzanti, Milano 1973, p. 52).
Il terzo, tipico del gergo gay, indica (ma senza significato spregiativo) un omosessuale, ed è alla base di numerose espressioni composte (tra le più note: checca fatua, fracica, isterica, manifesta, marcia, onnivora, pazza, persa, sfatta o sfranta, storica, velata) o ancora di termini composti (come chierichecca: "omosessuale bigotto").
La mitologia classica, la biologia, la Tunisia, i paragoni zoologici, lo fanno anche certi scimmiotti, ah sì, e pare che ci siano anche delle balene checche, ma no, cosa mi dite mai, cher maître, eppure sì sì, me l'assicurano certi balenieri...
(Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, Einaudi, Torino 1973, p. 154).
CUPIO:
Dal latino medievale cupa, "botticella", "recipiente" (che sopravvive anche nell'italiano semicupio, la tipica vasca da bagno in cui ci si lava seduti).
È termine dialettale piemontese per "omosessuale".
La riduzione dell'omosessuale a contenitore" (è facile immaginare di che cosa) ha riscontro in molti dialetti, per esempio nel napoletano vasetto, nel meridionale lumino, nel toscano buco e bucaiolo, e nell'emiliano busone.
Ecco un esempio d'uso:
A scuola, in un primo tempo, i compagni mi deridevano perché portavo i capelli tinti sul rossiccio. (...) Mi davano del cupio e mi sfottevano.
(Edoardo Ballone, Uguali e diversi, Mazzotta, Milano 1978, p. 111).
FINOCCHIO:
Forse nessun termine come questo (ad eccezione di frocio), ha suscitato ipotesi così contrastanti sull'etimologia. Per fortuna è possibile stabilire alcuni punti fermi, che permettono di arrivare a una spiegazione soddisfacente.
Innanzi tutto: l'uso di finocchio nel senso di "omosessuale" è recente. Non sono a conoscenza di alcun documento in cui se ne abbia traccia prima del 1863, anno in cui apparve nel Vocabolario dell'uso toscano di Pietro Fanfani (Barbera, Firenze 1863).
L'unica attestazione precedente, riportata dal Battaglia, mi sembra dubbia, perché appare in una composizione poetica in cui l'autore, Meo de' Tolomei, vuol mettere in risalto la stupidità di suo fratello Min Zeppa.
Quando Mino entra in chiesa, secondo Meo, è tanto maldestro nel fare il segno della croce da cacciarsi le dita nell'occhio, o così babbeo da salutare Dio dicendo: "Dio vi dia il buon dì, signor Dio".
La conclusione del poeta è quindi "che ben ve sta uma' dicer finocchio" (Marti, p. 260), cioè: "ormai ti sta bene se ti chiamano finocchio".
In questo contesto mi sembra che a finocchio si adatti meglio il significato di "babbeo", "stupido", molte volte attestato in altri scrittori antichi (c'è addirittura una maschera toscana di babbeo, con questo nome).
Del resto nessun vocabolario pubblicato prima del Fanfani registra tale uso della parola, mentre gli antichi scrittori preferiscono usare altri termini derogatori (soprattutto buggerone e bardassa) a scapito di questo.
Anche negli antichi processi per ingiurie finocchio è, per quanto mi è dato sapere, assente.
Sulla base di queste considerazioni concluderemo quindi che "finocchio", nel senso di "omosessuale" è termine recente, di origine toscana, diffusosi dopo l'Unità nel resto d'Italia (ma più al Nord che al Sud, dove frocio e recchione gli hanno fatto concorrenza), soprattutto grazie a scrittori "realisti" toscani (per esempio Prezzolini) che lo hanno utilizzato nei loro scritti.
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Quanto appena detto dovrebbe essere d'aiuto nel risalire all'etimologia.
Le proposte sono molte, ed alcune anche bizzarre: c'è ad esempio chi propone un lambiccato fenor culi (in latino: "vendita del culo"), e chi lo ricollega all'ortaggio omonimo per varie ragioni. Alcuni perché esso "ha il gambo vuoto" (e qui saremmo nel campo di buco o cupio), altri perché i finocchi detti "maschi" sono più gustosi di quelli detti "femmine", altri infine (Luciano Massimo Consoli, Viva l'Italia, "Ompo", V 1979, n. 51, pp. 2-6, p. 5), perché "il finocchio è pianta agametica, cioè che si riproduce senza essere impollinata, e quindi non ha bisogno dell'"altro" sesso".
Ma la proposta di etimologia che ha veramente fatto furore negli ultimi anni è quella che ricollega i finocchi ai roghi medievali di sodomiti.
Secondo tale spiegazione, per coprire l'odore di carne bruciata sarebbe stato anticamente costume usare legno di férula (quello spugnoso prodotto dalle piante di finocchio selvatico), oppure (addirittura!) fasci di finocchi buttati nel fuoco.
A sostegno di tale tesi si cita il parallelo con l'inglese faggot, che significa tanto "fascina di legna" che "omosessuale".
Come accade spesso nelle questioni intricate, la spiegazione è in realtà molto più semplice di quanto tale involuta spiegazione lasci pensare.
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Innanzitutto non si è finora riusciti a trovare attestazioni dell'uso di gettare finocchi sui roghi. La consultazione di documenti antichi non mi ha finora permesso di trovarne traccia (e se qualcuno riesce a trovare una qualsiasi attestazione è cortesemente pregato di comunicarmela, perché fin qui nessuno è stato in grado di farlo).
Caso mai si saranno usati ginepri, come spingono a pensare il Burchiello (1404-1449):
Lascia i capretti e piglia delle lepri
se non vuoi fare un dì fumo e baldoria
d'odorifera stipa di ginepri.
(Lanza, p. 455)
ed anche Matteo Franco (1447-1494):
Al tuo falò s'adoperrà ginepri,
perché tu della puccia segui e' sulci;
lascia i caprecti e piglia delle lepri.
(Matteo Franco e Luigi Pulci, II libro dei sonetti, Società Dante Alighieri, Roma 1933, p. 17)
(tuttavia Franco e il Burchiello scrivono in "codice", con un gergo colmo di maliziosi doppi sensi: ad esempio in questi versi i capretti da lasciare sono i ragazzi, mentre le lepri che è opportuno cercare sono le donne. Quindi anche i "ginepri" potrebbero essere in realtà altro).
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In secondo luogo resterebbe da spiegare perché, se l'ipotesi che lega finocchio ai roghi è corretta, le altre categorie di persone in passato condannate alla stessa pena non abbiano ricevuto lo stesso nomignolo, sul modello di quanto accaduto con buggerone. Perché le streghe non sono "finocchie"?
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Infine va sottolineato che il parallelo con faggot non regge, perché, come ha dimostrato Warren Johansson (The etymology of word "faggot", "Gay books bulletin", n. 6 (Fall 1981), pp. 16-18 e 33), faggot nel senso di "omosessuale" nacque in America solo alla fine del secolo scorso, derivando da un fagot, antico francese e poi inglese, che significava "carico pesante" (e da qui l'inglese per "fascina", ma anche l'italiano... "fagotto" ) e poi "donna pesante da sopportare", "donna noiosa", in parallelo con il già citato peppia nostrano ("donna petulante e insopportabile" e "checca").
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L'etimologia più corretta sarà insomma, e senza dubbi, quella che mette in relazione il significato odierno di finocchio con quello che la parola aveva nel medioevo, e cioè "persona dappoco, infida", "uomo spregevole".
In questo senso lo troviamo ad esempio già in un apocrifo dantesco (sec. XIV):
E quei, ch'io non credeva esser finocchi, [traditori]
ma veri amici, e prossimi, già sono
venuti contra me con lancie, e stocchi.
E quegli, ch'era appresso a me più buono,
vedendo la rovina darmi addosso,
fu al fuggir più, che gli altri, prono.
(Dante Alighieri (apocrifo), I sette salmi penitenziali, Tipografia Silvestri, Milano 1851, p. 49).
A sua volta tale uso traslato della parola deriva probabilmente dall'uso di semi di finocchio per aromatizzare la carne e soprattutto la salsiccia.
Il seme di finocchio ovviamente non aveva alcun valore, al paragone con le costosissime spezie che venivano dall'Oriente. Si confronti il toscano "finocchi!" per "Cose da nulla!" nonché il modo di dire "essere come il finocchio nella salsiccia", ossia: "non valere nulla".
Quindi: da "cosa o persona di nessun valore", la parola "finocchio" è passata a indicare "uomo spregevole", che non vale nulla, che non merita nessuna stima, e poi, in senso più restrittivo, "uomo spregevole in quanto si dà alla sodomia passiva". Tutto qui.
(Per un'evoluzione analoga vedi frocio).
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Ecco qualche esempio d'uso:
Scattai: E io che sono? Una rapa? O un finocchio, come dicono certi? Non sono come te?
(Giò Stajano, Roma capovolta, Quattrucci, Roma 1959, p. 155).
I fiorentini chiamano "finocchio" colui che lo prende fra le mele, ma chi lo mette, non si sente né l'uno né l'altro.
(Leone Fiorentino, Gli amori impossibili di una fanciulla e di un ragazzo inesperto circuìto da due omosessuali, Lalli, Poggibonsi 1977, p. 14).
I "ragazzi di vita" non sono più corrotti dell'operaio iscritto al Pci che insulti i finocchi, maltratti la moglie e picchi i figli.
(Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino 1977, p. 155).
FROCIO E FROSCIO:
Nonostante gli sforzi fatti, si può ancora definire "oscura" l'etimologia di questa diffusissima parola. Essa ha avuto origine in un àmbito - quello gergale/dialettale (di Roma) - che normalmente non lascia di sé tracce scritte. Ciò rende molto difficile, se non impossibile, verificarne l'evoluzione servendosi di documenti storici.
L'evoluzione della parola ci è chiara solo a partire dall'Ottocento, mentre l'origine vera e propria è ancora dubbia.
Le etimologie proposte per frocio sono perciò davvero numerose. Massimo Consoli (Feroce, floscio o al limite gay, "Paese sera", 22 ott. 1985, p. 5) ne propone addirittura (troppa grazia!) tre:
La prima da feroci, epiteto lanciato contro i lanzichenecchi che misero a sacco Roma nel 1527 e che nella loro furia stuprarono indistintamente uomini e donne.
La seconda fa riferimento a una non meglio identificata "fontana delle froge" (narici) presso cui anticamente si sarebbero riuniti gli omosessuali romani.
La terza infine si richiama a floscio (a sua volta dallo spagnolo flojo) con la tipica rotacizzazione del romanesco (in cui altra volta diviene artra vorta, e floscio, froscio), e che indicherebbe sia l'incapacità dei froci ad averlo "tosto" con le donne, sia la loro mollezza.
In generale, l'etimologia più diffusa (proposta da Chiappini, accennata anche nel Battaglia ed accettata da De Mauro) mette in relazione con froscio / frocio i perversi costumi (sessuali e non) dei lanzichenecchi del papa, che fra l'altro sarebbero stati spesso e volentieri ubriachi, ed avevano quindi le "froge" (narici) del naso rosse e gonfie. Da qui l'epiteto di frogioni / frocioni che nella seconda forma è ancora in uso (seppur con il nuovo significato) a Roma.
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Ho lasciato in ultimo le due proposte meno diffuse. Entrambe fanno riferimento all'uso antico (vale a dire dell'inizio del secolo scorso) di questa parola, che era (si veda Battaglia-sub voce) termine spregiativo per definire i francesi (un po' come oggi si usa crucco per definire ironicamente un tedesco).
Da quel che mi è stato possibile notare, non esistono infatti attestazioni antiche dell'uso odierno di frocio: la prima che io conosca risale alle schede che Filippo Chiappini lasciò inedite alla sua morte, avvenuta nel 1905.
Si tratta oltre tutto di un uso ancora dichiaratamente dialettale/gergale romano, per di più giudicato recente dallo stesso Chiappini.
Escluderei insomma anche in questo caso un largo uso antico della parola nel significato di "omosessuale": anche qui essa è giunta fino a noi attraverso un progressivo slittamento di significati.
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Delle due etimologie che presento in ultimo, la prima suggerisce una derivazione diretta da français, attraverso una storpiatura satirica che su bocca romana ha riprodotto come "fronsce" quello che su bocca francese (quale?) suonava come "fronsé" (l'abbondare nel fonema "sc" sarebbe tipico di chi imita burlescamente la pronuncia francese). Non mi convince molto, ma per dovere di completezza la riporto.
La seconda, rifiutando la tesi dell'evoluzione satirica da français, propone una derivazione dal tedesco frosch ("ranocchio"), che ha un parallelo nell'inglese frog ("ranocchio" e "francese").
Che pure il "livello basso" della lingua possa arricchirsi di prestiti da altri idiomi lo dimostrano innumerevoli esempi, a cominciare dal diffusissimo "brindisi!" (dal tedesco (ich) bring dir's, "bevo alla tua salute") per finire proprio col già citato crucco, che ci viene addirittura dal serbocroato.
Proprio come brindisi! è stato introdotto in italiano dai mercenari svizzeri presenti nel Cinque-Seicento, le loro ironie su qualche frosch potrebbero essere state imitate dagli italiani, pur senza capire il significato della parola, proprio come crucco è stato usato senza preoccuparsi dell'etimologia, che aveva a che vedere col "pane" (kruh).
Purtroppo non conosco il tedesco e la sua evoluzione; ciò m'impedisce di verificare quanto di vero possa esserci in questa proposta. Per quel che ne so, potrebbe a sua volta trattarsi (come suggerisce Aldo Mieli in "Rassegna di studi sessuali", II 1922, p. 374) d'una "etimologia popolare" o d'una storpiatura burlesca di qualche nome di popolo, ad esempio Friese, "frisone", passato a indicare spregiativamente gli stranieri in genere. (Il Belli in effetti usa "frocione" per "frisone"). Friese infatti, secondo Mieli, in tedesco significa proprio "straniero", e non certo in senso positivo.
Ma la prudenza mi impone di fermarmi qui.
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Quale che sia l'origine della parola, è comunque possibile seguire buona parte della sua trasformazione successiva.
Le prime attestazioni scritte che ho trovato risalgono all'inizio del XIX secolo, durante l'occupazione di Roma da parte dei francesi. Contro di loro furono prodotti stornelli, pasquinate e sonetti, come ad esempio quello che dichiara:
Bigna davvero, che 'sti froci matti
che da tutti son detti sanculotti
pensino che de stucco semo fatti
che vonno venì a Roma a fà scialotti.
(Emilio Del Cerro, Roma che ride, Roux e Viarengo, Torino 1904, p. 76).
Che a quell'epoca i "froci" fossero sì francesi, però "normali", lo rivelano tre versi di uno stornello antifrancese degli stessi anni:
Fiore de pera;
sto frocio che a mia fija fa la mira,
ha voja de cenà l'urtima sera.
(Emilio Del Cerro, Op. cit., p. 79).
Come si noterà, qui ad essere presa di mira è la fija (e non il fijo) dello stornellatore.
Dopo solo un quarto di secolo ritroviamo questa parola con un significato più largo, che comprende indistintamente tutti gli stranieri ("svizzeri" del Papa inclusi, ovviamente; e forse fu proprio la presenza di questo contingente di lingua tedesca a dare a frocio il significato antonomastico di tedesco, che è quello conosciuto da Chiappini). In una pasquinata, scritta durante il conclave del 1823 contro il cardinale bavarese Höfflin, si legge infatti:
Non ve fidate tanto de sti froci:
sò de fà bene ar prossimo incapaci:
sò a pagà tardi, ed a piglià veloci
(Aldo Mieli: Recensioni. "Rassegna di studi sessuali", II 1922, p. 374)
Va incidentalmente aggiunto che non sarebbe senza importanza lo stabilire se più antiche attestazioni di questa parola (se esistono) usino frocio nel significato generico di "straniero", oppure nel significato particolare di "francese" o di "tedesco". Riuscire a verificare simile priorità aiuterebbe a privilegiare una delle etimologie proposte piuttosto che l'altra.
Ad ogni modo è certo che verso la metà del secolo scorso "frocio" veniva usato genericamente contro tutti gli stranieri.
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E siccome il razzismo è quello che è, non tardò a manifestarsi un ulteriore slittamento di significato. Dopo l'attestazione appena riportata, frocio entrò infatti nella crisalide del gergo della malavita, dove fu ulteriormente rielaborato.
Non ho ovviamente trovato testimonianze relative a questa evoluzione sotterranea, ma è facile intuire che durante questa fase frocio assunse dapprima il significato di "uomo spregevole" in genere (spregevole come uno straniero, evidentemente), "infame", "persona che merita disprezzo". Infine, nella seconda metà del secolo (cioè nello stesso periodo in cui anche finocchio subiva un'evoluzione analoga) il significato di "uomo infame" andò restringendosi a un solo tipo di persone: l'uomo spregevole per eccellenza: il sodomita passivo.
In questa fase sì che può aver giocato un ruolo l'assonanza con froscio nel senso di "floscio", "molle", "flaccido", che è anche di altri dialetti, come ad esempio il siciliano:
Ma l'ultimo, jucannu a pari e zìpari
si muzzicava li labbrazza frosci
(Ma l'ultimo, giocando a pari e dispari / si morsicava le labbracce flosce: Giuseppe Calvino (1785-1833), Lu dimoniu e la carni, Trincale, Catania 1978, p. 140).
Nel 1910 frocio uscì infine dal bozzolo col significato assestato di "sodomita passivo": Emanuele Mirabella registra infatti in quell'anno nel gergo dei criminali questo termine (oscillando tra la grafia frocio e quella froscio) e lo glossa come "effeminato":
Nel gergo sono numerose le frasi ed espressioni dapprima platoniche, poi crudamente oscene: "Ninello mio" significa "giovane caro ed amato" (...), "froscio" "cianciuso", "tartante" <significano> "effiminato" (sic).
(Emanuele Mirabella, Mala vita, Perrella, Napoli 1910, p. 232).
Da qui al significato odierno ("omosessuale" in genere) il passo è ormai breve, e scontato.
L'uscita di questa parola dal gergo dei "coatti" avverrà subito dopo la seconda guerra mondiale per mezzo del cinema e dei romanzi più o meno "neorealisti", che col loro desiderio di riprodurre il linguaggio "colorito" del "popolo" hanno introdotto nell'italiano colloquiale numerose espressioni di origine "bassa".
Oggi frocio è diffuso in tutta Italia: sebbene al Nord (dove è pronunciato /fro'tcho/) gli sia sovente preferito finocchio e al Sud prevalga spesso ricchione, è d'uso interregionale.
Come è ovvio la sua "roccaforte" è nel Centro Italia e a Roma (dove è pronunciato /fro'sho/).
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Eccone alcuni esempi d'uso:
Vedi che cosa succede a lasciar sola la propria fidanzata? (...) Torni e la trovi come Penelope in mezzo ai "froci".
(Giò Stajano, Roma capovolta, Quattrucci, Roma 1959, p. 59).
E poi, sei frocio pure tu,
peggio di una sgualdrina ti vanti del tuo
povero corpo di mal nutrito.
(Dario Bellezza, Morte segreta, Garzanti, Milano 1976, p. 44).
Erano i carabinieri. Appena ci hanno visti hanno iniziato con gli insulti: "froci", "rottinculi" etc. Siamo stati ridicolizzati in tutti i modi.
("Babilonia" n. 33, febbraio 1986, p. 59).
GARRUSU (e le varianti ARRUSU, IARRUSU, JARRUSU):
Termine siciliano che indica l'omosessuale passivo. Sembra che una volta di più ci troviamo di fronte all'equiparazione fra il giovane e l'omosessuale passivo (cfr. bardassa).
L'etimologia, proposta da Giovanbattista Pellegrini (Gli arabismi nelle lingue neolatine, Paideia, Brescia 1972), fa infatti riferimento all'arabo (c)arùs, "fidanzata", "giovane", e potrebbe essere la stessa del controverso carusu, "ragazzo".
Del resto il termine indica oggi a Messina (proprio come bardassa in italiano) anche un ragazzo fin troppo vivace, un monellaccio.
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Un'attestazione di tale parola troviamo già in una legge del XIV secolo:
Hai iniuriato ad alcuna fimina bagaxa, o i garzuni karrusu scassatu...
(Giovanbattista Pellegrini, Op. cit., vol. 1, p. 211).
Ecco due attestazioni più recenti:
Un gruppo di omosessuali palermitani sfilava per una via cittadina con un gran cartello su cui era scritto: "Arrusi sì, ma contro la DC".
(Edoardo Ballone, Uguali e diversi, Mazzotta, Milano 1978, p. 91).
I dialetti, che pure dovrebbero possedere un patrimonio di parole meno ricco della lingua nazionale, possiedono dei termini ben precisi e a volte simpatici per definire i "gay" (buliccio, frocio, finocchio, puppu, jarrusu, buco, ricchione...).
("Babilonia" n. 6, settembre 1983, p. 6).
GAY:
Dal significato originale di 'allegro', la storia di un termine che è arrivato a identificare la comunità omosessuale. E che ora, però, ha assunto una valenza particolarmente negativa.
Da parecchi decenni gli omosessuali statunitensi usano nel loro gergo la parola gay per indicare se stessi.
La radice di questa parola è quella dell'antico francese (più esattamente, provenzale) gai: "allegro", "gaio", "che dà gioia" (come "lo gai saber", "la gaia scienza", che è la scienza d'Amore) che passò in inglese come gay. In questa lingua la parola acquisì nel Settecento secolo il senso di "dissoluto", "anticonformista" (come in "allegro compare").
Il significato peggiorò ancora nell'Ottocento, fino a voler dire "lussurioso", "depravato".
Ecco perché, nell'Inghilterra dell'Ottocento, una gay woman era esattamente quel che in italiano è "una donnina allegra", cioè una prostituta, mentre una gay house (letteralmente "casa allegra") era un bordello.
Come si vede l'omosessualità, in questa fase della lingua, non c'entrava ancora nulla.
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L'omosessualità entra in ballo solo nell'inglese parlato negli Usa, prima del 1920, anno dal quale iniziano a moltiplicarsi le attestazioni dell'uso di gay col significato di "'omosessuale" (riferito ai soli uomini, e non senza uno sfottente parallelo con la gay woman), anche nel gergo della sottocultura statunitense.
Nel 1938 "gay" era già compreso dalla massa dei parlanti americani col senso di "omosessuale": lo rivela un film di quell'anno, Bringing up baby (in italiano, Susanna), nel quale l'attore Cary Grant è sorpreso, per un malinteso comico, in vesti femminili. A chi gli chiede il perché, risponde stizzito: "Because I just went gay all of a sudden", "Perché sono appena diventato gay tutto d'un tratto!".
Il "grande salto" nell'uso di questo termine avvenne comunque solo nel 1969, con la nascita negli Usa del nuovo movimento di liberazione omosessuale.
I nuovi militanti rifiutarono i termini usati fin lì, come omosessuale e soprattutto "omofilo".
Non volendo più essere definiti con le parole usate dagli eterosessuali, spesso ingiuriose, gli omosessuali che scesero in piazza ribellandosi scelsero di auto-definirsi (come già avevano fatto i neri, che avevano rifutato negro preferendogli black) usando un termine del loro stesso gergo: gay.
Era nato il "Gay liberation front", abbreviato in "Gay lib".
Sull'esempio americano gay si diffuse nel mondo ovunque esistesse un movimento di liberazione omosessuale.
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La diffusione in Italia di questa parola attraverso il movimento di liberazione gay, dal quale passò al linguaggio generale, data dal 1969-1971. Non senza qualche divertente (e vana) protesta in Piemonte, dove sono numerosi coloro che portano il cognome provenzale "Gay".
La parola era comunque già apparsa negli anni Cinquanta e Sessanta sulla bocca degli omosessuali che viaggiavano o frequentavano turisti americani. Lo testimonia un libro di Giò Stajano che l'adopera, come termine straniero, già nel 1959:
Poi, una sera, al bar del Flora, conobbi Charly, un ricco americano quarantenne e, naturalmente, ricco e "gay".
(Giò Stajano, Roma capovolta, Quattrocci, Roma 1959, p. 254).
In Italia "gay" si rivela abbastanza radicato anche fra gli etero a partire dal 1985 circa.
Oggi è ormai entrato a far parte dell'italiano corrente, ed è compreso da tutti nel significato di "omosessuale".
Si noti però che dal significato originario di "omosessuale orgoglioso e militante" (contrapposto all'"omosessuale" vecchio stile) oggi gay è passato a indicare semplicemente la persona omosessuale in quanto tale, indipendentemente dalle sue idee politiche.
Si noti che negli anni Settanta il movimento lesbico-separatista scelse di proporre la parola "lesbica" al posto del generico (e "maschile") "gay".
Una chiara conseguenza di tale proposta si ha nell'esistenza, in Italia, di un "Arcigay" e di un'"Arcilesbica" ben separati anche da punto di vista della terminologia.
Oggi però, fra le generazioni più giovani e meno politicizzate, "lesbica" viene a volte sentito come parola troppo "connotante", cosicché alcune donne si autodefiniscono "gay" ed altre "lesbiche".
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Il fastidio provato da una generazione di giovani omosessuali non politicizzati e spesso nemici di qualunque "movimentismo", ha favorito la diffusione negli Usa di una "leggenda urbana" secondo cui gay nascerebbe come acrostico (cioè sigla) delle parole Good As You ("buono/valido quanto te").
Questa falsa spiegazione serve solo a nascondere e cancellare le origini "politiche" e "di sinistra" della parola, e del movimento che l'ha imposta.
Good as you è però ormai il titolo d'una canzonetta di Geri Halliwell, e in Italia è il titolo d'uno spettacolo teatrale, oltre che il nome d'una trasmissione televisiva settimanale romana mirata ai gay.
Ciò non toglie che la spiegazione legata a questa frase sia una "leggenda urbana", e basta.
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Ancora più interessante è notare come l'uso di gay come termine comune per "omosessuale" abbia sottoposto questa parola alla stessa usura che in passato ha trasformato a ripetizione gli eufemismi (come "omosessuale" o "invertito") in insulti.
Oggi i ragazzini scrivono sui muri "Tizio è gay", esattamente come dieci o vent'anni anni fa scrivevano "Tizio è culo" o "ricchione".
I termini sono cambiati, ma i preconcetti che sottintendono, no.
Negli Usa lo scivolamento di significato è stato particolarmente accentuato, al punto che "gay" è diventato un sinonimo colloquiale di lame, boring, bad, cioè di "mediocre", "noioso", "brutto", "schifoso / cattivo".
"Il film che ho visto ieri sera is so gay", cioè "fa schifo, è noioso".
Il fenomeno è talmente diffuso che John Caldwell ne ha scritto preoccupato sul mensile gay "Advocate" del 25/3/2003.
E secondo l'enciclopedia online Wikipedia, "in alcune parti degli Stati Uniti questo uso gergale è talmente comune tra i ragazzini che molti lo usano senza nemmeno sapere a cosa si riferisca la parola", come in effetti dimostra un esempio divertente di tale uso: "my computer is acting gay", "il mio computer funziona male" (ma letteralmente: "si comporta da gay"!).
INVERTITO
Questo è un termine per così dire "artificiale", quello che i linguisti chiamano un "calco", nato nel 1878 nell'articolo per iniziativa di Arrigo Tamassìa, che cercava un corrispondente adeguato del tedesco Conträrsexuale(tradotto poco elegantemente da qualcuno come sessual-contrario o contrarsessuale).
Gli scienziati della fine dello scorso secolo (e Tamassia con loro) ritenevano infatti che l'omosessualità fosse una condizione in cui nell'organismo di un determinato sesso si osserva un atteggiamento tipico dell'altro sesso, ovvero, per l'appunto, invertito.
Oggi le persone che Tamassia descrive nel saggio in cui conia la parola invertito (Sull'inversione dell'istinto sessuale, "Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale", IV 1878, pp. 97-117) sarebbero classificate come "transessuali", ma all'epoca si riteneva che costoro fossero i più rappresentativi esempi (o esemplari...) della "categoria" dei "diversi".
Questo neologismo ebbe un tale successo che non solo sopravvive ancor oggi, seppure come termine ingiurioso o comunque sprezzante, ma è stato ripreso da altre lingue (per esempio nell'inglese invert, francese inverti ecc.).
Nerina Milletti suggerisce che invertito
"si diffuse poi nelle altre lingue europee forse anche perché chiamarla sessualità "contraria" poteva dare un'idea di ribelle, alternativa, mentre una sessualità "invertita" era chiaramente anomala e innaturale"
Un buffo calco popolare di questo termine è capovolto, in uso negli anni Cinquanta e Sessanta.
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Ecco alcune attestazioni recenti:
L'internazionale degli invertiti, tragicamente spezzata dalla guerra, si ricomponeva in questo primo lembo d'Europa liberata dai bei soldati alleati.
(Curzio Malaparte, La pelle [1949], Mondadori, Milano 1978, p. 73).
Per loro il bidet era una raffinatezza da invertiti.
(Giulio Salierno, La repressione sessuale nelle carceri italiane, Tattilo, Roma 1973, p. 107).
Per ben due volte in vita sua qualcuno ha telefonato, in città forestiere, a suoi datori di lavoro per definirlo
"uno sporco invertito comunista".
(Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Mondadori, Milano 1985, p. 441).
OMOSESSUALE:
Forse molti di quelli che oggi vorrebbero abolire questa parola non ci crederanno, ma essa era nata originariamente come eufemismo. Fu infatti coniata nel 1869 da un militante austriaco di origine ungherese, lo scrittore Károly Mária Kertbeny (o prima del 1847, Karl Maria Benkert, 1824-1882) (che era "dottore" perché era laureato, e non perché fosse un medico, come oggi si legge fin troppo spesso!).
Benkert creò homosexuel da una non troppo elegante mescolanza grecolatina di òmoios = "affine", "analogo" e sexualis ("che ha a che vedere col sesso") per indicare una persona che pur essendo in tutto uguale alle altre, sperimenta un'attrazione per individui del suo stesso sesso.
In questo neologismo, apparso in un pamphlet che chiedeva l'abolizione delle leggi antiomosessuali prussiane, e nella sua voluta "asetticità" (che l'ha fatto ritenere da molti erroneamente un termine d'origine medico-psichiatrica) c'è un'intenzione polemica nei confronti del quasi coevo urningo / uranista coniato da Ulrichs, che invece sottendeva un intrinseca "differenza" di chi amava persone del suo stesso sesso, anche nel senso di una certa qual effeminatezza. Benkert al look virile ci teneva, e non poteva quindi che contrapporre un "suo" neologismo a quello di Ulrichs.
I due termini si fecero, all'inizio, concorrenza, e fino alla fine del secolo scorso sembrò che urningo / uranista l'avesse vinta. Ma verso il 1890 omosessuale iniziò ad apparire in pubblicazioni scientifiche per "merito" di medici e psichiatri (soprattutto di Krafft-Ebing) che avevano direttamente o (più spesso) indirettamente letto le tesi di Benkert.
Furono però i grandi scandali d'inizio secolo (Wilde, Krupp, Molthe-Eulemburg) a renderlo noto alla popolazione generale come termine nuovo e "discreto", adatto anche ai giornalisti...
Dalla letteratura scientifica lo prese poi la psicoanalisi, che rifiutava a priori l'idea di una "causa organica" dell'omosessualità, come quella sottintesa in urningo.
Con il trionfo della psicoanalisi sùbito dopo la seconda guerra mondiale, urningo fu anzi completamente spazzato via.
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In Italia omosessuale apparve a stampa nel 1894, ripreso direttamente dal tedesco (e non tramite il francese, come ipotizza il Battaglia) in un manuale di psichiatria di Enrico Morselli, che scriveva:
Sono una sopravvivenza od un ritorno dell'immoralità primitiva le forme più o meno mostruose di relazione carnale fra individui omosessuali.
(Enrico Morselli, Manuale di semejotica delle malattie mentali, Vallardi, Milano 1894, vol. II, p. 681).
Nerina Millettisegnala però l'utilizzo in italiano di questa parola, come aggettivo, già nel 1892.
Per ulteriori informazioni su questo termine e sulla personalità del suo creatore, non si può non fare riferimento agli splendidi saggi che sull'argomento hanno scritto Jean Claude Féray e Manfred Herzer:
Jean Claude Féray, Une histoire critique du mot "homosexualité", "Arcadie", nn. 325 pp. 11-21; 326 pp. 115-124; 327 pp. 171-181; 328 pp. 246-258, Janvier-Avril 1981.
Jean Claude Féray e Manfred Herzer, Kertbeny, une énigmatique "mosaïque d'incongruités", "Études finno-ougriennes", anno XXII, pp. 215-239.
Jean Claude Féray e Manfred Herzer, Une légende et une énigme concernant Karl Maria Kertbeny, in: Actes du colloque international, Sorbonne, 1er et 2 décembre 1989, vol. 1, Cahiers Gai-Kitsch-Camp, Lille 1989 (ma 1991), pp. 22-30.
Manfred Herzer, Kertbeny and the nameless love, "Journal of homosexuality" XII 1985, fascicolo 1, pp. 1-26.
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Eccone alcuni esempi d'uso:
Forse nella storia del mondo è esistito un omosessuale monogamo, ma ne dubito. Anche tu...
(André Tellier, Uomini del crepuscolo, Garzanti, Milano 1951, p. 215).
Il desiderio omosessuale è l'ingenerante-ingenerato, il terrore delle famiglie perché si produce senza riprodursi.
(Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino 1977, p. 52).
Vivo una mia solitudine quando sento che passano gli anni... quando gli altri avranno la sola colpa di essere vecchi, e io sarò un vecchio omosessuale.
(Lettera a "L'Unità", 30/11/1979).
RECCHIONE o RICCHIONE:
Con questa parola rieccoci nel campo delle ipotesi, con solo pochi elementi certi.
Fortunatamente alcune ipotesi di Cortellazzo hanno fornito elementi di discussione di un certo rilievo.
Ciò che sappiamo per certo è che ricchione è termine d'origine meridionale diffuso poi anche al Nord, con ogni probabilità per tramite del gergo della malavita, con forme come il veneto reciòn, ed il lombardo oreggia (leggi: "urègia") ed oreggiatt (leggi: "uregiàtt"). Oggi è anche italianizzato in orecchione (termine presente nel Battaglia).
Nella sua spiegazione Cortellazzo ne propone la derivazione o da un riferimento alla lepre, o da un ipotetico termine *hirculone.
Nel primo caso si sarebbe alluso alla proverbiale lussuria dell'animale dalle lunghe orecchie, appunto, ed alla circostanza, riferita dai bestiarii dei primi secoli del cristianesimo, che la lepre cambierebbe sesso a volontà, simboleggiando cosi l'amore contro natura.
Nel secondo caso si fa invece riferimento (a mio parere, più credibilmente) alla fama di lussuria dell'hircus, cioè del caprone, attraverso il già citato termine *hirculone. Battaglia (sub voce) accetta questa proposta etimologica, chiosando che *hirculone sarebbe stato usato "col valore di "immondo" e, quindi di "pederasta" (sic) per le abitudini perverse dell'irco".
Esaminiamo allora queste due proposte, che sono ormai le più accreditate.
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La prima spiegazione non è molto convincente: risalire fino all'antichità classica o ai bestiarii medievali è infatti eccessivo in un campo, come quello degli insulti antiomosessuali, in cui nessun termine dialettale rivela mai più d'un secolo o due di vita.
Il meccanismo dell'eufemismo infatti "logora" dopo qualche tempo le parole più usate, spingendo a sostituirle con altre, nuove (si veda il caso di buggerare, che oggi è termine che può usare anche un'educanda).
Inoltre quella in esame non è certo, notoriamente, parola d'origine dotta, mentre l'interesse per la "bisessualità" della lepre è dotto e per lo più limitato al cristianesimo dei primi secoli, nel quale essa veniva interpretata simbolicamente per spiegare la proibizione biblica di mangiare carne di lepre.
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D'altro canto la spiegazione del Battaglia non spiega nulla (anzi ha l'aria di essere una spiegazione tratta dalla parola che si vuole spiegare).
Infatti non riesco a capire perché il caprone, essendo lussurioso, dovrebbe essere automaticamente sodomita. Può darsi che in passato l'eccesso di lussuria venisse automaticamente collegato alla pratica della sodomia, ma ciò va dimostrato, e non semplicemente ipotizzato.
Al contrario: nella mentalità maschilista, e nel linguaggio popolare che ne è la fedele espressione, essere un "montone", così come l'essere uno "stallone", è per un uomo un complimento, non certo un insulto.
Elementi socioculturali di questo tipo andrebbero tenuti in considerazione, quando si valuta la plausibilità di una spiegazione etimologica.
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A mio parere è quindi riuscito a far centro chi ha fatto notare l'esistenza in Calabria di un verbo "arricchià", che viene derivato da un *ad-hircare, "andare verso, desiderare l'irco", cioè il caprone.
Questo verbo si applica alla capra in calore che brama il caprone.
E se la capra che "arricchia" desidera con bramosia il maschio, di conseguenza un uomo "arricchione"... ci siamo capiti.
Il suffisso -one è ben noto ed è presente in termini derogativi come "mangione", "beone", "pappone", nei quali il rapporto fra "mangiare" e "mangione", "pappare" e "pappone" è identico a quello che c'è fra "arricchiare" e "arricchione".
Dunque l'arricchione non è un "uomo sozzo come un caprone", bensì un "uomo che brama farsi montare da un maschio come una capra in calore lo desidera da un montone".
Una volta tanto la spiegazione etimologica è perfettamente calzante.
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Cade quindi del tutto il valore di ipotesi come quella di Edoardo Ballone (Uguali e diversi, Mazzotta, Milano 1978), che faceva derivare il termine in questione dal soprannome di orejones, dato nel Cinquecento dagli spagnoli ai dignitari Incas dalle orecchie artificialmente allungate, accusati dai cristiani di vizi contro natura.
Da quanto detto fin qui emerge che il collegamento fra "ricchione" e l'"orecchia" è quello di paraetimologia, cioè quello di una spiegazione data usando un'altra parola che ha un suono simile (aricchia / arricchia) anche quando non c'entra nulla col significato originario del termine che si pretende di spiegare (ad esempio è una paraetimologia "uomosessuale", che spiega il greco òmoios, "affine" con "uomo").
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Corretto o no che fosse tale collegamento in origine, resta il fatto che oggi toccarsi il lobo dell'orecchio è in Italia per antonomasia il gesto che allude all'omosessualità (un gesto che da solo basta: "Lo sai? Tizio è..." - e ci si tocca il lobo, senza neppure nominare la parola).
In altre parole, oggi "ricchione" e "orecchia" sono strettamente collegati, a dispetto delle loro origini.
Così è nel napoletano orecchio impolverato, eufemismo per "omosessuale", che si ricollega all'espressione: chillo tene a povve 'n copp'e rrecchie, "quello ha la polvere sulle orecchie" (basta spolverarsi un orecchio con la mano per capire l'origine di questo modo di dire...).
Una parentela con il gesto appena discusso la denuncia anche il pugliese "quello suona la campana" per "quello è omosessuale" (dove la "campana" è il lobo dell'orecchio e "suona" sta per "fa suonare").
Come si vede, il gesto fin qui discusso ha forza propulsiva sufficiente a dar vita a nuove creazioni linguistiche.
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Ciò detto, è doveroso aggiungere che il gesto potrebbe avere un'origine ed una storia indipendente ed autonoma dalla parola, derivando magari, come propone Morris citato da Cortellazzo, da un'allusione ad una presunta preferenza per il vestiario femminile - nello specifico gli orecchini - da parte degli omosessuali.
Il gesto di carezzarsi le orecchie per alludere all'omosessualità è infatti attestato ben tre secoli prima della parola recchione.
In un'elegia latina pubblicata nel 1489 Pacifico Massimo d'Ascoli si lamenta infatti dei suoi concittadini che lo credono un sodomita e si fanno beffe di lui. Nel prendersela coi maligni egli così recrimina:
digito notatis [me], et aures vellitis, et male me creditis esse marem.
(Massimo, p. 162).
Vale a dire:
"[quando io passo] mi segnate a dito, vi sfiorate le orecchie e mi credete un maschio incompleto".
Al contrario la prima attestazione della parola ricchione / recchione che posso presentare risale appena al 1897, ed è esplicitamente la citazione di un termine gergale della malavita napoletana:
Accanto ai martiri della lussuria troviamo i pederasti di professione, distinti della mala-vita coi nomignoli di femminelle, ricchioni o vasetti.
(Abele De Blasio, Usi e costumi dei camorristi, Pierro, Napoli 1897, p. 153)
Cortellazzo specifica addirittura che il gesto che stiamo discutendo sarebbe diffuso pure in Grecia ed ex-Iugoslavia con lo stesso significato: ebbene, è assai difficile che da una parola italiana (o di un dialetto italiano) si possa arrivare ad un gesto usato in Iugoslavia e Grecia, dove i termini per denominare le orecchie son così diversi dai nostri.
L'estensione geografica e temporale del gesto di toccarsi il lobo è quindi tale da far sospettare che gli strumenti della linguistica potrebbero essere da soli insufficienti a risolvere l'enigma (delle origini del gesto). Per risolverlo potrebbero rivelarsi più adatti gli strumenti dell'etnologia e dell'etnolinguistica.
Ma qui usciamo dal campo del presente saggio: fermiamoci perciò qui.
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Eccone alcuni esempi d'uso:
I ragazzi (...) hanno scritto semplicemente: non mi piacciono "i froci", oppure "i recchioni", oppure "inversi".
(Renata Tripodi, La scuola dei fumetti, Tattilo, Roma 1974, p. 249).
Ma un venditore di palloncini, che seguiva la scena, li ha difesi: "Che cosa c'è di male ad essere ricchioni?".
("Homo" n. 30, mag. 1975, p. 70).
Nell'ora del trionfo gridano al vincitore "È un ricchione, bravo Ciriaco, hai fatto bene a distruggerlo!". ("Panorama", 28 giugno 1982, p. 64).
Vulvia pretendeva di piacere a tutti, solo sui recchioni velati non faceva presa, e questo la mandava in bestia.
(Aldo Busi, La delfina bizantina, Mondadori, Milano 1986, p. 260).
Tutto ruolizzato: il "recchione" a piedi, il "maschio" in macchina. Una lenta passeggiata allusiva, una macchina in seconda, un lampeggiare di fari, un motore spento, i fari spenti.
("Babilonia" n. 45, aprile 1987, p. 47).
URNINGO (e URANISTA, URANITA, URANIANO):
Prestito dal tedesco Urning, coniato nel 1864 dal militante omosessuale Karl Heinrich Ulrichs che lo prese dal nome di Afrodite Urania, cioè nata dal dio Urano, indicata nel Simposio di Platone come la dea che protegge gli amori omosessuali.
In italiano ha dato vita anche alle varianti uranita e uranista (quest'ultima più usata di urningo), mentre l'orribile corrispettivo femminile, urningina, non ha mai attecchito nella nostra lingua.
Ho già detto parlando di omosessuale le ragioni per cui urningo dovette a un certo punto cedere il passo a quello che, all'epoca, era solo un suo sinonimo meno fortunato.
Indubbiamente l'insuccesso di urningo e termini connessi fu dovuto in buona parte alla sconfitta della tesi di Ulrichs, secondo cui gli omosessuali costituiscono un vero e proprio sesso a sé, con caratteristiche distinte da quelle delle persone "normali" (una tesi molto progressista per quell'epoca, come ho cercato di mostrare altrove).
Tuttavia in parte la sconfitta della proposta di Ulrichs fu dovuta anche alla sua generosa ansia catalogatrice che, per paura che qualche tipo di omosessuale fosse dimenticato (e quindi privato del "diritto di cittadinanza" che egli chiedeva) lo portò ad una macchinosissima costruzione che affastellava l'urningo e l'urningina, contrapposti al dioningo e alla dioningina, nonché all'uraniastro e all'urningo-dioningo.
A tale cacofonico labirinto venne contrapposta la più comoda e simmetrica costruzione di omo- / etero- / bi- /sessuale, linguisticamente molto più agile, e quindi alla lunga preferita.
Su questo concetto e terminologia, si vedano oltre ai saggi già citati, gli importanti contributi di:
Hubert Kennedy, The "third sex" theory of Karl Heinrich Ulrichs, "Journal of homosexuality", VI 1980-81 (fall/winter), pp. 103-111;
Hubert Kennedy, Ulrichs: the life and works of Karl Heinrich Ulrichs, pioneer of the modern gay movement, Alyson, Boston 1988. (Ora anche in versione online, accresciuta).
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Ecco due esempi d'uso del termine:
Non tutti gli uranisti sono rigorosamente omosessuali: alcuni tra essi contraggono regolare matrimonio.
(Eugenio Tanzi, Trattato delle malattie mentali, Società editrice libraria, Milano 1905, p. 623).
A Parigi non vi sono locali destinati esclusivamente agli urningi, o almeno vi sono sostituiti da certi stabilimenti da bagni quasi esclusivamente per omosessuali di venti e più anni.
(Iwan Bloch, La vita sessuale dei nostri tempi, Bocca, Torino 1910, p. 409).
CULO - CULATTONE:
Portato alla ribalta della cronaca grazie alle esternazioni di Tremaglia (*) del 12 ottobre 2004 ("Purtroppo Buttiglione ha perso. Povera Europa: i 'culattoni' sono in maggioranza". Ha commentato così il ministro per gli Italiani nel mondo Mirko Tremaglia il voto con cui la commissione dell'europarlamento ha dato ieri parere negativo alla nomina di Rocco Buttoglione a commissario europeo).
Da "Etimologaya", inedito di Massimo Consoli, in copia ad es. allo http://italy.indymedia.org/news/2004...77_comment.php
La parola "culo" e' d'origine indoeuropea ed e' entrata nella nostra lingua attraverso il latino "culum" che e' attestato nel suo
significato di "deretano" fin dal 1300, o come "fondo d'un recipiente o d'un oggetto" fin dal 1571 (1). E' un termine che ha dato origine a numerose espressioni. Nel Nord Italia "culo", ma anche l'accrescitivo "culattone", indica il gay, con l'uso di una forte sineddoche (che nomina una parte, in questo caso il culo, appunto, per il tutto, cioe' l'uomo omosessuale). Oppure possiamo
definirlo un traslato, una metonimia: una figura retorica che consiste nell'usare, invece del termine che gli sarebbe piu' proprio, un altro che, comunque, abbia con il primo un riferimento logico. Percio', invece di parlare di un uomo che usa l'ano nei suoi rapporti sessuali, si parla direttamente del suo organo. Appunto, il culo.
“Leccare il culo”: vuol dire adulare qualcuno, ad imitazione di come fanno alcuni animali che, appunto, leccano quella parte nel maschio dominante nel gruppo o nel branco, per manifestare la loro sottomissione. "Essere culo e camicia": si usa soprattutto nel Norditalia, con l'eccezione del Veneto, e della Toscana, dove si preferisce il piu' morbido "essere come pane e cacio" (2).
"Capi' cor culo": a Roma indica una totale mancanza di comprensione (3) e corrisponde all'altro modo di dire: "in culo si', in testa no". "Vent'anni e 'r culo tonno, dureno poco" (4): sempre a Roma, vuol dire che la giovinezza e la perfetta forma fisica sono destinate a svanire con il tempo. "Paraculo": e' espressione tipicamente romana e serve a indicare una persona
astuta, un "dritto", uno che riesce a raggiungere il suo scopo. Forse l'origine e' da spiegare nel modo seguente: uno che si "para" il culo, cioe', se lo copre, se lo difende, per evitare di essere "inculato", dimostra di essere in gamba. "Prenderlo in culo": e' sinonimo di "prendere un fregatura". "Prendere per il culo" (5): prendere in giro, offendere. "Vattela a prenne 'n culo": invito piuttosto forte ad essere lasciati in pace rivolto a chi ci infastidisce. "Rodimento di culo": situazione di forte nervosismo, di luna storta. "Essere inculato", e' figurativo per "essere derubato", "prendere una fregatura", "subire qualcosa di sgradevole" (tipo, un'interrogazione in classe andata a male: "Il professore di Storia m'ha inculato su Garibaldi!"). "Una faccia come il culo", "avere il culo in faccia": e' usato un po' in tutta Italia per indicare qualcuno che ha la faccia tosta, e' impertinente, sfrontato. "Alzarsi con il culo storto": svegliarsi male al mattino. "Avere il culo chiacchierato": e' sinonimo di omosessualita'. "Avere culo": avere una fortuna esagerata. Questa e' l'espressione di certo piu' curiosa ed ha senz'altro a che vedere con l'abitudine di toccare il
culo ai propri amici per augurarsi la buona sorte. Corrisponde al carezzare la schiena del gobbo. Probabilmente l'origine e' da ricercarsi nel fatto che i bei giovani dal culo appetitoso venivano molto richiesti dai romani di una volta che, per poterli penetrare sessualmente, li ricoprivano di regali. Cosi', avere un bel culo, per un ragazzo, era indizio di una vita piu' facile, piu' fortunata dei propri coetanei. Che i giovani fossero piuttosto ricercati da adulti non necessariamente omosessuali (un po' com'era avvenuto nell'Antica Grecia), e' dimostrato anche dal proverbio che io stesso sentivo ripetere dai vecchi di Testaccio (sposati e con figli), un popolare quartiere romano, quand'ero ragazzino: "carne de maschietto, carne de capretto"! Anche su quest'altra parte del corpo umano, la genialita' di Giuseppe Gioacchino Belli si e' scatenata, dando vita al sonetto Pijjate e CCapate, cioe', Prendete e Scegliete.
Pe nnun di' cculo, ppo'i di chiappe, ano,
Preterito, furello, chitarrino,
Patume, conveggnenze, siggnorino (6),
Mela, soffietto, e Rrocca-Canterano (7).
Di' ttafanario, culeggio-romano(8),
Piazza-culonna (9), Culiseo (10), cusscino,
La porta der cortile, er perzichino (11),
Bbomme' (12), frullo, frullone (13) e dderetano.
Faccia de dietro, porton de trapasso,
Er cularcio (14), li cuarti (15), er fiocco, er tonno (16),
E ll'orgheno, e 'r trommone, e 'r contrabbasso.
E cc'e' cchi lluna-piena l'ha cchiamato,
Nacch'e ppacche (17), sedere, mappamonno,
Cocommero, sescesso (18), e vviscinato (19).
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1 In un testo di Benvenuto Cellini, riportato da Cortellazzo-Zolli, Vol. I, pag. 305.
2 Paolo Zolli, Le Parole Dialettali, Rizzoli, Milano 1986, pag. 96.
3 Valentino De Carlo, Er Gran Libro de la Parolaccia, Meravigli, Vimercate 1992, pag. 52.
4 Anonimo, I Proverbi Romanesschi, Grandmelo', Roma 1996, pag. 30.
5 Pino Carciotto - Giorgio Roberti, L'Anima de li Mottacci nostri, Piazza Ed., Torino 1982, pag. 50.
6 ) Nome prediletto dalle monache.
7 ) Paese dello Stato romano: equivoco di monticello, da ca'ntero.
8 ) Collegio romano.
9 ) Piazza Colonna.
10 ) Colosseo, detto veramente da' plebei di Roma er Culiseo.
11 ) Piccola pe'rsica (cioe' pesca, nda)
12 ) Abbombato.
13 ) E' noto strumento da abburattare che si vede nell'impresa della Crusca col motto "Il piu' bel fior ne coglie".
14 ) Specie di taglio di macelleria di bestia grossa presso l'ano. Termine dei macellai che indica un taglio di carne dei quarti posteriori... si
chiama pure culaccio.
15 ) Propriamente delle carni macellate.
16 ) Il tondo.
17 ) Pacche... in napoletano vuol dire natiche, e a Roma in traslato si dice comunemente delle meta' delle frutta, dei carciofi spaccati in due.
18 ) Secesso (cioe', l'evacuazione o l'interno del corpo umano, nda).
19 ) Allorche' un ano e' enorme, si dice: "Pare un vicinato".
* Ma si può scrivere “culattoni”? E si può dire? All'indomani dell'uscita del ministro Tremaglia («Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza»), i media italiani fanno le acrobazie per riportare la notizia senza pronunciare la parola incriminata. Dei quotidiani nazionali, solo l'Unità e Libero pubblicano la frase di Tremaglia in prima pagina. Su altri giornali l'espressione non compare proprio, neanche all'interno. In tivù l'hanno detto al Tg5, mentre in Rai hanno glissato. E dire che il sostantivo figura nel Devoto-Oli. A pag. 565, per essere precisi. Culattone (cu-lat-tó-ne) s.m. region., pop. Omosessuale passivo. [Der. di culo] Ma se non “culattoni”, come bisogna chiamarli?
«Culattone è un'espressione agricolo-periferica da film di Lino Banfi - dice al Riformista Mauro Coruzzi, in arte Platinette, che un paio d'anni fa ha scritto un libro intitolato Finocchie, per sua stessa ammissione uno dei termini più politically incorrect che esista - Ormai culattone non lo usa più nessuno. E' una parola tipica di chi non ha tante alternative. Di chi, come Tremaglia, ha un dizionario limitato. Quella del ministro è stata una dichiarazione thrilling, che denuncia l'ignoranza e l'orgoglio di essere ignoranti. Il suo non è italiano, come ha teso a sottolineare, ma un linguaggio scadente da vecchio politicante. Casomai è un italiano allo spiedo, da pollivendolo di Caltagirone». E allora come bisogna chiamarvi? «“Omosessuale” è più un aggettivo che un sostantivo. Fa molto dopoguerra: Pasolini, Visconti, quella gente lì. E' un po' aulico, come “pederasta”. “Gay” fa troppo voglia di essere moderni, anche se è il termine che si avvicina di più al politicamente corretto. Poi c'è “ricchione”, che è da bagnino di Ladispoli, “bucaiolo”, che è toscano e viene da buco, c'è “culano”, orrendo termine emiliano, e c'è “la cula”, espressione milanese da iniziati che vuol dire “molto donna”. “Finocchio” non è che un vegetale, mentre “busone” (che non ha niente a che vedere con Aldo Busi) è molto usato al nord per indicare “il grosso buco”. “Checca” (“fica” in romano, ndr) è desueto. Sa di pasticceria di fine anni Sessanta. A differenza del culattone, la checca è molto effeminata, si sente donna dentro ma anche molto donna fuori. E' quella che si mette il mascara, l'ombretto ed è sempre un po' fonata. E' un atteggio, insomma, un topos». E l'inglese “faggot”, tanto usato nella comunità afroamericana? «Da noi è quasi intraducibile. “La frocia gotica”, si diceva negli anni Settanta. Per indicare scelte di abbigliamento di persone che oggi definiremmo, tra tante virgolette, “con una marcia in più”. Personalmente preferisco “frocio”, anzi “frocia”. Perché frocio è un'accusa: è volgare e ingiurioso. Non mi chiamo frocio ma mi sento frocia».
Come Platinette, il giornalista Daniele Scalise, ammette che il politically correct lo frequenta poco. «La parola che preferisco è “froci”, come la mia rubrica (sul Foglio, ndr). Mi piace perché è provocatorio, perché è stato sempre usato come insulto. Ripetendolo, io ne disattivo il meccanismo aggressivo, rendendolo insignificante». Quindi frocio, non frocia? «“Frocia” e “finocchia” sono termini splendidamente Arbasino, ma démodé. Parlare al femminile era molto in voga negli anni Cinquanta e Sessanta, ma oggi il genere viene conservato. Francamente, però, a me tutto questo scandalizzarsi per il “culattoni” di Tremaglia pare ridicolo. Non mi sento offeso che un uomo della vecchia destra ironizzi su certe cose. E' umiliante più per lui che per me, perché così facendo si autodefinisce. A me offende molto di più il fatto che in questo paese non si riesca ancora ad affrontare le problematiche gay. Meno che mai in cinque anni di governo di centrosinistra, ma neanche adesso. Non se ne riesce a parlare se non in termini sommari, litigiosi o volgari. Esiste una popolazione omosessuale in Italia? I froci hanno diritti? E se sì, quali?» [allo http://www.legnostorto.com/node.php?id=20918, 14 ottobre 2004, da Il Riformista]
''Culattone: da culatta, nel senso volgare di 'deretano'. Volgarmente, omosessuale passivo'', recita il vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli; nel Devoto-Oli a pag. 565: Culattone (cu-lat-tó-ne) s.m. region., pop. Omosessuale passivo. [Der. di culo]
Sì, ci sono.
Nel pomeriggio, o domani, se riesco, posto anche quelli.
Lanie, ma ti sei letta tutto il pappardellone?!? :shocked:
Se sì, ti faccio utente ad honorem! :Flower: