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Discussione: Si fa sera...

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  1. #11
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    axeUgene ha scritto: “che un giovane che apprenda dai genitori che la vita è nevrosi che porta a diventare soloni torvi e pessimisti, ha poca voglia di emularli”.

    Ciao axe, in merito alla tua frase permettimi questa riflessione, anche se esce parzialmente dal "seminato".

    Il pensiero nichilista a quale pratica esistenziale e sociale corrisponde? A idee deboli, personali, provvisorie come ipotesi da testare sul campo, ma non proprio fondate sul nulla.

    Oltre al vuoto esistenziale nichilista, c’è la buddista Śūnyatā (= vacuità) e il “nulla apparente”.

    La vacuità non è la “nullità”. Non significa che nulla esiste, ma che proiettiamo la nostra immaginazione su come ogni cosa esista, però non corrisponde alla realtà.

    Le persone si auto-creano problemi e sofferenze. Ad esempio, se l’individuo si convince che è un “perdente”, a prescindere da quello che fa, non potrà mai avere successo nella vita. La bassa autostima lo induce alla depressione, smette di provare a migliorarsi, si rassegna ad un’umile quotidianità. Ma “perdente” è soltanto una parola e un concetto. Può essere che abbia fallito soltanto alcune volte nella vita, però si crede un incapace perché è un perfezionista. Mentalmente si auto-inserisce in una scatola con la scritta “perdenti”, a prescindere dalle cose positive fatte nella vita.
    Se si pensa alla vacuità dell’esistere come un perdente, si comprende che è irreale.

    Quando si dice che tutti i valori non hanno un fondamento assoluto, poi, di fatto, si finisce con avere e usare valori fondati comunque su qualcosa (non sul nulla); non si deve scambiare il poco e il debole con il nulla.

    Non siamo al cospetto del Nulla, che avrebbe un suo titanismo filosofico, ma immersi nella caducità della contingenza (impermanenza), che è sempre meglio del niente.

    Con la crisi di credibilità delle “tavole dei valori firmate dagli dei”, più che di nichilismo come "vittoria del nulla", si tratta forse di pigrizia mentale (più che di noluntas) nel dover far fronte, senza autorevoli istruzioni per l'uso ad una realtà sempre più complessa, mutevole, plurale e quindi polisemica.

    Ma la domanda culturale è: l’individuo può dimenticare le domande fondamentali sul proprio senso esistenziale, vedendo esso stesso nascere e morire in continuazione, secondo la regola naturale? Può accettare la precarietà come condizione di senso della propria vita?
    Ultima modifica di doxa; 22-10-2019 alle 08:47

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