Un capitalismo più umano è possibile
Il capitalismo umano di Brunello Cucinelli
Il re del cachemire ha realizzato un monumento dedicato al rispetto dell’uomo. Nella sua azienda non si scrivono mail ai dipendenti dopo le 17,30 e non ci si offende, pena il licenziamento
di Luigi Vicinanza*
Non c’è estetica senza etica. Non c’è lavoro senza dignità umana. Non c’è profitto senza solidarietà sociale. Sono i principi ispiratori di un “capitalismo umanistico” applicabile e applicato. Teoria e prassi infatti hanno trovato il loro punto di congiunzione in uno straordinario successo imprenditoriale made in Italy impersonato da Brunello Cucinelli, soprannominato il “filosofo del cashmere” proprio per questa sua particolare predisposizione a mescolare fabbrica e cultura, utopia e risultati concreti. Tutto si svolge tra mercati globali e un piccolo borgo dell’Umbria, Solomeo, a pochi minuti d’auto da Perugia.
Se l’80 per cento della produzione di capi di lusso finisce all’estero, il cuore e la mente dell’azienda risiedono in un angolo d’Italia che sa di vino, profumi di campagna, con ritmi d’altri tempi. Cucinelli, tra l’altro proprietario della D’Avenza di Carrara, ha scelto in anni ormai lontani questo paesino in via d’abbandono come suo quartier generale, essendo nato poco lontano da qui. E pezzo dopo pezzo ha provveduto a restaurarlo, a liberare la campagna circostante da vecchi capannoni industriali per ripiantare alberi e vigne, a recuperare abitazioni. «Dobbiamo custodire, non edificare» gli piace dire.
Per il suo sessantacinquesimo compleanno il signore della moda ha aggiunto nuovi tasselli a questo ricco puzzle; spiccano un monumento alla dignità umana e un teatro che nelle intenzioni del committente è destinato a durare centinaia di anni. “Tributo alla dignità dell’uomo” è inciso in cima a un’esedra di travertino con cinque archi; il monumento è su un poggio, vi si arriva percorrendo una comoda scalinata nella quiete del luogo. Alla base vi sono incisi i nomi dei cinque continenti. Perché l’azienda di Brunello Cucinelli, quotata dal 2012 alla Borsa di Milano, spazia sui mercati globali.
Nel primo semestre di quest’anno il fatturato è arrivato a 270 milioni in crescita del 12 per cento; l’utile netto è di 23 milioni con un incremento del 20 per cento. “Lavorare in un borgo non è sfavorevole rispetto alla grande città; grazie al web siamo sempre connessi come se fossimo in una metropoli mondiale” spiega Cucinelli. Tuttavia in azienda vige una regola salutare: dopo le 17,30 cioè dopo la fine del normale orario di lavoro non si mandano più mail ai dipendenti.
Quel che c’è da comunicare – questo il senso – va fatto a tempo debito. «I capi debbono essere consapevoli che non può esistere eguaglianza nel beneficio se non vi è eguaglianza nella responsabilità dell’errore» sostiene colui che ha colorato il cashmere. Per poi aggiungere: «Da parte dei capi non basta organizzare il lavoro e distribuire i compiti. Essi debbono porre attenzione allo sviluppo delle persone che lavorano con loro, debbono stimolare la passione, elemento essenziale per la creatività che inizia quando c’è piacere di quanto stiamo facendo». Concetti degni di un manuale del buon management. Le idee di questo re della moda sono state infatti condensate in un volume fresco di stampa edito da Feltrinelli, “Il sogno di Solomeo. La mia vita e l’idea del capitalismo umanistico”.
La fabbrica di Solomeo si presenta come un enorme open space in cui computer e forbici, lingue straniere e parlata locale si mescolano per creare capi di abbigliamento di gran lusso. Velocità e lentezza, eleganza e semplicità, profitto e rispetto, valori apparentemente contrastanti fanno di questa azienda un caso di scuola. Ha voluto con sé 500 giornalisti, metà italiani metà dal resto del mondo, per mostrare la bellezza della “sua” Solomeo: «Mi considero il custode del borgo, non il proprietario» si schermisce. Un modo di fare sostenuto anche dalla moglie e dai figli con una fondazione che porta il nome di famiglia, con il compito di continuare i progetti futuri. Un’avventura imprenditoriale iniziata 40 anni fa, dopo un’infanzia in campagna in un’abitazione senza la corrente elettrica né tantomeno la tv. «Quando dissi al mio babbo che volevo fare pullover di cashmere lui mi guardò; non conosceva il significato delle parole cashmere e pullover. Mi disse solo: comportati in modo giusto. Come il nonno, anche lui contadino, che implorava il Creato affinché ci mandasse il giusto vento, il giusto freddo, il giusto sole, la giusta pioggia».
Oggi lo senti citare indifferentemente Sant’Agostino e San Benedetto, Platone e Socrate, gli imperatori romani Augusto e Marc’Aurelio, ma anche Gorbaciov e Jeff Bezos. Nel suo sincretismo culturale affiorano il cattolicesimo sociale e la difesa della natura, una concezione rinascimentale del bello come base per elevare le condizioni di vita della comunità e un rigoroso impegno nella tutela della dignità di chiunque lavori in qualsiasi posizione all’interno dell’azienda: «C’è una regola rigida in fabbrica. Chi offende qualcun altro, viene licenziato. La dignità prima di tutto». Principi che fanno di Cucinelli un capitalista sui generis. In una piazzetta di Solomeo, vicino alla chiesa di recente restaurata, si nota una lapide con una citazione del filosofo Immanuel Kant: «Agisci in modo da considerare l’umanità sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro sempre come nobile fine mai come semplice mezzo».
Un migliaio di dipendenti, una grande fabbrica, un indotto altrettanto vasto, lavori nel borgo in continua evoluzione. E’ possibile dunque una forma di capitalismo in grado di coniugare alti utili di bilancio, qualità dei prodotti e innanzitutto qualità della vita per chi in azienda ci lavora e produce? La lezione di Solomeo è una sfida aperta nel mondo globalizzato: è destinata a restare un’eccezione italiana? «Stimo le idee perché le ritengo comunque più importanti delle cose che producono» è il lascito di messer Brunello ai capitalisti del futuro.
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