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Discussione: comunismo e integrazione

  1. #1
    Opinionista
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    comunismo e integrazione

    chiedo a tutti:
    come vedete il rapporto tra partiti della sinistra in italia e integrazione degli immigrati? che tipo di soluzioni ci potrebbero essere al problema della integrazione dal punto di vista delle sinistre?
    Ultima modifica di sandor; 21-03-2019 alle 03:41

  2. #2
    Opinionista
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    http://https://www.linkiesta.it/it/a...razione/39644/

    questo mi sembra un buon modello di politica integrativa...se non altro per la plasticità dell' impatto a livello immagine...
    Ultima modifica di sandor; 21-03-2019 alle 10:27

  3. #3
    Opinionista L'avatar di axeUgene
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    chi migra, stabilmente, non l'emigrante temporaneo, lo fa sempre - anche inconsapevolmente - per il rifiuto di quello che ha a casa e perché preferisce le opportunità del paese ospite; se la persona è intelligente - come di solito è chi emigra, perché servono adattabilità, energia mentale, capacità, per superare l'abitudine - si innamora del suo nuovo ambiente e cultura, si assimila, ne assume i pregi che sono intrinseci alla sua scelta; certo, ci vuole tempo, non avviene in un giorno;

    quello che può fare l'ospite, per favorire questo processo, è evitare i ghetti, istituzionali o sostanziali, dove si crea un conflitto di assimilazione che ritarda i processi e rafforza le identità conflittuali, anziché diluirle, sovrappone identità etniche, culturali, sociali e religiose in modo devastante, oltre quanto sarebbe inevitabile;

    il modello francese e inglese sono stati poco felici, perché al pregresso coloniale, coi sottintesi gerarchici e conflittuali del caso, si è sovrapposta una ghettizzazione materiale nei centri urbani, e sociale quanto ad opportunità di istruzione, lavoro, ecc... lasciando grosse comunità maghrebine o orientali in un proprio spazio distinto in cui il processo di assimilazione ai valori comuni è stato più difficile;

    in Italia abbiamo avuto la storia di due modelli contrapposti di immigrazione interna, Torino e Milano, tra gli anni '50 e '60; nel primo caso, c'era una città più piccola, nella quale l'industria automobilistica in espansione ha richiesto manodopera in tempi brevissimi, tutta omogeneamente dedita al lavoro operaio, concentrata in quartieri nuovi e percepita come potenzialmente ostile e indigeribile per diversi decenni, distinguibile proprio sulla base dei rafforzativi identitari attribuiti dal lavoro, dal costume, ecc...
    nel secondo caso, quello milanese, c'era pure un enorme emigrazione meridionale, dalle stesse regioni, e pure spesso concentrata in quartieri periferici, più o meno ghetti: Gratosoglio, Lorenteggio, Baggio, Cinisello, Sesto e tanti altri della cintura... ma con due grandi differenze:

    Milano e hinterland erano già molto più grandi e popolose di Torino, con già un pregresso notevole di immigrazione da altre province lombarde, dal Veneto, dalla Toscana e dall'Umbria, mentre a Torino in passato c'erano stati solo un po' di veneti, immigrati per povertà e detti "giapponesi" dai locali, per via dei tanti figli;

    in secondo luogo, se una gran parte degli immigrati meridionali a Milano è finita come a Torino a lavorare nell'industria, le dimensioni e la vocazione di quella città erano molto diverse, con una forte domanda di terziario e servizi; perciò, molta di quell'emigrazione, invece di finire reclusa nel percorso quotidiano di apartheid del filobus-fabbrica e ritorno al ghetto, rimanendo a lungo separata ed estranea, ha trovato collocazione nel commercio, nella ristorazione, nell'artigianato diffuso;
    a Milano, già negli anni 40, accanto alle "latterie", dove si cenava, c'erano i "trani", osterie di pugliesi, spesso di quel paese;

    poi, oltre ai ristoratori da tutto il sud, sono arrivati i sarti, i calzolai lucani, i merciai di Maglie e tante altre attività diffuse sul territorio, il tabacchino calabrese, ma anche i professionisti, soprattutto nel ramo legale, che richiamavano un flusso costante di persone di ceti e attitudini diverse, che si integravano facilmente a titolo individuale, più che come "classe" sociale operaia ghettizzata;
    cioè, l'impiegato autoctono negli anni '60 aveva molte più occasioni di conoscere e apprezzare il valore di quei nuovi arrivati, la sera in trattoria, al bar, quando si rivolgeva ad un bravo artigiano o al negozio di ortofrutta sotto casa; in pochissimo tempo si sono dissipate tutte le diffidenze e i pregiudizi, perché gli stessi immigrati erano gratificati e comprese nel loro nuovo ruolo sociale, che apriva opportunità e li emancipava dalla mera condizione operaia, l'identità separata; questo valeva anche per gli stessi operai, che in quella città si sentivano solo una delle componenti, vedendosi anche rappresentati da altri ceti, quindi non ghettizzati;

    oggi, posto che i milanesi privi di qualsiasi ascendenza meridionale sono pochini, il sentimento consolidato in tutti è che una gran parte della grandezza ed efficienza della città si debba all'intraprendenza e alle capacità di quei 5 o 6 milioni di immigrati meridionali che vivono nell'area della Grande Milano;

    ecco, se dovessimo pensare all'integrazione, credo che questa storia sarebbe una lezione utile.
    c'� del lardo in Garfagnana

  4. #4
    abstract L'avatar di Yele
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