Zaffiro

Mio piegò sé stesso sul lembo estremo del fiume, su quelle acque turbolente che riflettevano la luce blu cobalto della giovane sera indiana.
Nell'immergere il viso nella fredda morsa della superficie, percepì la vita scorrere in sé, suille punte delle dita, sui capezzoli, dentro i suoi stessi occhi... e quando rialzò la fronte grondante da quel mondo sommerso, restò a mirare le orde di flutti che si formavano in superficie, e che si scavalcavano, si scontravano e si reimmergevano.
Ma il suono che le acque producevano era ciò che più lo colpiva, sotto quell'intero cielo zaffiro:
in quell'ora così cromaticamente immobile, nulla avrebbe dovuto udirsi. Ed invece, era tutto ciò che si poteva ascoltare. E poi gli sembrò, gli parve, sì, di richiamare alla mente che...

quel rumore era l'unico che sapesse di puro, di ancestrale, di accordato con sé, che avesse mai udito!

Un volto apparve sullo specchio argenteo. Era sé, ma su quella superficie così movimentata gli perve di non esserlo ancora, di doverlo diventare, come un'immagine da un possibile futuro.
Immerse la mano, ma l'immagine cessò, scomparve da dove era venuta.

“arrivederci” disse Mio. Non avrebbe dimenticato.

Una presenza si intrufolò in quello spazio dell'anima. Mio si voltò. Un elefante adulto stava a qualche passo da lui. Ne percepì l'essere, e lo guardò negli occhi.
Era sera, l'elefante alzò il passo su strade caleidoscopiche... le sue. Un altro pezzo della storia che stava vivendo attorno a loro, della vita che osservava, delle acque che continuavano la loro corsa.

Mio sorrise e si incamminò verso quella notte, che pareva aver trovato un compromesso col tempo. Verso altre Acquerapide.
Verso quel volto smarrito.


(Con questa inventai il mio nick)