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Risultati da 1 a 15 di 28

Discussione: A Roma dimo così...

  1. #1
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    A Roma dimo così...

    Roma, aristocratica e plebea

    La celebre invettiva romanesca, “Li mortacci tua” , di solito viene detta con cattiveria quando si guida l’auto ed è rivolta verso un altro conducente che non rispetta il Codice della strada o per motivi di viabilità.

    L’improperio, però, viene anche espresso con un sorriso per manifestare la propria sorpresa quando s’incontra un conoscente dopo tanto tempo: “Li mortacci tua !, come stai ?

    Nel “Liber pontificalis” si può leggere che nell'anno 545 quell’insulto venne usato contro papa Vigilio (pontificò dal 29 marzo 537 alla sua morte, nel 555) da persone a lui contrarie perché non aveva voluto accettare l’eresia monofisita.

    Il monofisismo (dal greco “monos” (= unico) + “physis” (= natura) è il termine usato dalla teologia cattolica per indicare la forma di cristologia elaborata nel V secolo dall’archimandrita greco Eutiche, secondo la quale la natura umana di Gesù era inclusa in quella divina, perciò in lui era presente solo la natura divina.

    Secondo il Liber Pontificalis, il 22 novembre dell’anno 545 mentre il pontefice stava celebrando la Messa in occasione della festa di Santa Cecilia nell’omonima basilica nel rione Trastevere, il legato imperiale Antimo, impose al pontefice di mettersi immediatamente in viaggio per Costantinopoli su ordine dell’imperatore bizantino Giustiniano. Il papa fu condotto sull’imbarcazione nel fiume Tevere, ormeggiata nel porto fluviale di Ripetta.

    Le tante persone presenti alla scena, non sapendo il motivo dell’urgente trasferimento papale, anziché reagire uniti per difenderlo si divisero per opinioni diverse, chi lo compiangeva e chi lo malediceva, perché in quel periodo Roma era assediata dai Goti di Totila e tutta la popolazione versava nella miseria. Molti pensarono che quella di Vigilio fosse una fuga dalla difficile situazione in città.

    Chi lo insultava gli gridava: “Male fecisti Romanis, male invenias ubi vadis!” (= Hai fatto del male ai cittadini di Roma, che tu possa trovare il male dove ora vai!). E aggiungeva: “Mortalitas tua tecum pro te” (Tutti i tuoi morti con te e per te!). Da questa frase deriva quella più concisa: “mortacci tua”.

    Papa Vigilio non rivide più Roma, Durante il viaggio di ritorno da Costantinopoli morì a Siracusa il 7 giugno dell’anno 555.

    A complemento dell’ingiuria c’è da aggiungere un’altra frase, ormai in disuso, in dialetto romanesco o romano: “Mortacci tua, e de tu' nonno in carriola. . ., con riferimento agli anziani ricoverati nelle corsie ospedaliere o nelle ali aggiunte durante le epidemie, quando non era possibile curare tutte le persone e non si poteva avere sempre un posto letto. Ma i malati non venivano collocati nelle carriole: erano sedie con ruote, sulle quali venivano adagiati i corpi di vivi o morti..


    elemosiniera nella chiesa di Santa Maria Portae Paradisi, in via Ripetta, Roma

    Gli anziani che non potevano essere assistiti dai loro familiari venivano portati negli “spedali”. Ricevevano cure palliative, un po’ di cibo, ma sostanzialmente erano parcheggiati in attesa di morire.


    Da aggiungere che a Roma e in altre zone del Lazio quando tuona durante i temporali i bambini, specie nel passato, chiedono “Mamma, cos’è questo rumore?”, e la madre risponde: “Nonno in cariola!” (a Roma si pronuncia con una sola “r”).
    Ultima modifica di doxa; 04-11-2023 alle 22:40

  2. #2
    Sovrana di Bellezza L'avatar di ReginaD'Autunno
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    Io lo adoro il romanesco! E ti ringrazio Doxa per questa tua spiegazione sempre molto interessante, come tutti i tuoi post!
    Corteggiata da l'aure e dagli amori, siede sul trono de la siepe ombrosa, bella regina dè fioriti odori, in colorita maestà la rosa CLAUDIO ACHILLINI

  3. #3
    se posso permettermi un codicillo....
    All'improperio veniva aggiunto (per fare buon peso) un riferimento a frequentazioni di postriboli:

    “Mortacci tua, e de tu' nonno in carriola pe la discesa de via capolecase"

    Axe, esperto di "romanicità", potrà confermare....ed arricchire

  4. #4
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    Ciao Carlino,

    hai scritto
    All'improperio veniva aggiunto (per fare buon peso) un riferimento a frequentazioni di postriboli:
    via Capo le case è una strada tra piazza di Spagna e via del Tritone, nota nel passato perché c’era un edificio adibito a “casa di tolleranza”, fino al mese di febbraio del 1958. Fu abolita con le altre dalla nota “legge Merlin”. Non fare il malizioso, ero un infante, non mi serviva.


    L’odonimo “Capo le case” fu assegnato alla via nel 1618, perché collegata alla chiesa di “San Giuseppe a Capo le Case”, dal latino “ad capita domorum” (= a capo, all’inizio delle case), oltre il quale c’era la “campagna”. Infatti dalla tarda antichità, causa le invasioni barbariche, il colle del Pincio rimase quasi disabitato fino al XVIII secolo. In quegli anni del '700 la collina pinciana era occupata dalla grande vigna con casale degli Agostiniani di Santa Maria del Popolo (anche qui c’è un dipinto di Caravaggio), dai giardini e dalla vigna di Villa Medici (è l’edificio che domina dall’alto la scalinata di piazza di Spagna), e dai giardini del convento dei Frati Minimi.

    Il toponimo “Pincio” deriva dalla gens Pinciana: in epoca romana aveva una domus sulla grande collina, occupata anche da altre grandi domus, per esempio quella di Lucullo (Horti Luculliani) e Sallustio (Horti Sallustiani), in epoca imperiale unificati agli Horti Luculliani.

    Ma adesso lasciamo Roma e trasferiamoci a Napoli e dintorni.

    Sto pensando che forse il “mortacci tua” romanesco corrisponde al napoletano “mannaggia a chitemmuort”, per maledire gli antenati di una persona.

    Scomponendo la parola, questa diventa “chi ta muort” (= chi ti è morto). La m di muort è raddoppiata forse per intensificarla con cattiveria.
    Ultima modifica di doxa; 05-11-2023 alle 17:37

  5. #5
    Per restare nell'argomento ( qui sarebbe interessante, e piacevole, leggere arecata), sempre nell'improperio partenopeo (e parte-napoletano battutaccia penosissima, che non riesco ad evitare) c'é l'efficace, quanto agghiacciante, "puozze sculà", che si rifà alle antichissime "cantarelle", sedili di pietra tufacea dove venivano posati i cadaveri, affinché le spoglie si essiccassero.
    untitled-25.jpg
    Questi luoghi (putridarium) erano chiamati "scolatoi"
    Scolatoi ipogei della chiesa di Sant’Agostino alla Zecca
    santagostino.jpg
    Scolatoi “Cimitero delle Clarisse”, Ischia.
    ischia.jpg
    E nel caso "l'operazione" non andasse a "buonfine"...il cadavere si gonfiava...fino a ....
    Quindi, l'improperio: "Puozze schiattà"
    Ma, ripeto, sarebbe graditissimo l'intervento di arecata, infinitamente più esperto in napoletanicità dell'umile sottocritto.

  6. #6
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    Buon pomeriggio Carlino,

    hai bevuto il caffè post prandium ? Idealmente te l’offro io ! Mentre sorseggi ti racconto che sono stato alcune volte ad Ischia e nel castello aragonese ho visitato la chiesa dedicata alla Beata Vergine Assunta, detta dell’Immacolata, con l’annesso ex convento per le suore Clarisse.

    Ho visto il loro “putridarium”, una sala con lo “scolatoio”, dove i corpi in putrefazione delle decedute venivano collocati su seggioloni in muratura per la “purificazione” effettuata dai batteri. I cadaveri infatti scolavano i propri “liquidi” all’interno del foro posto sotto la seduta. Quel liquido veniva raccolto in appositi vasi.

    Il putridarium era una specie di purgatorio per le defunte, dove il loro corpo si liberava definitivamente delle proprie impurità per rimanere soltanto nella sua essenza, le ossa, che venivano successivamente deposte nell’ossario del piccolo cimitero.

    Le suore si recavano quotidianamente nel locale per pregare e riflettere sulla fugacità della vita e sulla morte, mentre la carne delle defunte si decomponeva.

    Le oranti dovevano sempre aver presente nella mente la locuzione latina: “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” (= "Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai").

    A volte le suore per meditare trascorrevano alcune ore nel ferale ambiente. Tale macabra pratica trovava fondamento nella necessità di evidenziare l'inutilità del corpo, considerato soltanto come un contenitore dello spirito.

    La permanenza in preghiera in quel mortifero ambiente, con sfiatatoi ma senza finestre e contaminato dai batteri dei corpi in disfacimento, significava presagio di morte. Infatti le consorelle spesso contraevano gravi malattie che conducevano pure alla morte.

    Vedi Cono a cosa conduce la religione !

    L’ex putridarium è visitabile.

    C’è da dire che i putridarium erano diffusi in tutta Italia.

    La loro scomparsa definitiva avvenne all’inizio dello scorso secolo, il XX secolo, quando le autorità sanitarie misero in atto provvedimenti di sicurezza per i chierici e i fedeli.

    Carlino all’inizio del post ti ho idealmente offerto un caffè post prandium. Ora è necessario che dall’ideale io transiti verso la realtà, obbedendo alla locuzione latina “Post prandium aut stabis aut lente deambulabis” anche conosciuta con “Post prandium aut stare aut lento pede deambulare” (= dopo il pranzo o stai in piedi o passeggia lentamente”, insegnamento della Scuola medica salernitana – Regimen Sanitas Salernitanum”.
    Ultima modifica di doxa; 05-11-2023 alle 22:44

  7. #7
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    Cara Regina, amabile amica virtuale e amante del dialetto romanesco, clicca sul link

    https://www.facebook.com/watch/?v=53...fB&ref=sharing

  8. #8
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    Nel 1969 la docente universitaria Nora Galli de’ Paratesi scrisse il libro titolato “Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo”. Uno studio sulla “censura” del linguaggio, sulle parole “proibite”. Lo scopo del testo è quello di trovare le motivazioni psicologiche che vietano di pronunciare una parola, una frase.

    Per evitare o sostituire le parole tabu si usa l’eufemismo.

    Nel passato l’auto-censura entrava in azione per parole che riguardavano il sesso, la "decenza", oggi si esercita sulle parole del politicamente corretto. Quindi, il potere coercitivo dell'eufemismo dipende dalla società.

    Il disagio nel pronunciare o scrivere determinate parole può derivare da vari fattori: il timore di offendere l’interlocutore, l’interdizione religiosa, il pudore, ecc..

    Cono che dici se argomento su un’altra “parolaccia” alla romana ? Dopo però devi andare a confessarti se ti sei compiaciuto.

    La frase a me interessa soltanto dal punto di vista etimologico e storico, non mi suscita ilarità.

    Stasera la frase che ho scelto nel dialetto romanesco è “colorita, “sorge spontanea: “fijo de na mignotta”. Nel Nord Italia prevale “figlio di puttana”, nel Sud, in particolare in Campania, “figlio 'e 'ntrocchia”.

    Carlino, ma che significa ‘ntrocchia ?

    Secondo un’interpretazione diffusa, l’espressione “fijo de na mignotta”, deriva dalla frase ”filius matris ignotae” (= figlio/a di madre ignota) che veniva scritta sui registri anagrafici per i neonati abbandonati.

    Frequentemente l’annotazione veniva abbreviata in: “m. ignotae”. Nel parlato popolare le due parole vennero unite, composte, e formarono il neologismo “mignotta”.

    segue
    Ultima modifica di doxa; 09-11-2023 alle 14:00

  9. #9
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    La “Ruota degli Esposti” e i “Filius di Matris ignotae”.

    Adesso vi faccio vedere la foto di una “ruota degli esposti” (tutelata da una grata), visibile a Borgo Santo Spirito, vicino al Vaticano.

    E’ nel lato esterno della “Corsia sistina” (da non confondere con la “Cappella Sistina), che faceva parte dell’antico ospedale di “Santo Spirito in Sassia”.



    Vicino la “ruota” è visibile la cassetta per le offerte. Sul marmo c’è scritto: “Elemosine per li poveri projetti dell’hospidale“ “proietti” significava “trovatelli”, “fanciulli abbandonati”, poi usato come cognome del neonato, idem "Diotallevi". A Napoli da "esposti" è derivato il cognome “Esposito” e similari.

    Nei secoli la ruota del Santo Spirito ha salvato tanti neonati dalla morte ( ipotizzano circa mille ogni anno). Fu abolita nel 1923.

    Le famiglie povere non potevano permettersi di mantenere un altro figlio, di solito non voluto.

    Papa Innocenzo III (pontificò dal 1198 al 1216) per non far uccidere i neonati (anche gettandoli nel Tevere) nell’ospedale di Santo Spirito fece creare la “ruota degli esposti”, tramite la quale le madri o loro parenti, in modo anonimo, potevano abbandonare i piccini per affidarli alle cure dell’ospedale e delle balie che lo frequentavano per allattare neonati non loro, in cambio di denaro.

    La “ruota degli esposti” era simile ad un ruotante barilotto di legno con sportello. Dall’esterno vi veniva adagiato in forma anonima, l'”esposto”, il neonato di genitori ignoti.


    Foto di un’altra ruota degli esposti.

    Chi lasciava “er pupo” tirava la corda di una campanella per avvertire dell’abbandono. Dall’interno la suora, faceva girare la “ruota” e prelevava il “pargolo” per affidarlo alla cura e tutela all’interno dell’ospedale.

    Quando quei bambini raggiungevano l’età adulta (la minoranza, altri morivano di malattie) il loro destino cambiava in base al sesso: i maschi apprendevano un lavoro e venivano avviati all’attività lavorativa, le femmine, invece, venivano addestrate alla cura della famiglia. Per loro ogni anno venivano svolte le cosiddette “processioni” in date prestabilite, a cui erano invitati i giovani che cercavano una moglie. Se avveniva il “fidanzamento la donna era libera di andare, se invece restava nubile era destinata a diventare suora oppure a lavorare come domestica di un vescovo o cardinale oppure in una famiglia nobile.

    segue
    Ultima modifica di doxa; 08-11-2023 alle 18:00

  10. #10
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    /3

    Nel linguaggio contemporaneo la locuzione “fijo de na mignotta” o “figlio di mignotta” può avere diversi significati: una persona da disprezzare, un individuo astuto, un “cordiale saluto tra amici durante un casuale incontro: “a fijo de na mignotta, come stai ?”.

    I più precisi distinguono nel dire “fijo de mignotta” come complimento ad una persona furba, invece “fijo de ‘na mignotta“, come insulto ad una persona, mirando alla immaginaria “professione della madre”.

    “Vviè cqua, a fijo de 'na mignotta”, anche questa tipica espressione può essere detta in modo minaccioso oppure in senso ironico, dipende dal contesto.

    Nell’uso della lingua italiana il ricorso al turpiloquio è generalmente utilizzato in situazioni specifiche, come sfogo alla propria aggressività. Invece a Roma la parolaccia a volte è considerata parte integrante di tranquilli dialoghi, è percepita come rafforzativo di alcuni concetti, diventando essenziale in alcune circostanze per far capire meglio all’interlocutore.

    Dipende dal tono di voce (scherzoso o adirato), dalla situazione in cui viene detta la parolaccia, dal linguaggio non verbale: la gestualità.

    Nei secoli passati il “panorama espressivo dialettale" era usato anche dall’alto clero e dai nobili, specie quando parlavano con la “plebe”.

    Un aneddoto vuole che sia stato “parolacciaro” il papa Benedetto XIV: Prospero Lorenzo Lambertini, che pontificò dal 1740 al 1758.




    fine
    Ultima modifica di doxa; 08-11-2023 alle 18:05

  11. #11
    Citazione Originariamente Scritto da doxa Visualizza Messaggio
    Carlino, ma che significa ‘ntrocchia ?
    Mi dichiaro incompetente per chiarimenti in materia: non ho né ricordi, né testi autorevoli sottomano.....googlare é escluso, evidentemente.
    Bisogna sperare che arecata, esperto verace in partenopeicità (e dintorni), ti legga. O qualche terroncella pisano-albionica o meno

  12. #12
    Vengo citato ede appaio. Quando si fa un'insalata con tutto ciò che c'è disponibile in casa (erbe, sottaceti, tonno, legumi etc. etc.) si chiama MISCAFRANCESCA Immaginate di aver indossato dei capi completamente scoordinati: pantaloncini corti con motivo floreale, stivali da neve e cappello a pois. Oppure - per capirci meglio - entriamo in cucina: preparereste mai un'insalatona abbinando banane, maionese, capperi e piselli? Sperando che la riposta sia "no", possiamo affermare con certezza che si tratti di un'accozzaglia di ingredienti assolutamente casuali. Ecco, se volessi spiegare a chi non è Campano come me in quale contesto si utilizza e cosa vuol dire ammesca francesca farei proprio questi esempi.
    A Napoli con parole swemplici è difficile centrare l'obiettivo dell'offesa.
    Esempio 1) Figli'è zoccola - qui dipende da chi lo dice e come lo dice, si traduce da se, ma può essere un gran complimento all'intelligenza ed alla creatività del prsonaggio cui è diretto, oppure.......
    Lo stesso dicasi per figli'è cantaro dove cantero è il vaso da notte
    2) T'hann accirere (ti devono uccidere) perchè non lo fa l'autore? Perchè in realtà se avesse avuto quest'intenzione avrebbe già provveduto, è, invece, un complimento ed augurio di lunga vita
    Ce ne sono troppi per elencarli tutti
    adesso v'insegno una parola del dialetto partenopeo che ho appreso 40 anni fa e ne avevo più di 40 : ARRASSUSI' -che si traduce in NON SIA MAI
    Esempio : puozz passà nu guaio niro miezz 'e cosce- risposta arrassusì a soreta
    P�nta rh�i h?s potam�s

    arecata � il 2� nick-name di Blasel

  13. #13
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    Ciao Carlino ho seguito il tuo consiglio. Ho scrutato in Internet.

    Grazie anche a te Arecata per il tuo contributo ai modi di dire in dialetto napoletano.

    Vi sintetizzo ciò che ho letto.

    “Figlio ‘e ‘ntrocchia” fa riferimento sia al bambino o adulto “furbo” sia all’individuo che in dialetto romanesco è detto “fijo de na mignotta” (= prostituta): “chill è proprio nu figlio e ntrocchia!”

    L’adolescente “molto sveglio” per la sua età è anche detto “figlio ‘e zoccola”.

    "Durante la Seconda Guerra Mondiale, ci furono molte avventure tra i soldati – alleati e non – e le ragazze napoletane. Eduardo De Filippo ce ne diede un esempio nel film “Napoli Milionaria“, in cui una ragazza che aveva ceduto alle lusinghe di un soldato americano si era ritrovata sola ed in “stato interessante”.

    Numerose le donne che fecero nascere figli di “padri ignoti”. Ci furono famiglie che accettarono il neonato, altre cacciarono di casa le figlie e spesso quelle donne per vivere finivano nelle cosiddette “case di tolleranza”, o peggio, a prostituirsi in strada.

    Cono che dici, quella violenta condanna morale da parte della famiglia derivava da quella inculcata dalla Chiesa cattolica ?
    Ultima modifica di doxa; 08-11-2023 alle 21:54

  14. #14
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    Le tante parole che molti italiani usano, anche lontano da Roma, forse senza sospettarne l’origine capitolina:

    bùfala
    = notizia falsa;

    caçiara = confusione;

    fregnaccia e frescaccia = sciocchezza;

    jella = sfortuna;

    pènnica = sonnellino;

    peracottaro = persona inattendibile e pasticciona;

    scanzonato
    = scherzoso, disinvolto, ironico;

    sfottere = prendere in giro;

    sturbo = svenimento;

    zozzo = sporco;

    cecagna = sonnolenza;

    daje, eddàje = usato come segnale d’impazienza o di disappunto quando accade una cosa spiacevole;

    stacce = rassegnarsi;

    ce pò sta = è possibile, è plausibile, è accettabile.

    Per chi volesse saperne di più vi segnalo il recente “Vocabolario del romanesco contemporaneo”, edit. da Newton Compton, pagg. 480, euro 14,90, elaborato da Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi.

    Il dialetto romanesco è come un cocktail: un terzo di origine meridionale, un terzo dal toscano (che risale agli sconvolgimenti demografici avvenuti nell’Urbe tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna), e un terzo dalle successive importazioni e innovazioni, che da Roma capitale si sono irradiate in tutta la penisola.

    Il romanesco contemporaneo, quello che oggi si parla a Roma è un misto di dialetto e lingua “colta”, che produce un “italiano di (de) Roma”.

  15. #15
    Hai notato che l'avvento dell' € ha sovvertito una scala atavica se non ancestrale di valori?
    La "piotta" (o pijotta) é passata dalle modeste cento lirette ai cento sonanti euroni, ed il nobile "scudo", dalle mille lire al misero "cinque €"?
    C'é un senso profondo in questo?
    vassapé


    (informazioni sui "cambi valutari" ottenute per via indiretta da nipoti capitolini)

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