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Discussione: Dove siete in questo momento? 😁🌍

  1. #1
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    Dove siete in questo momento? 😁🌍

    ...thread senza pretese sulla falsariga degli altri due, giusto per passare un pò il tempo in treno
    ...l'idea in realtà mi era venuta già tempo fa quando il mio capo mi aveva mostrato le funzioni avanzate di una app per incontri
    ...chissà che non funzioni anche per noi e magari aiuti ad improvvisare un forumritrovo
    ...al solito comincio io per dare il buon esempio, adesso sto cambiando regione


    IMG_20230911_091758.jpg
    Mens sana in corpore sano

  2. #2
    Nel porto di Santa Panagia, ad imbarcare dei marittimi.
    Bambol utente of the decade

  3. #3
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    Nel porto di Santa Panagia, ad imbarcare dei marittimi.
    Sei lontanuccio, peccato...
    ...andrà meglio la prossima volta quando anche tu sarai qua in zona
    ...a proposito, per ora non ho niente di nuovo per te ma oggi proverò a vedere sul posto per un appartamento

  4. #4
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    Ciao Ale, ti faccio leggere un articolo riguardante la tua zona geografica. E’ stato pubblicato l’altro giorno sull’inserto “Domenica” del quotidiano Il Sole 24 Ore

    Matteo Codignola: “I piedi nel fiume Tagliamento, e scorre la storia” (Il Sole 24 Ore, 10 – 9 – 2023)

    In Friuli tutto è vicino, dal Castello di Colloredo di Monte Albano, dove Nievo scrisse le «Confessioni di un Italiano», al ««tùmbare», monumento funebre dell’Età del Bronzo



    I generali italiani sono notoriamente fenomenali con la penna, ma quando si tratta di imbracciare lo schioppo, come dire, l’intreccio si infittisce. Così, se nell’autunno del 1918 gli alleati non gli avessero fatto presente che, essendo gli austriaci in braghe di tela, forse era il caso di andarsi a prendere le terre in teoria tanto agognate, loro se ne sarebbero tranquillamente rimasti al di qua del Piave, e il Friuli sarebbe ancora – mah, forse quello che tutto sommato è rimasto, una regione di cui gli italiani, alla faccia di trisavoli irredentisti e bisnonni irredenti, conoscono in modo approssimativo l’ubicazione – verso il Veneto, ma un po’ più in là – e che in due casi su tre accentano sulla vocale sbagliata.
    Meglio così, ma non è detto che duri. La Venezia Giulia ce la stiamo giocando, questo sì – da quando le grandi navi sbarcano a Trieste, Piazza Unità d’Italia in varie ore della giornata ricorda l’imbarcadero di Positano nelle domeniche d’agosto. Però il Friuli interno è ancora un altro mondo. Piuttosto esotico.

    Mi abbandono a queste pensose riflessioni col Tagliamento che mi arriva alle ginocchia – e non sa quanto gliene sono grato, essendo la temperatura esterna superiore a quella fin qui ritenuta compatibile con la vita sulla Terra. Povero Tagliamento. A suo tempo ha avuto un paio di settimane di gloria, quando i generali di cui sopra, allontanandosi da Caporetto alla velocità con cui Voyager si allontana dal Sole, proclamarono che mai lo straniero ne avrebbe superato le sponde; salvo poi precisare, con lo straniero già all’asciutto sulla riva di qua, di essere stati fraintesi: avevano detto Tagliamento, vero, ma intendevano il Piave. Fuori dalla ribalta, tuttavia, il Tagliamento ha continuato a scorrere, e lo fa ancora oggi. L’acqua è trasparente, i ciottoli bianchi, le montagne sullo sfondo celesti, come l’aria: e lassù in alto, dal momento che l’area è protetta, volteggiano grossi rapaci. Pur essendo Ferragosto, non c’è nessuno in vista, a parte un paio di ombrelloni sbiaditi in lontananza. A una cinquantina di metri, tuttavia, un gruppo di gitanti molto vintage, tatuaggi a parte, ha montato un baracchino per il barbecue, e un paio di casse per la musica. Le ragazze badano alle salsicce, i ragazzi hanno trovato un grosso scoglio liscio, da dove derapano in una pozza con una delle prime bici da cross apparse in Italia, nei contraddittori anni Settanta. È una scena che potrebbe svolgersi in un’ansa del Don, negli anni incantati fra la fine dell’Unione Sovietica e quello che è venuto dopo, quando l’immane Paese si godeva una momentanea, e però molto scenografica, sospensione della Storia. Del resto tutto, qui – in Friuli, non sul Don – ha uno strano rapporto col tempo. Per dirlo con una parolaccia, è lievemente ucronico.

    Tolti a malincuore i piedi dall’acqua, e risaliti in macchina, seguiamo i cartelli marroni per Colloredo di Monte Albano, a una decina di chilometri. La campagna è verdissima e in apparenza disabitata, come del resto Colloredo e il suo castello, tuttora tali e quali a come li descrive il loro cittadino più illustre. Per chi non c’era, o dormiva, le "Confessioni di un Italiano" sono state scritte qui, nel castello di Colloredo – in arte, di Fratta. L’enorme agglomerato di torri, mura e così via è venuto giù nel 1976, e da allora è in restauro, quindi non si può visitare. Però ci si può mettere all’ingresso e guardare il rettilineo artificiale a saliscendi, in asse col portone, che taglia la campagna. Da quel punto è abbastanza facile capire che Italia Nievo sognasse di costruire – qualcosa di abbastanza simile allo scorcio maestoso e bizzarro che i suoi antenati avevano disegnato nel paesaggio. Poi i suoi sogni sono andati a farsi benedire insieme a uno dei nostri, e cioè che le scuole del Regno, dovendo dare una lingua comune a non si sa quante Italie diverse, adottassero quel suo meraviglioso, irriverente e se dio vuole comicissimo torso romanzesco, anziché il monumento di quel seccatore baciapile e irrimediabilmente lombardo. Ma le cose non sono andate così, e mentre su quel ramo del lago di Como oggi si fa a cazzotti per i selfie (tiè), qui non c’è niente da instagrammare, e la mano cerca ancora la Leica.

    In Friuli, come in Olanda, tutto è a dieci i quindici chilometri da tutto. A sei o sette da Colloredo c’è Brazzacco, il minuscolo paesino di cui era originario Pietro Savorgnan di Brazzà. Brazzà è stato una figura al cui cospetto Stanley, Livingstone e compagnia bella sembrano un gruppo di animatori del ClubMed, eppure il porco Paese in cui era nato, in un secolo abbondante, non ha ritenuto di dedicargli un libro degno di questo nome, né un film, e neppure una serie, che ormai non si nega a nessuno abbia appena messo il naso fuori dall’anonimato. Eppure la sua vicenda sarebbe la chiave migliore per cominciare a capire qualcosa del nostro oscuro, e fin qui in gran parte silenziato, rapporto con l’Africa. Invece niente – ma sapendo che a Brazzacco risultava esistere, nientemeno, un Museo Brazzà, ho chiamato il custode e gli ho chiesto di visitarlo. Il custode, Corrado Pirzio Biroli, è anche il curatore del museo stesso, oltre che il proprietario del fabbricato, del terreno su cui sorge, e della villa adiacente. E discende in linea diretta da Brazzà stesso. La villa è in una posizione talmente felice da essere stata a rotazione il comando di tutti gli eserciti che da queste parti hanno belligerato in due guerre mondiali, però il museo è piuttosto piccolo. Contiene poco di originale, ma non per colpa di Corrado, che ci lavora da anni: Brazzà infatti non ha lasciato molto, e quel poco è finito in fondo al mare in uno sventurato naufragio. Peccato, perché a giudicare da quello che è rimasto – le scatolette di sapone in polvere o di lamette cui in Congo aveva concesso nome ed effigie, sperando di alzare qualche soldo – si sospetta potesse essere materiale non precisamente da cartolina. Alle pareti del museo c’è tuttavia parecchio altro, e di quell’altro con Corrado si finisce per parlare. È infatti inevitabile chiedere informazioni sugli augusti personaggi ritratti o fotografati alle pareti, che sono immancabilmente nonni, zii, cugini o genitori di Corrado stesso: peccato si chiamino Pirzio Biroli (che significa, l’Africa italiana) o Von Hassel (che significa, la resistenza tedesca a Hitler). Quanto all’omone con la barba a due corni lassù, era l’ammiraglio von Tirpiz, nientemeno – cioè il bisnonno di Corrado.

    Troppa storia, e troppo intrecciata, almeno per un articolo. Meglio chiudere con qualcosa di più primordiale. Per trovarlo bastano i soliti tre chilometri, fino a un altro castello. A differenza di Colloredo, il maniero di Villalta è intatto, e infatti ci ospitano matrimoni e baccanali assortiti. Ma il punto di interesse è un altro. Subito sotto le mura, infatti, si apre un pratone vuoto, con al centro un grosso montarozzo. È un «tùmbare», uno degli ultimi monumenti funebri che a quanto pare erano, millenni fa, un landmark queste pianure. Sotto a questo, che è molto bello, ci sono verosimilmente i resti di un notabile dell’Età del Bronzo: sopra, un grosso tiglio, albero venerato dalle popolazioni slave che da sempre hanno abitato la regione. E che, pur costrette da decenni a tollerare i rumorosi e spesso molesti vicini venuti da occidente, continuano imperterrite ad abitarla.
    Ultima modifica di doxa; 12-09-2023 alle 08:18

  5. #5
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    Ale sto pensando che quando il nostro amico Bumble verrà dalle tue parti potresti offrirgli un pranzo nel ristorante "Subida", consigliato dall'autore dell'articolo nel precedente post.

    Dice che la "Subida" è uno degli angoli più nascosti del Collio. Tre chilometri dietro di noi c'è Cormons, circa quindici chilometri davanti a noi la Bainsizza, dove nei momenti di ipercinesi il generale Cadorna mandava le sue divisioni a sfoltire i ranghi.

    Due o tre curve più in là c'è il confine, che ai tempi della Jugoslavia non era, come oggi, un cartello ai lati della strada. Ancor prima che il Maresciallo Tito finisse di spiegare nei dettagli il suo concetto di proprietà privata, la nonna di Mitja Sirk caricò su un camion la cassaforte della piccola banca di famiglia per lasciarla in un casolare, che tre generazioni della famiglia Sirk hanno trasformato in una osteria, poi in trattoria, successivamente in uno dei pochi ristoranti meritevoli di un viaggio per andarci. Non solo per i vini o per la buona cucina. Negli anni i Sirk hanno fatto costruire intorno al ristorante un piacevole borgo per gli ospiti ed usato le ex casematte militari per la stagionatura dei formaggi.

  6. #6
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    Ehm, grazie per il poema Doxa, lo leggerò stasera con calma...
    ...certo che quando arriverà Bumble lo porterò a spasso
    ...quel posto che dici però mi è un pò fuori mano, senza macchina almeno durante la brutta stagione il mio range di spostamenti è alquanto limitato ad una parte della Venezia Giulia

  7. #7
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    Ah ps, adesso sono in un bar in piazza della libertà proprio di fronte la stazione centrale...
    ...per chi eventualmente mi raggiungesse entro i prossimi venti minuti c'è uno spritz in palio

  8. #8
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    Ciao Ale, ti faccio leggere un articolo riguardante la tua zona geografica. E’ stato pubblicato l’altro giorno sull’inserto “Domenica” del quotidiano Il Sole 24 Ore

    Matteo Codignola: “I piedi nel fiume Tagliamento, e scorre la storia” (Il Sole 24 Ore, 10 – 9 – 2023)

    In Friuli tutto è vicino, dal Castello di Colloredo di Monte Albano, dove Nievo scrisse le «Confessioni di un Italiano», al ««tùmbare», monumento funebre dell’Età del Bronzo



    I generali italiani sono notoriamente fenomenali con la penna, ma quando si tratta di imbracciare lo schioppo, come dire, l’intreccio si infittisce. Così, se nell’autunno del 1918 gli alleati non gli avessero fatto presente che, essendo gli austriaci in braghe di tela, forse era il caso di andarsi a prendere le terre in teoria tanto agognate, loro se ne sarebbero tranquillamente rimasti al di qua del Piave, e il Friuli sarebbe ancora – mah, forse quello che tutto sommato è rimasto, una regione di cui gli italiani, alla faccia di trisavoli irredentisti e bisnonni irredenti, conoscono in modo approssimativo l’ubicazione – verso il Veneto, ma un po’ più in là – e che in due casi su tre accentano sulla vocale sbagliata.
    Meglio così, ma non è detto che duri. La Venezia Giulia ce la stiamo giocando, questo sì – da quando le grandi navi sbarcano a Trieste, Piazza Unità d’Italia in varie ore della giornata ricorda l’imbarcadero di Positano nelle domeniche d’agosto. Però il Friuli interno è ancora un altro mondo. Piuttosto esotico.

    Mi abbandono a queste pensose riflessioni col Tagliamento che mi arriva alle ginocchia – e non sa quanto gliene sono grato, essendo la temperatura esterna superiore a quella fin qui ritenuta compatibile con la vita sulla Terra. Povero Tagliamento. A suo tempo ha avuto un paio di settimane di gloria, quando i generali di cui sopra, allontanandosi da Caporetto alla velocità con cui Voyager si allontana dal Sole, proclamarono che mai lo straniero ne avrebbe superato le sponde; salvo poi precisare, con lo straniero già all’asciutto sulla riva di qua, di essere stati fraintesi: avevano detto Tagliamento, vero, ma intendevano il Piave. Fuori dalla ribalta, tuttavia, il Tagliamento ha continuato a scorrere, e lo fa ancora oggi. L’acqua è trasparente, i ciottoli bianchi, le montagne sullo sfondo celesti, come l’aria: e lassù in alto, dal momento che l’area è protetta, volteggiano grossi rapaci. Pur essendo Ferragosto, non c’è nessuno in vista, a parte un paio di ombrelloni sbiaditi in lontananza. A una cinquantina di metri, tuttavia, un gruppo di gitanti molto vintage, tatuaggi a parte, ha montato un baracchino per il barbecue, e un paio di casse per la musica. Le ragazze badano alle salsicce, i ragazzi hanno trovato un grosso scoglio liscio, da dove derapano in una pozza con una delle prime bici da cross apparse in Italia, nei contraddittori anni Settanta. È una scena che potrebbe svolgersi in un’ansa del Don, negli anni incantati fra la fine dell’Unione Sovietica e quello che è venuto dopo, quando l’immane Paese si godeva una momentanea, e però molto scenografica, sospensione della Storia. Del resto tutto, qui – in Friuli, non sul Don – ha uno strano rapporto col tempo. Per dirlo con una parolaccia, è lievemente ucronico.

    Tolti a malincuore i piedi dall’acqua, e risaliti in macchina, seguiamo i cartelli marroni per Colloredo di Monte Albano, a una decina di chilometri. La campagna è verdissima e in apparenza disabitata, come del resto Colloredo e il suo castello, tuttora tali e quali a come li descrive il loro cittadino più illustre. Per chi non c’era, o dormiva, le "Confessioni di un Italiano" sono state scritte qui, nel castello di Colloredo – in arte, di Fratta. L’enorme agglomerato di torri, mura e così via è venuto giù nel 1976, e da allora è in restauro, quindi non si può visitare. Però ci si può mettere all’ingresso e guardare il rettilineo artificiale a saliscendi, in asse col portone, che taglia la campagna. Da quel punto è abbastanza facile capire che Italia Nievo sognasse di costruire – qualcosa di abbastanza simile allo scorcio maestoso e bizzarro che i suoi antenati avevano disegnato nel paesaggio. Poi i suoi sogni sono andati a farsi benedire insieme a uno dei nostri, e cioè che le scuole del Regno, dovendo dare una lingua comune a non si sa quante Italie diverse, adottassero quel suo meraviglioso, irriverente e se dio vuole comicissimo torso romanzesco, anziché il monumento di quel seccatore baciapile e irrimediabilmente lombardo. Ma le cose non sono andate così, e mentre su quel ramo del lago di Como oggi si fa a cazzotti per i selfie (tiè), qui non c’è niente da instagrammare, e la mano cerca ancora la Leica.

    In Friuli, come in Olanda, tutto è a dieci i quindici chilometri da tutto. A sei o sette da Colloredo c’è Brazzacco, il minuscolo paesino di cui era originario Pietro Savorgnan di Brazzà. Brazzà è stato una figura al cui cospetto Stanley, Livingstone e compagnia bella sembrano un gruppo di animatori del ClubMed, eppure il porco Paese in cui era nato, in un secolo abbondante, non ha ritenuto di dedicargli un libro degno di questo nome, né un film, e neppure una serie, che ormai non si nega a nessuno abbia appena messo il naso fuori dall’anonimato. Eppure la sua vicenda sarebbe la chiave migliore per cominciare a capire qualcosa del nostro oscuro, e fin qui in gran parte silenziato, rapporto con l’Africa. Invece niente – ma sapendo che a Brazzacco risultava esistere, nientemeno, un Museo Brazzà, ho chiamato il custode e gli ho chiesto di visitarlo. Il custode, Corrado Pirzio Biroli, è anche il curatore del museo stesso, oltre che il proprietario del fabbricato, del terreno su cui sorge, e della villa adiacente. E discende in linea diretta da Brazzà stesso. La villa è in una posizione talmente felice da essere stata a rotazione il comando di tutti gli eserciti che da queste parti hanno belligerato in due guerre mondiali, però il museo è piuttosto piccolo. Contiene poco di originale, ma non per colpa di Corrado, che ci lavora da anni: Brazzà infatti non ha lasciato molto, e quel poco è finito in fondo al mare in uno sventurato naufragio. Peccato, perché a giudicare da quello che è rimasto – le scatolette di sapone in polvere o di lamette cui in Congo aveva concesso nome ed effigie, sperando di alzare qualche soldo – si sospetta potesse essere materiale non precisamente da cartolina. Alle pareti del museo c’è tuttavia parecchio altro, e di quell’altro con Corrado si finisce per parlare. È infatti inevitabile chiedere informazioni sugli augusti personaggi ritratti o fotografati alle pareti, che sono immancabilmente nonni, zii, cugini o genitori di Corrado stesso: peccato si chiamino Pirzio Biroli (che significa, l’Africa italiana) o Von Hassel (che significa, la resistenza tedesca a Hitler). Quanto all’omone con la barba a due corni lassù, era l’ammiraglio von Tirpiz, nientemeno – cioè il bisnonno di Corrado.

    Troppa storia, e troppo intrecciata, almeno per un articolo. Meglio chiudere con qualcosa di più primordiale. Per trovarlo bastano i soliti tre chilometri, fino a un altro castello. A differenza di Colloredo, il maniero di Villalta è intatto, e infatti ci ospitano matrimoni e baccanali assortiti. Ma il punto di interesse è un altro. Subito sotto le mura, infatti, si apre un pratone vuoto, con al centro un grosso montarozzo. È un «tùmbare», uno degli ultimi monumenti funebri che a quanto pare erano, millenni fa, un landmark queste pianure. Sotto a questo, che è molto bello, ci sono verosimilmente i resti di un notabile dell’Età del Bronzo: sopra, un grosso tiglio, albero venerato dalle popolazioni slave che da sempre hanno abitato la regione. E che, pur costrette da decenni a tollerare i rumorosi e spesso molesti vicini venuti da occidente, continuano imperterrite ad abitarla.
    Grazie per l'articolo Doxa, in effetti non pensavo che quel posto effettivamente poco abitato fosse così pregno di storia...
    ...la zona l'ho scoperta in tempi relativamente recenti, vabbè sarà un quarto di secolo
    ...innanzitutto perché nel paese sotto prima e in quello sopra poi c'era e probabilmente c'è ancora l'unico negozio veramente specializzato nel mio hobby di tutta la regione
    ...e poi perché ho scoperto che la strada principale che attraversa quei posti è molto meno trafficata e quindi più veloce della quasi parallela ss13, prima infatti utilizzavo sempre quest'ultima per salire all'estremo nord della regione tra traffico semafori e rallentamenti vari
    ...adesso cmq.è un bel pò che non passo da quelle parti, ultimamente il Tagliamento lo vedo solo vicino alla foce attraversandolo sul ponte di Latisana [vedi mio primo post ]
    ...cmq.se domenica per un motivo o per l'altro mi dovesse saltare il treno+bici nella zona dei 3 confini, in settimana cercherò di farne uno un pò più sotto, non lontano dalla zona che hai descritto

  9. #9
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    Ciao Ale, ti faccio leggere un articolo riguardante la tua zona geografica. E’ stato pubblicato l’altro giorno sull’inserto “Domenica” del quotidiano Il Sole 24 Ore

    Matteo Codignola: “I piedi nel fiume Tagliamento, e scorre la storia” (Il Sole 24 Ore, 10 – 9 – 2023)

    In Friuli tutto è vicino, dal Castello di Colloredo di Monte Albano, dove Nievo scrisse le «Confessioni di un Italiano», al ««tùmbare», monumento funebre dell’Età del Bronzo



    I generali italiani sono notoriamente fenomenali con la penna, ma quando si tratta di imbracciare lo schioppo, come dire, l’intreccio si infittisce. Così, se nell’autunno del 1918 gli alleati non gli avessero fatto presente che, essendo gli austriaci in braghe di tela, forse era il caso di andarsi a prendere le terre in teoria tanto agognate, loro se ne sarebbero tranquillamente rimasti al di qua del Piave, e il Friuli sarebbe ancora – mah, forse quello che tutto sommato è rimasto, una regione di cui gli italiani, alla faccia di trisavoli irredentisti e bisnonni irredenti, conoscono in modo approssimativo l’ubicazione – verso il Veneto, ma un po’ più in là – e che in due casi su tre accentano sulla vocale sbagliata.
    Meglio così, ma non è detto che duri. La Venezia Giulia ce la stiamo giocando, questo sì – da quando le grandi navi sbarcano a Trieste, Piazza Unità d’Italia in varie ore della giornata ricorda l’imbarcadero di Positano nelle domeniche d’agosto. Però il Friuli interno è ancora un altro mondo. Piuttosto esotico.

    Mi abbandono a queste pensose riflessioni col Tagliamento che mi arriva alle ginocchia – e non sa quanto gliene sono grato, essendo la temperatura esterna superiore a quella fin qui ritenuta compatibile con la vita sulla Terra. Povero Tagliamento. A suo tempo ha avuto un paio di settimane di gloria, quando i generali di cui sopra, allontanandosi da Caporetto alla velocità con cui Voyager si allontana dal Sole, proclamarono che mai lo straniero ne avrebbe superato le sponde; salvo poi precisare, con lo straniero già all’asciutto sulla riva di qua, di essere stati fraintesi: avevano detto Tagliamento, vero, ma intendevano il Piave. Fuori dalla ribalta, tuttavia, il Tagliamento ha continuato a scorrere, e lo fa ancora oggi. L’acqua è trasparente, i ciottoli bianchi, le montagne sullo sfondo celesti, come l’aria: e lassù in alto, dal momento che l’area è protetta, volteggiano grossi rapaci. Pur essendo Ferragosto, non c’è nessuno in vista, a parte un paio di ombrelloni sbiaditi in lontananza. A una cinquantina di metri, tuttavia, un gruppo di gitanti molto vintage, tatuaggi a parte, ha montato un baracchino per il barbecue, e un paio di casse per la musica. Le ragazze badano alle salsicce, i ragazzi hanno trovato un grosso scoglio liscio, da dove derapano in una pozza con una delle prime bici da cross apparse in Italia, nei contraddittori anni Settanta. È una scena che potrebbe svolgersi in un’ansa del Don, negli anni incantati fra la fine dell’Unione Sovietica e quello che è venuto dopo, quando l’immane Paese si godeva una momentanea, e però molto scenografica, sospensione della Storia. Del resto tutto, qui – in Friuli, non sul Don – ha uno strano rapporto col tempo. Per dirlo con una parolaccia, è lievemente ucronico.

    Tolti a malincuore i piedi dall’acqua, e risaliti in macchina, seguiamo i cartelli marroni per Colloredo di Monte Albano, a una decina di chilometri. La campagna è verdissima e in apparenza disabitata, come del resto Colloredo e il suo castello, tuttora tali e quali a come li descrive il loro cittadino più illustre. Per chi non c’era, o dormiva, le "Confessioni di un Italiano" sono state scritte qui, nel castello di Colloredo – in arte, di Fratta. L’enorme agglomerato di torri, mura e così via è venuto giù nel 1976, e da allora è in restauro, quindi non si può visitare. Però ci si può mettere all’ingresso e guardare il rettilineo artificiale a saliscendi, in asse col portone, che taglia la campagna. Da quel punto è abbastanza facile capire che Italia Nievo sognasse di costruire – qualcosa di abbastanza simile allo scorcio maestoso e bizzarro che i suoi antenati avevano disegnato nel paesaggio. Poi i suoi sogni sono andati a farsi benedire insieme a uno dei nostri, e cioè che le scuole del Regno, dovendo dare una lingua comune a non si sa quante Italie diverse, adottassero quel suo meraviglioso, irriverente e se dio vuole comicissimo torso romanzesco, anziché il monumento di quel seccatore baciapile e irrimediabilmente lombardo. Ma le cose non sono andate così, e mentre su quel ramo del lago di Como oggi si fa a cazzotti per i selfie (tiè), qui non c’è niente da instagrammare, e la mano cerca ancora la Leica.

    In Friuli, come in Olanda, tutto è a dieci i quindici chilometri da tutto. A sei o sette da Colloredo c’è Brazzacco, il minuscolo paesino di cui era originario Pietro Savorgnan di Brazzà. Brazzà è stato una figura al cui cospetto Stanley, Livingstone e compagnia bella sembrano un gruppo di animatori del ClubMed, eppure il porco Paese in cui era nato, in un secolo abbondante, non ha ritenuto di dedicargli un libro degno di questo nome, né un film, e neppure una serie, che ormai non si nega a nessuno abbia appena messo il naso fuori dall’anonimato. Eppure la sua vicenda sarebbe la chiave migliore per cominciare a capire qualcosa del nostro oscuro, e fin qui in gran parte silenziato, rapporto con l’Africa. Invece niente – ma sapendo che a Brazzacco risultava esistere, nientemeno, un Museo Brazzà, ho chiamato il custode e gli ho chiesto di visitarlo. Il custode, Corrado Pirzio Biroli, è anche il curatore del museo stesso, oltre che il proprietario del fabbricato, del terreno su cui sorge, e della villa adiacente. E discende in linea diretta da Brazzà stesso. La villa è in una posizione talmente felice da essere stata a rotazione il comando di tutti gli eserciti che da queste parti hanno belligerato in due guerre mondiali, però il museo è piuttosto piccolo. Contiene poco di originale, ma non per colpa di Corrado, che ci lavora da anni: Brazzà infatti non ha lasciato molto, e quel poco è finito in fondo al mare in uno sventurato naufragio. Peccato, perché a giudicare da quello che è rimasto – le scatolette di sapone in polvere o di lamette cui in Congo aveva concesso nome ed effigie, sperando di alzare qualche soldo – si sospetta potesse essere materiale non precisamente da cartolina. Alle pareti del museo c’è tuttavia parecchio altro, e di quell’altro con Corrado si finisce per parlare. È infatti inevitabile chiedere informazioni sugli augusti personaggi ritratti o fotografati alle pareti, che sono immancabilmente nonni, zii, cugini o genitori di Corrado stesso: peccato si chiamino Pirzio Biroli (che significa, l’Africa italiana) o Von Hassel (che significa, la resistenza tedesca a Hitler). Quanto all’omone con la barba a due corni lassù, era l’ammiraglio von Tirpiz, nientemeno – cioè il bisnonno di Corrado.

    Troppa storia, e troppo intrecciata, almeno per un articolo. Meglio chiudere con qualcosa di più primordiale. Per trovarlo bastano i soliti tre chilometri, fino a un altro castello. A differenza di Colloredo, il maniero di Villalta è intatto, e infatti ci ospitano matrimoni e baccanali assortiti. Ma il punto di interesse è un altro. Subito sotto le mura, infatti, si apre un pratone vuoto, con al centro un grosso montarozzo. È un «tùmbare», uno degli ultimi monumenti funebri che a quanto pare erano, millenni fa, un landmark queste pianure. Sotto a questo, che è molto bello, ci sono verosimilmente i resti di un notabile dell’Età del Bronzo: sopra, un grosso tiglio, albero venerato dalle popolazioni slave che da sempre hanno abitato la regione. E che, pur costrette da decenni a tollerare i rumorosi e spesso molesti vicini venuti da occidente, continuano imperterrite ad abitarla.
    L’autore voleva essere originalissimo a costo di sembrare monotono e noioso. Nei luoghi da lui descritti non ci sono stata, a parte il Tagliamento… ma, dico, non poteva citare qualcosa di più titillante? A parte tutte le città del Friuli Venezia Giulia, ciascuna con un suo profilo, c’è la costa Adriatica, ci sono Aquileia, Cividale, Venzone e chi ne ha più ne metta… ma per chi scrive? Per un pubblico già stanco che conosce tutto?

  10. #10
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    Ale sto pensando che quando il nostro amico Bumble verrà dalle tue parti potresti offrirgli un pranzo nel ristorante "Subida", consigliato dall'autore dell'articolo nel precedente post.

    Dice che la "Subida" è uno degli angoli più nascosti del Collio. Tre chilometri dietro di noi c'è Cormons, circa quindici chilometri davanti a noi la Bainsizza, dove nei momenti di ipercinesi il generale Cadorna mandava le sue divisioni a sfoltire i ranghi.

    Due o tre curve più in là c'è il confine, che ai tempi della Jugoslavia non era, come oggi, un cartello ai lati della strada. Ancor prima che il Maresciallo Tito finisse di spiegare nei dettagli il suo concetto di proprietà privata, la nonna di Mitja Sirk caricò su un camion la cassaforte della piccola banca di famiglia per lasciarla in un casolare, che tre generazioni della famiglia Sirk hanno trasformato in una osteria, poi in trattoria, successivamente in uno dei pochi ristoranti meritevoli di un viaggio per andarci. Non solo per i vini o per la buona cucina. Negli anni i Sirk hanno fatto costruire intorno al ristorante un piacevole borgo per gli ospiti ed usato le ex casematte militari per la stagionatura dei formaggi.

    La Subida è un ristorante molto caro: 150 euro con un menù di sei portate ed i vini abbinati.
    Certo, interessantissimo, ma non per tutte le tasche.

  11. #11
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    Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità [cit: Manifesto futurista] .

  12. #12
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    Davanti al pc a tirare accidenti!
    Dark d'avanti al pc che tira accidenti :

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  13. #13
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  14. #14
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    Fuori della stazione centrale, pronto per partire verso l'estremo nordest...
    ...ci aggiorniamo in giornata, buona domenica a tutti e.....stay tuned


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  15. #15
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    Dark d'avanti al pc che tira accidenti :

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    Avessi avuto davanti uno del genere, il pc l'avrei lasciato da parte
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