Con l'arrivo del 2018, il pianoforte del nonno, poi della mamma e infine mio, ha compiuto i cento anni: da "vecchio pianoforte" è diventato, secondo la regoletta dell'antiquario, un "antico pianoforte"; un omaggio alla vetustà che tuttavia non incide minimamente - se non in peggio - sul valore praticamente nullo di un oggetto ormai destinato a scomparire, come i cavalli e i telefoni a gettone di fronte alle tastiere elettroniche e ai cellulari.
Come per ogni vecchio e nero pianoforte da salotto, l'effetto "cassa da morto" si attenua appena si apre la tastiera; e subisce una metamorfosi completa se poi si toglie anche la lastra frontale:




La meccanica, le corde, i tasti, le dorature e le decalcomanie dei premi internazionali trasformano l'austero cassone nero nel turbine di sfavillanti colori della Belle Époque che affogava nella Grande Guerra, quando gli artigiani austroungarici lo stavano costruendo e versando lacrime sulla recente scomparsa dell'amato Cecco Beppe; e la metamorfosi si completa se qualcuno che ci sa fare ci mette le mani sopra, come la mamma quando accarezzava i tasti con i notturni di Chopin.
Ogni volta che lo apro per dar aria ai legni interni rimango incantato da questa trasformazione pianistica e me ne torna in mente un'altra ancor più radicale, quella che - grazie a Pablo Picasso - trasformò in un variopinto pianista nientemeno che Nicolasito Pertusato, il nano che stuzzica il cane dell'Infanta di Spagna in "La Meninas".


Una metamorfosi forse più da Kafka che da Ovidio, ma certo che ci voleva l'ego smisurato di Picasso per mettersi a rifare Velàzquez in questo modo...