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…era impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare , potesse avere il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra gente ignorante, asservita, costretta a fare i lavori pesanti. Non era nato in Inghilterra tra i Sassoni o i Britanni. Non nasce oggi tra il proletariato. E dunque come avrebbe potuto nascere tra donne che, a quanto dice il professor Trevelyan, cominciavano a lavorare quasi prima di lasciare la tutela della balia, le quali a questo venivano costrette dai loro genitori e poi dal peso della legge e della tradizione? Eppure una qualche specie di genio deve essere esistito tra le donne, così come deve essere esistito nel proletariato. Di tanto in tanto una Emily Brontë o un Robert Burns esce fuori, splendente, a testimoniare la sua esistenza. Ma certamente quel talento non riuscì mai a raggiungere l’espressione letteraria. Eppure, ogni qualvolta leggiamo di una strega che è stata affogata, di una donna posseduta dal demonio, di una levatrice che vende piante medicinali, o persino dell’esistenza della madre di qualche personaggio straordinario, allora io credo che siamo sulle tracce di un romanziere mancato, di un poeta condannato al silenzio, di una Jane Austen muta e senza gloria, di una Emily Brontë che doveva essersi bruciata il cervello nella brughiera o si aggirava gemendo per le strade, resa folle dalla tortura che il suo stesso talento le infliggeva. E a dire il vero mi arrischierei a sostenere che Anonimo, che tante poesie ha scritto senza mai firmarle, spesso era una donna. Ed era stata una donna – credo fosse Edward Fitzgerald a dirlo -, a creare ballate e canti popolari, mentre li canticchiava ai suoi bambini o se ne serviva per ingannare la noia della filatura o delle lunghe sere d’inverno.
Una stanza tutta per sè, Virginia Woolf.
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"...Ven, muerte, tan escondida, que no te sienta venir, porque el placer del morir, no me torne a dar la vida..." ("Vieni o morte, così nascosta che non ti senta arrivare, perché il piacere del morire non mi restituisca la vita"...)
("Don Chisciotte della Mancia" di Cervantes)
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Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psicoanalisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Conclusione de “La coscienza di Zeno” (1923), Italo Svevo
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Vengo in cerca di qualche migliaio di scomparsi. Gli abitanti della
mia valle, e qui trovo il mega-esodo, la diserzione in massa. Un evento
(inimmaginabile) anche qui ha sorpreso la gente nel sonno:
la sospensione notturna della vita collettiva
semplicemente si è prolungata,
indefinitamente prolungata. Perché, se io seguito a figurarmeli fuggiti,
in realtà loro non sono fuggiti, come la gente di Pompei. Né sono stati
ridotti in cenere, come quelli di Hiroshima. Se ne sono andati in un'altra
maniera. Rapiti. Estratti, fatti uscire dalle loro case e sedi diverse. Dai
loro corpi, forse.
No. Dai loro corpi, parrebbe di no. Di corpi, sotto la pioggerella di
giugno, non c'è traccia a Crisopoli.
Dissipatio Humani Generis (Guido Morselli)
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L'ERUZIONE DEL VESUVIO DURANTE IL PRINCIPATO DI TITO (79 d.C.)
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari, VI, 16
Caro Tacito,
mi chiedi di narrarti la morte di mio zio affinché tu possa tramandarla ai posteri con
maggiore esattezza. E te ne sono grato: ritengo, infatti, che, se da te narrata, la sua morte sarà
destinata a gloria imperitura. Sebbene, infatti, egli sia morto in mezzo alla distruzione di un
paese bellissimo, assieme a intere città e popolazioni, in una situazione degna di memoria,
quasi per sopravvivere per sempre nel ricordo, e sebbene egli stesso abbia composto molte e
durevoli opere, tuttavia, molto aggiungerà, al perdurare della sua fama, l'immortalità dei tuoi
scritti. Io considero, invero, fortunati coloro ai quali, per dono degli dei, è dato di fare cose
degne d'esser narrate o di scriverne degne d'essere lette. Fortunati oltremodo coloro cui è dato
questo e quello. Fra costoro, per i suoi ed i tuoi libri, sarà mio zio. È per questo che sono ben
lieto di fare ciò che mi chiedi, ed anzi te lo chiedo io stesso come favore.
Egli era a Miseno, dove personalmente dirigeva la flotta. Il nono giorno prima delle calende
di settembre (24 agosto), verso l'ora settima, mia madre lo avverte di una nube inconsueta per
forma e grandezza. Egli, dopo aver fatto un bagno di sole ed uno d'acqua fredda, se ne stava
disteso, fatta una piccola colazione, a studiare: chiede le calzature e sale in un sito dove poteva
osservare meglio quel fenomeno straordinario. Una nube si formava e non era chiaro
all'osservatore da quale monte s'innalzasse (si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto, fra
gli alberi, era vicino a quello del pino. Essa, infatti, levatasi verticalmente come un altissimo
tronco, s'allargava poi a guisa di rami, probabilmente perché, sollevata grazie alla spinta di una
corrente ascendente e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella, o cedendo al suo
stesso peso, si allargava lentamente: a tratti bianca, a tratti nera e sporca a causa della terra e
della cenere che trasportava.
Da persona eruditissima quale era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato
meglio e più da vicino. Ordina, allora, che gli sia apprestata una liburna: mi autorizza, se voglio,
ad andare con lui. Io gli rispondo che preferisco restare a studiare. Era sul punto d'uscire di
casa, quando riceve un messaggio di Rettina, moglie di Casco, atterrita dal pericolo che la
minacciava (la sua villa era, infatti, ai piedi del monte, e nessuna possibile via di scampo v'era
tranne che con le navi): supplicava d'essere sottratta a tale pericolo. Egli, allora, mutò consiglio
e, quello che intendeva compiere per amor di scienza, fece per spirito di dovere. Mette in mare
le quadriremi e s'imbarca egli stesso, per portare aiuto non alla sola Rettina, ma a molti perché,
per l'amenità del lido, la zona era molto abitata. S'affretta proprio là donde gli altri fuggono, va
diritto, il timone volto verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere
tutti i fenomeni del flagello che si compiva davanti ai suoi occhi. Già la cenere pioveva sulle
navi, sempre più calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già pomici e
ciottoli anneriti e bruciati dal fuoco e spezzati; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia
ostruita dai massi proiettati dal monte. Dopo una breve esitazione, indeciso se tornare indietro
come gli suggeriva il pilota, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano!
Questi si trovava a Stabia, dall'altro lato del golfo. Quivi Pomponiano, sebbene il pericolo non
fosse imminente, ma considerando che tale potesse presto divenire, aveva trasferito su navi le
sue cose, pronto a fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma il vento era allora del tutto
favorevole a mio zio, che arrivava in direzione opposta. Egli abbraccia l'amico impaurito, lo
incoraggia, lo conforta e, per calmarne le paure con la propria sicurezza, chiede di essere
portato al bagno: si lava, cena allegramente o, assai più probabilmente, fingendo allegria.
Frattanto in molte parti del monte Vesuvio risplendevano larghe fiamme e vasti incendi, il cui
chiarore e la cui luce erano resi più vividi dalla oscurità della notte. Per calmare le paure, mio
zio diceva che si trattava di case che bruciavano abbandonate dai contadini in fuga. Poi se ne
andò a dormire e dormì di un autentico sonno, poiché la sua respirazione, resa più pesante e
rumorosa dalla corporatura massiccia, era udita da quanti passavano accanto alla soglia.
Intanto il livello del cortile s'era cosi tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che, se
avesse più a lungo indugiato, non sarebbe più potuto uscire dalla stanza.
Svegliato, egli esce dalla sua camera e raggiunge Pomponiano e gli altri, che non avevano
chiuso occhio. Si consultano tra loro se devono restare in casa o uscire all'aperto. Continue e
prolungate scosse telluriche scuotevano infatti la casa e, quasi l’avessero strappata dalle
fondamenta, sembrava che essa sbandasse ora da una parte, ora dall’altra per poi riassestarsi.
D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia di lapilli, per quanto leggeri e porosi. Tuttavia,
confrontati i pericoli, egli sceglie di uscire all’aperto. Messi dei cuscini sul capo li legano bene
con lenzuoli. Fu questo il loro riparo contro quella pioggia.
Già ovunque faceva giorno, ma colà regnava una notte, più scura e fitta di ogni altra notte,
sebbene mitigata da molte fiamme e varie luci. Egli vuole uscire sul lido e guardare da vicino se
fosse possibile mettersi in mare; ma questo era, tuttavia, agitato e impraticabile. Quivi,
riposando su un lenzuolo disteso, domanda dell'acqua e beve avidamente. Intanto le fiamme e
l’odore sulfureo che le annunciava mettono in fuga alcuni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due
servi, si leva in piedi, ma subito ricade perché, suppongo, l’aria ispessita dalla cenere aveva
ostruita la respirazione e bloccata la trachea, che egli aveva per natura delicata e stretta e
frequentemente infiammata. Quando fu giorno (era il terzo dopo quello della sua morte), il suo
corpo fu ritrovato intatto ed illeso, con indosso i medesimi vestiti: l’aspetto più simile a un
uomo che dorme che a un morto. Io e mia madre eravamo intanto a Miseno ... ma ciò non
riguarda questa storia e tu da me non volevi conoscere altro che la sua morte. Dunque
concluderò. Aggiungerò solo che ho fedelmente esposto tutto ciò che ho visto o che ho saputo
subito dopo, quando i ricordi sono più veritieri. Tu cavane fuori il meglio. Addio
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari, VI, 20
Caro Tacito
mi dici che, incuriosito dalla lettera che mi hai chiesto di scriverti sulla morte di mio zio,
desideri conoscere non solo quali timori, ma anche quali pericoli io abbia affrontato, quando fui
lasciato a Miseno. Stavo infatti per dirtelo, ma poi mi sono interrotto. Benché l'animo
inorridisca al ricordo ... comincerò. Partito lo zio, trascorsi il restante tempo a studiare (ero
rimasto proprio per questo); poi il bagno, la cena ed un sonno breve ed inquieto. Molti giorni
prima si erano sentite scosse di terremoto, senza però che vi si facesse gran caso, perché in
Campania sono frequenti; ma in quella notte furono così forti che sembrò che ogni cosa non
solo si muovesse, ma addirittura si rovesciasse. Mia madre si precipitò nella mia stanza, mentre
mi stavo alzando per andare a svegliarla nel caso stesse dormendo. Ci sedemmo nel cortile che
separava la casa dal mare. Io non so se chiamarlo coraggio o imprudenza (non avevo ancora 18
anni): chiedo un volume di Tito Livio e così, per ozio, mi metto a leggere. Quand'ecco un amico
ed ospite dello zio, appena arrivato dalla Spagna, alla vista di me e mia madre seduti nel cortile,
ed io per giunta che leggevo, rimprovera lei per la propria indolenza e me per la spensieratezza.
Non per questo io sospesi la mia lettura. Era già la prima ora del giorno, eppure la luce era
ancora incerta e languida. Le abitazioni intorno erano squassate e benché fossimo in un luogo
aperto, ma angusto, grande era il timore di un crollo.
Allora, finalmente ci sembrò opportuno uscire dalla città. Quivi assistiamo a molti fenomeni
e molti pericoli. Infatti i veicoli che avevamo fatto predisporre perché ci seguissero, sebbene il
terreno fosse pianeggiante, andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre restavano al
loro posto. Pareva, inoltre, che il mare fosse riassorbito in sé stesso e quasi respinto dal
terremoto. Certamente la spiaggia si era allargata e molti pesci giacevano sulla sabbia. Dal lato
opposto, una nera ed orrenda nube, squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato, si
apriva in lunghe lingue di fuoco: esse erano simili a lampi, ma ancor più estese. Allora, quel
medesimo amico venuto dalla Spagna, con più forza ed insistenza disse: «Se tuo zio – disse - se
tuo zio è ancora vivo, vuole che voi siate messi in salvo; se è morto vorrebbe che voi gli
sopravviviate. Perché dunque indugiate a scappare?». Allora gli rispondemmo: «Non abbiamo
l'animo, incerti della sua salvezza, di provvedere alla nostra». Egli non esitò oltre, subito ci
lasciò e di gran carriera si sottrasse al pericolo.
Non passò molto tempo che quella nube si abbassò fino a terra e coprì il mare. Aveva avvolto
e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio di Miseno. Allora la madre cominciò a
pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi, che, in qualunque modo io fuggissi: io potevo perché ero
giovane, mentre lei, appesantita dall'età e dalle stanche membra, sarebbe morta felice di non
essere stata la causa della mia morte.
Ma io risposi di non volermi salvare senza di lei; poi, prendendola per mano, la costrinsi ad
affrettare il passo. Lei mi seguì a stento, lamentandosi perché rallentava il mio cammino.
Cadeva già della cenere, ma ancora non fitta. Mi volto e vedo sovrastarmi alle spalle una
densa caligine che, come un torrente, spargendosi per terra ci incalzava. «Deviamo – dissi -
finché ci si vede, per non essere travolti, una volta raggiunti dalla folla che ci segue». Ci eravamo
appena seduti che scese la notte. Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida
dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi
commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi erano coloro che, per timore della morte, la
invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella
notte dovesse essere l'ultima notte del mondo. Né mancavano quelli che con immaginari e
bugiardi spaventi accrescevano i veri pericoli.
Riapparve un debole chiarore, che non sembrava il giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che
si avvicinava. Ma il fuoco si arrestò più lontano e di nuovo furono le tenebre; di nuovo cenere
spessa in gran copia. Noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso, altrimenti ne saremmo stati,
se non coperti, schiacciati. Potrei vantarmi che in una così grande tragedia non mi sia lasciato
sfuggire un lamento, né una parola che non fosse virile, se non avessi trovato gran conforto alla
morte nel pensiero che in quel momento con me periva tutto il mondo. Finalmente quella
caligine si attenuò e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece finalmente giorno ed apparve
anche il sole, ma scolorito come suole essere quando è in eclisse. Agli sguardi ancor tremanti
tutto si mostrava cambiato e coperto da un monte di cenere, come se fosse nevicato.
Ritornati a Miseno e ristorate alla meglio le membra, trascorremmo una notte affannosa ed
incerta tra la speranza ed il timore. Ma il timore prevaleva. Continuavano, infatti, le scosse di
terremoto e molti, fuori di senno, con le loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e
del male altrui. Noi, però, benché salvi dai pericoli e in attesa di nuovi, neppure allora
pensammo di partire, finché non ci giungesse notizia dello zio. Questi particolari, non degni
certamente di storia, li leggerai senza servirtene per i tuoi scritti e imputerai a te stesso, che me
ne hai richiesto, se non saranno degni neppure di una lettera. Addio.
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....piegarsi lentamente su se stesso, poi lasciarsi cadere su un cumulo di cordami e nascondere il volto tra le mani. Fra i gemiti del vento ed il fragore delle onde si udivano, ad intervalli, dei sordi singhiozzi.
....- Guarda lassù: il Corsaro Nero piange!...
Emilio Salgari : "Il Corsaro Nero"
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Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al letto della malata, in compagnia d’un assistente, a tentare per l’ultima volta di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze l’ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell’operazione; essa era certissima o di morire sull’atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d’aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l’operazione è sicura, ma la vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po’ di coraggio! Ed è egualmente certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. È destinato così. Mi lasci morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più. Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco... che l’ho avuto in cuore fino all’ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt’a un tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c’era più: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più che le due infermiere e l’assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d’esclamazioni rattenute. La malata fissò sull’uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone, anch’essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un’espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva.
- Iosefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate il cuore a una buona notizia.
La donna la guardò attentamente.
- Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una grande gioia.
La malata dilatò gli occhi.
- Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete molto bene.
La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente ora la signora ora l’uscio, con gli occhi sfolgoranti.
- Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora... inaspettatamente. - Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona spaventata.
Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a un’apparizione sovrumana.
Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore.
La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio!
Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d’una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino.
Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t’ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.
Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo e l’assistente, che chiusero la porta. Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.
- Cosa c’è? - domandò. - Cos’ha mia madre? Cosa le fanno?
E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò tutto, vieni con me.
- No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui.
L’ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a spaventarsi e a tremare.
A un tratto un grido acutissimo, come il grido d’un ferito a morte, risonò in tutta la casa.
Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta!
Il medico comparve sull’uscio e disse: - Tua madre è salva.
Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: - Grazie dottore!
Ma il dottore lo rialzò d’un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.
Dagli Appennini alle Ande - Libro Cuore - De Amicis
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Piccolo e corto paragrafo estrapolato da un magnifico libro:
"Passiamo tutti tanto tempo senza dire cosa vogliamo perché sappiamo di non poterlo avere. E perché sembrano robe rozze, o ingrate, o sleali, o infantili, o stupide. O anche perché siamo talmente disperati da fingere che le cose siano come devono essere, e sembra una mossa falsa confessare a noi stessi che non lo sono. Su forza, sputa cosa vuoi..."
(Nick Hornby – da "Non Buttiamoci giù")
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Water does not resist. Water flows. When you plunge your hand into it, all you feel is a caress. Water is not a solid wall, it will not stop you. But water always goes where it wants to go, and nothing in the end can stand against it. Water is patient. Dripping water wears away a stone. Remember that, my child. Remember you are half water. If you can't go through an obstacle, go around it. Water does.
Margaret Atwood, The Penelopiad
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Lo scrittore francese Marcel Proust immagina che i libri gli parlino: “Ci hai tenuto nelle tue mani di fanciullo. I tuoi occhi ancora puri ci hanno contemplato stupefatti. Se non ci ami per noi stessi, amaci per tutto quello che ti ricordiamo di te, di quel che sei stato, e anche di quel che avresti potuto essere; poter essere non è un poco una maniera d’essere, nel momento in cui l’immaginiamo ?”
Questa frase di Proust è nel suo libro titolato: “Les Plaisirs et les Jours”, pubblicato nel 1894. E’ una raccolta di racconti.
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“Ognuno di noi ha una strada. Una strada che porta a casa, alle persone più care, a ciò cui siamo maggiormente legati. Di solito la strada è sempre quella, la s'impara da piccoli, e ognuno la segue per tutta la vita. Ma capita che quel cammino si spezzi. A volte ricomincia da un'altra parte. O, dopo aver disegnato un percorso tortuoso, ritorna al punto in cui si era spezzato. Oppure rimane come sospeso.
A volte, però, si perde nel buio”.
(Il suggeritore - Donato Carrisi)
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Citazione:
Originariamente Scritto da
efua
molto bella la frase finale ...
Dal Maestro e Margherita di Michail Bulgakov:
"...che senso ha morire in corsia, con l’accompagnamento dei gemiti e dei rantoli dei malati inguaribili? Non sarebbe meglio organizzare con quei ventisettemila rubli una bella festa e prendere del veleno, trasferirsi nell’altro mondo al suono della musica, circondato da belle ragazze ebbre e da amici scanzonati?"
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Citazione:
Originariamente Scritto da
Kanyu
molto bella la frase finale ...
Dal Maestro e Margherita di Michail Bulgakov:
"...che senso ha morire in corsia, con l’accompagnamento dei gemiti e dei rantoli dei malati inguaribili? Non sarebbe meglio organizzare con quei ventisettemila rubli una bella festa e prendere del veleno, trasferirsi nell’altro mondo al suono della musica, circondato da belle ragazze ebbre e da amici scanzonati?"
Eh già’…
Te l’ho detto che ci sei pure tu :)