Il locale strabordante di corpi sudati, la musica sparata ad un volume al limite della legalità, le luci soffuse, mi faccio largo verso il bancone nella vana speranza di riuscire a conquistare un cocktail passando inosservata. Ma quando il bar è la tua seconda casa, questo risulta quantomeno improbabile, così ti ritrovi ad annuire e dispensare finti sorrisi nonostante tu sia li proprio perché non vuoi avere a che fare con niente e nessuno che non sia un bicchiere pieno di parecchio alcol.
Il barista mi lancia un’occhiata consapevole e mi mette davanti un bicchiere pieno fino all’orlo di liquido ambrato: la mia ancora di salvezza, il mio momento di fuga dal mondo. Appollaiata sullo sgabello ingollo un’abbondante sorsata godendo del calore improvviso che essa mi provoca mentre l’alcol mi scorre dentro il corpo.
Mi concentro sulla musica, mi lascio prendere dalle vibrazioni dei bassi, svuoto la mente, cacciando i pensieri negli angoli più reconditi. Non voglio pensare. Non voglio soffermarmi su nulla di più profondo del livello di whisky rimasto nel mio bicchiere. Che, a proposito, è vuoto. Il barista è lontano e le voci nella mia mente rischiano di tornare alla carica.
E’ in quel momento che i nostri sguardi si incrociano per un momento fugace. Lui, occhi scurissimi e sorriso scintillante, è appoggiato al bancone, a un paio di metri da me. Avverto come una scossa elettrica lungo la spina dorsale, mentre lo osservo avvicinarsi. Lui mi conosce, sa che non mi deve fare domande, eppure percepisco che vorrebbe dire qualcosa. Invece chiama il barista e ordina altri due drink, sedendosi sullo sgabello accanto al mio. Beviamo in silenzio. Non lo guardo, ma so che mi sta osservando, gli occhi come due tizzoni ardenti. Finisco di bere e mi alzo. Lui mi segue. Ci avviamo fuori dal locale, lasciandoci alle spalle la musica e la gente.