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Discussione: Leopardi - Canti

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  1. #1
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    Leopardi - Canti

    Pubblico dominio 14 giugno 1907

    Metterò tutti i Canti e qualcosa in più.

    Nell'ordine dell' edizione definitiva parigina postuma del 1845, a cura di Antonio Ranieri.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 08:16
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  2. #2
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    Indice dei Canti di Giacomo Leopardi (Centro naz. studi leopardiani)

    http://www.leopardi.it/canti.php

    I ALL' ITALIA
    II SOPRA IL MONUMENTO Dl DANTE CHE Sl PREPARAVA IN FIRENZE
    III AD ANGELO MAI, QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI Dl CICERONE DELLA REPUBBLICA
    IV NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA
    V A UN VINCITORE NEL PALLONE
    VI BRUTO MINORE
    VII ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE
    VIII INNO AI PATRIARCHI, O DE' PRINCIPI DEL GENERE UMANO
    IX ULTIMO CANTO Dl SAFFO
    X IL PRIMO AMORE
    XI IL PASSERO SOLITARIO
    XII L'INFINITO
    XIII LA SERA DEL DI Dl FESTA
    XIV ALLA LUNA
    XV IL SOGNO
    XVI LA VITA SOLITARIA
    XVII CONSALVO
    XVIII ALLA SUA DONNA
    XIX AL CONTE CARLO PEPOLI
    XX IL RISORGIMENTO
    XXI A SILVIA
    XXII LE RICORDANZE
    XXIII CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
    XXIV LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
    XXV IL SABATO DEL VILLAGGIO
    XXVI IL PENSIERO DOMINANTE
    XXVII AMORE E MORTE
    XXVIII A SE STESSO
    XXIX ASPASIA
    XXX SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA E' RAPPRESENTATA IN ATTO Dl PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DAI SUOI
    XXXI SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA
    XXXII PALINODIA. Al marchese Gino Capponi
    XXXIII IL TRAMONTO DELLA LUNA
    XXXIV LA GINESTRA, O IL FIORE DEL DESERTO
    XXXV IMITAZIONE
    XXXVI SCHERZO

    FRAMMENTI
    XXXVII "ODI, MELISSO"
    XXXVIII "IO QUI VAGANDO"
    XXXIX "SPENTO IL DIURNO RAGGIO"
    XL DAL GRECO DI SIMONIDE
    XLI DELLO STESSO



    Bonus aggiunti da me: I nuovi credenti - Ad Arimane (abbozzo di inno)



    AD ARIMANE

    (1835)


    Re delle cose, autor del mondo, arcana
    malvagità, sommo potere e somma
    intelligenza, eterno
    dator de' mali e reggitor del moto,


    io non so se questo ti faccia felice; ma mira e godi, ecc., contemplando eternamente, ecc.

    Produzione e distruzione, ecc. Per uccider partorisce, ecc. Sistema del mondo, tutto patimenti. Natura è come un bambino, che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: Amore.

    I selvaggi e le tribù primitive, sotto diverse forme, non riconoscono che te. Ma i popoli civili, ecc.

    Te con diversi nomi il volgo appella
    Fato, Natura e Dio.

    Ma tu sei Arimane, tu quello che, ecc.

    E il mondo civile t'invoca.

    Taccio le tempeste, le pesti, ecc., tuoi doni, ché altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci.

    E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l'opra tua rimane immutabile, perché per natura dell'uomo sempre regneranno l'ardimento e l'inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso, ecc. ecc.

    Vivi, Arimane, e trionfi, e sempre trionferai.

    Invidia dagli antichi attribuita agli dèi verso gli uomini.

    Animali destinati in cibo. Serpente boa. Nume pietoso, ecc.

    Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l'amore? per travagliarci col desiderio, con confronto degli altri e del tempo nostro passato, ecc.?

    Io non so se tu ami le lodi o le bestemmie, ecc. Tua lode sani il pianto, testimonio del nostro patire. Pianto da me per certo tu non avrai : ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà, ecc.

    Ma io non mi rassegnerò, ecc.

    Se mai grazia fu chiesta ad Arimane, ecc., concedimi ch'io non passi il settimo lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predicatore, ecc., l'apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quello che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de' mali, la morte. (Non ti chiedo ricchezze, ecc., non amore, sola causa degna di vivere, ecc.). Non posso, non posso più della vita.


    Cfr. anche A sé stesso "il brutto poter che ascoso, a comun danno impera"

    I NUOVI CREDENTI


    Ranieri mio, le carte ove l’umana
    vita esprimer tentai, con Salomone
    lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
    spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
    da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
    e spiaccion per Toledo alle persone.
    Di Chiaia la Riviera, e quei che il suolo
    impinguan del Mercato, e quei che vanno
    per l’erte vie di San Martino a volo;
    Capodimonte, e quei che passan l’anno
    in sul Caffé d’Italia, e in breve, accesa
    d’un concorde voler, tutta in mio danno
    s’arma Napoli a gara alla difesa
    de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
    anteposto il morir, troppo le pesa.
    E comprender non sa, quando son buoni,
    come per virtú lor non sien felici
    borghi, terre, province e nazioni.
    Che dirò delle triglie e delle alici?
    Qual puoi bramar felicitá piú vera
    che far d’ostriche scempio infra gli amici?
    Sallo Santa Lucia, quando la sera,
    poste le mense al lume delle stelle,
    vede accorrer le genti a schiera a schiera,


    e di frutta di mare empier la pelle.
    Ma di tutte maggior, piena d’affanno,
    alla vendetta delle cose belle
    sorge la voce di color che sanno,
    e che insegnano altrui dentro ai confini
    che il Liri e un doppio mar battendo vanno.
    Palpa la coscia, ed i pagati crini
    scompiglia in su la fronte, e con quel fiato
    soave, onde attoscar suole i vicini,
    incontro al dolor mio dal labbro armato
    vibra d’alte sentenze acuti strali
    il valoroso Elpidio; il qual beato
    dell’amor d’una dea che batter l’ali
    vide giá dieci lustri, i suoi contenti
    a gran ragione omai crede immortali.
    Uso giá contra il ciel torcere i denti
    finché piacque alla Francia; indi veduto
    altra moda regnar, mutati i venti,
    alla pietá si volse, e conosciuto
    il ver senz’altre scorte, arse di zelo,
    e d’empio a me dá nome e di perduto.
    E le giovani donne e l’evangelo
    canta, e le vecchie abbraccia, e la mercede
    di sua molta virtú spera nel cielo.
    Pende dal labbro suo con quella fede
    che il bimbo ha nel dottor, levando il muso
    che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,
    Galerio, il buon garzon, che ognor deluso
    cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio,
    che da Venere il fato avealo escluso.
    Per sempre escluso: ed ei contento e pio,
    loda i raggi del dí, loda la sorte
    del gener nostro, e benedice Iddio.
    E canta; ed or le sale ed or la corte
    empiendo d’armonia, suole in tal forma
    dilettando se stesso, altrui dar morte.

    Ed oggi del suo duca egli su l’orma
    movendo, incontro a me fulmini elice
    dal casto petto, che da lui s’informa.
    — Bella Italia, bel mondo, etá felice,
    dolce stato mortal! — grida tossendo
    un altro, come quei che sogna e dice;
    a cui per l’ossa e per le vene orrendo
    veleno andò giá sciolto, or va commisto
    con Mercurio ed andrá sempre serpendo.
    Questi e molti altri, che nimici a Cristo
    fûro insin oggi, il mio parlare offende,
    perché il vivere io chiamo arido e tristo.
    E in odio mio, fedel tutta si rende
    questa falange, e santi detti scocca
    contra chi Giobbe e Salomon difende.
    Racquetatevi, amici. A voi non tocca
    dell’umana miseria alcuna parte,
    che misera non è la gente sciocca.
    Né dissi io questo, o se pur dissi, all’arte
    non sempre appieno esce l’intento, e spesso
    la penna un poco dal pensier si parte.
    Or mia sentenza dichiarando, espresso
    dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna
    non è dagli astri alcun poter concesso.
    Non al dolor, perché alla vostra cuna
    assiste, e poi sull’asinina stampa
    il piè per ogni via pon la fortuna.
    E se talor la vostra vita inciampa,
    come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio
    90il non sentire e il non saper vi scampa.
    Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio
    rompon l’alme ben nate; a voi tal male
    narrare indarno e non inteso io soglio.
    Portici, San Carlin, Villa reale,
    Toledo, e l’arte onde barone è Vito,
    e quella onde la donna in alto sale,


    pago fanno ad ogni or vostro appetito,
    e il cor, che né gentil cosa, né rara,
    né il bel sognò giammai, né l’infinito.
    Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
    a cui grava il morir; noi femminette,
    cui la morte è in desio, la vita amara.
    Voi saggi, voi felici: anime elette
    a goder delle cose: in voi natura
    le intenzioni sue vide perfette.
    Degli uomini e del ciel delizia e cura
    sarete sempre, infin che stabilita
    ignoranza e sciocchezza in cuor vi dura:
    e durerá, mi penso, almeno in vita.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 10:41
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  3. #3
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    AGLI AMICI SUOI


    DI TOSCANA.
    (1831)





    La mia favola breve è già compita,
    E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.
    petrarca.

    [p. 5]




    Amici miei cari,











    Firenze 15 Dicembre 1830.




    Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai [p. 6]che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia [p. 7]infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m’è in luogo degli studi, e in luogo d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant’io vorrei, e s’io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio.

    Il vostro Leopardi.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  4. #4
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    I - ALL'ITALIA

    O patria mia, vedo le mura e gli archi
    E le colonne e i simulacri e l'erme
    Torri degli avi nostri,
    Ma la gloria non vedo,
    Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
    I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
    Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
    Oimè quante ferite,
    Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
    Formosissima donna! Io chiedo al cielo
    E al mondo: dite dite;
    Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
    Che di catene ha carche ambe le braccia;
    Sì che sparte le chiome e senza velo
    Siede in terra negletta e sconsolata,
    Nascondendo la faccia
    Tra le ginocchia, e piange.
    Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
    Le genti a vincer nata
    E nella fausta sorte e nella ria.

    Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
    Mai non potrebbe il pianto
    Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
    Che fosti donna, or sei povera ancella.
    Chi di te parla o scrive,
    Che, rimembrando il tuo passato vanto,
    Non dica: già fu grande, or non è quella?
    Perchè, perchè? dov'è la forza antica,
    Dove l'armi e il valore e la costanza?
    Chi ti discinse il brando?
    Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
    O qual tanta possanza
    Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
    Come cadesti o quando
    Da tanta altezza in così basso loco?
    Nessun pugna per te? non ti difende
    Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
    Combatterò, procomberò sol io.
    Dammi, o ciel, che sia foco
    Agl'italici petti il sangue mio.

    Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
    E di carri e di voci e di timballi:
    In estranie contrade
    Pugnano i tuoi figliuoli.
    Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
    Un fluttuar di fanti e di cavalli,
    E fumo e polve, e luccicar di spade
    Come tra nebbia lampi.
    Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
    Piegar non soffri al dubitoso evento?
    A che pugna in quei campi
    L'Itala gioventude? O numi, o numi:
    Pugnan per altra terra itali acciari.
    Oh misero colui che in guerra è spento,
    Non per li patrii lidi e per la pia
    Consorte e i figli cari,
    Ma da nemici altrui,
    Per altra gente, e non può dir morendo:
    Alma terra natia,
    La vita che mi desti ecco ti rendo.

    Oh venturose e care e benedette
    L'antiche età, che a morte
    Per la patria correan le genti a squadre;
    E voi sempre onorate e gloriose,
    O tessaliche strette,
    Dove la Persia e il fato assai men forte
    Fu di poch'alme franche e generose!
    Io credo che le piante e i sassi e l'onda
    E le montagne vostre al passeggere
    Con indistinta voce
    Narrin siccome tutta quella sponda
    Coprìr le invitte schiere
    De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
    Allor, vile e feroce,
    Serse per l'Ellesponto si fuggia,
    Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
    E sul colle d'Antela, ove morendo
    Si sottrasse da morte il santo stuolo,
    Simonide salia,
    Guardando l'etra e la marina e il suolo.

    E di lacrime sparso ambe le guance,
    E il petto ansante, e vacillante il piede,
    Toglieasi in man la lira:
    Beatissimi voi,
    Ch'offriste il petto alle nemiche lance
    Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
    Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
    Nell'armi e ne' perigli
    Qual tanto amor le giovanette menti,
    Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
    Come sì lieta, o figli,
    L'ora estrema vi parve, onde ridenti
    Correste al passo lacrimoso e duro?
    Parea ch'a danza e non a morte andasse
    Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
    Ma v'attendea lo scuro
    Tartaro, e l'onda morta;
    Nè le spose vi foro o i figli accanto
    Quando su l'aspro lito
    Senza baci moriste e senza pianto.

    Ma non senza de' Persi orrida pena
    Ed immortale angoscia.
    Come lion di tori entro una mandra
    Or salta a quello in tergo e sì gli scava
    Con le zanne la schiena,
    Or questo fianco addenta or quella coscia;
    Tal fra le Perse torme infuriava
    L'ira de' greci petti e la virtute.
    Ve' cavalli supini e cavalieri;
    Vedi intralciare ai vinti
    La fuga i carri e le tende cadute,
    E correr fra' primieri
    Pallido e scapigliato esso tiranno;
    Ve' come infusi e tinti
    Del barbarico sangue i greci eroi,
    Cagione ai Persi d'infinito affanno,
    A poco a poco vinti dalle piaghe,
    L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
    Beatissimi voi
    Mentre nel mondo si favelli o scriva.

    Prima divelte, in mar precipitando,
    Spente nell'imo strideran le stelle,
    Che la memoria e il vostro
    Amor trascorra o scemi.
    La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
    Verran le madri ai parvoli le belle
    Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
    O benedetti, al suolo,
    E bacio questi sassi e queste zolle,
    Che fien lodate e chiare eternamente
    Dall'uno all'altro polo.
    Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
    Fosse del sangue mio quest'alma terra.
    Che se il fato è diverso, e non consente
    Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
    Chiuda prostrato in guerra,
    Così la vereconda
    Fama del vostro vate appo i futuri
    Possa, volendo i numi,
    Tanto durar quanto la vostra duri.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 07:22
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  5. #5
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    II - SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE

    Perché le nostre genti
    Pace sotto le bianche ali raccolga,
    Non fien da' lacci sciolte
    Dell'antico sopor l'itale menti
    S'ai patrii esempi della prisca etade
    Questa terra fatal non si rivolga.
    O Italia, a cor ti stia
    Far ai passati onor; che d'altrettali
    Oggi vedove son le tue contrade,
    Nè v'è chi d'onorar ti si convegna.
    Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
    Quella schiera infinita d'immortali,
    E piangi e di te stessa ti disdegna;
    Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
    Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
    E ti punga una volta
    Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

    D'aria e d'ingegno e di parlar diverso
    Per lo toscano suol cercando gia
    L'ospite desioso
    Dove giaccia colui per lo cui verso
    Il meonio cantor non è più solo.
    Ed, oh vergogna! udia
    Che non che il cener freddo e l'ossa nude
    Giaccian esuli ancora
    Dopo il funereo dì sott'altro suolo,
    Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,
    Firenze, a quello per la cui virtude
    Tutto il mondo t'onora.
    Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso
    Obbrobrio laverà nostro paese!
    Bell'opra hai tolta e di ch'amor ti rende,
    Schiera prode e cortese,
    Qualunque petto amor d'Italia accende.

    Amor d'Italia, o cari,
    Amor di questa misera vi sproni,
    Ver cui pietade è morta
    In ogni petto omai, perciò che amari
    Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo.
    Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni
    Misericordia, o figli,
    E duolo e sdegno di cotanto affanno
    Onde bagna costei le guance e il velo.
    Ma voi di quale ornar parola o canto
    Si debbe, a cui non pur cure o consigli,
    Ma dell'ingegno e della man daranno
    I sensi e le virtudi eterno vanto
    Oprate e mostre nella dolce impresa?
    Quali a voi note invio, sì che nel core,
    Sì che nell'alma accesa
    Nova favilla indurre abbian valore?

    Voi spirerà l'altissimo subbietto,
    Ed acri punte premeravvi al seno.
    Chi dirà l'onda e il turbo
    Del furor vostro e dell'immenso affetto?
    Chi pingerà l'attonito sembiante?
    Chi degli occhi il baleno?
    Qual può voce mortal celeste cosa
    Agguagliar figurando?
    Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante
    Lacrime al nobil sasso Italia serba!
    Come cadrà? come dal tempo rosa
    Fia vostra gloria o quando?
    Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,
    Sempre vivete, o care arti divine,
    Conforto a nostra sventurata gente,
    Fra l'itale ruine
    Gl'itali pregi a celebrare intente.

    Ecco voglioso anch'io
    Ad onorar nostra dolente madre
    Porto quel che mi lice,
    E mesco all'opra vostra il canto mio,
    Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.
    O dell'etrusco metro inclito padre,
    Se di cosa terrena,
    Se di costei che tanto alto locasti
    Qualche novella ai vostri lidi arriva,
    Io so ben che per te gioia non senti,
    Che saldi men che cera e men ch'arena,
    Verso la fama che di te lasciasti,
    Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti
    Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,
    Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
    E in sempiterni guai
    Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.

    Ma non per te; per questa ti rallegri
    Povera patria tua, s'unqua l'esempio
    Degli avi e de' parenti
    Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
    Tanto valor che un tratto alzino il viso.
    Ahi, da che lungo scempio
    Vedi afflitta costei, che sì meschina
    Te salutava allora
    Che di novo salisti al paradiso!
    Oggi ridotta sì che a quel che vedi,
    Fu fortunata allor donna e reina.
    Tal miseria l'accora
    Qual tu forse mirando a te non credi.
    Taccio gli altri nemici e l'altre doglie;
    Ma non la più recente e la più fera,
    Per cui presso alle soglie
    Vide la patria tua l'ultima sera.

    Beato te che il fato
    A viver non dannò fra tanto orrore;
    Che non vedesti in braccio
    L'itala moglie a barbaro soldato;
    Non predar, non guastar cittadi e colti
    L'asta inimica e il peregrin furore;
    Non degl'itali ingegni
    Tratte l'opre divine a miseranda
    Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti
    Carri impedita la dolente via;
    Non gli aspri cenni ed i superbi regni;
    Non udisti gli oltraggi e la nefanda
    Voce di libertà che ne schernia
    Tra il suon delle catene e de' flagelli.
    Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto
    Che lasciaron quei felli?
    Qual tempio, quale altare o qual misfatto?

    Perchè venimmo a sì perversi tempi?
    Perchè il nascer ne desti o perchè prima
    Non ne desti il morire,
    Acerbo fato? onde a stranieri ed empi
    Nostra patria vedendo ancella e schiava,
    E da mordace lima
    Roder la sua virtù, di null'aita
    E di nullo conforto
    Lo spietato dolor che la stracciava
    Ammollir ne fu dato in parte alcuna.
    Ahi non il sangue nostro e non la vita
    Avesti, o cara; e morto
    Io non son per la tua cruda fortuna.
    Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:
    Pugnò, cadde gran parte anche di noi:
    Ma per la moribonda
    Italia no; per li tiranni suoi.

    Padre, se non ti sdegni,
    Mutato sei da quel che fosti in terra.
    Morian per le rutene
    Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,
    Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo
    E gli uomini e le belve immensa guerra.
    Cadeano a squadre a squadre
    Semivestiti, maceri e cruenti,
    Ed era letto agli egri corpi il gelo.
    Allor, quando traean l'ultime pene,
    Membrando questa desiata madre,
    Diceano: oh non le nubi e non i venti,
    Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,
    O patria nostra. Ecco da te rimoti,
    Quando più bella a noi l'età sorride,
    A tutto il mondo ignoti,
    Moriam per quella gente che t'uccide.

    Di lor querela il boreal deserto
    E conscie fur le sibilanti selve.
    Così vennero al passo,
    E i negletti cadaveri all'aperto
    Su per quello di neve orrido mare
    Dilaceràr le belve;
    E sarà il nome degli egregi e forti
    Pari mai sempre ed uno
    Con quel de' tardi e vili. Anime care,
    Bench'infinita sia vostra sciagura,
    Datevi pace; e questo vi conforti
    Che conforto nessuno
    Avrete in questa o nell'età futura.
    In seno al vostro smisurato affanno
    Posate, o di costei veraci figli,
    Al cui supremo danno
    Il vostro solo è tal che s'assomigli.

    Di voi già non si lagna
    La patria vostra, ma di chi vi spinse
    A pugnar contra lei,
    Sì ch'ella sempre amaramente piagna
    E il suo col vostro lacrimar confonda.
    Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse
    Pietà nascesse in core
    A tal de' suoi ch'affaticata e lenta
    Di sì buia vorago e sì profonda
    La ritraesse! O glorioso spirto,
    Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?
    Dì: quella fiamma che t'accese, è spenta?
    Dì: nè più mai rinverdirà quel mirto
    Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?
    Nostre corone al suol fien tutte sparte?
    Nè sorgerà mai tale
    Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

    In eterno perimmo? e il nostro scorno
    Non ha verun confine?
    Io mentre viva andrò sclamando intorno,
    Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
    Mira queste ruine
    E le carte e le tele e i marmi e i templi;
    Pensa qual terra premi; e se destarti
    Non può la luce di cotanti esempli,
    Che stai? levati e parti.
    Non si conviene a sì corrotta usanza
    Questa d'animi eccelsi altrice e scola:
    Se di codardi è stanza,
    Meglio l'è rimaner vedova e sola.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 07:26
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  6. #6
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    XVII - CONSALVO

    Presso alla fin di sua dimora in terra,
    Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
    Del suo destino; or già non più, che a mezzo
    Il quinto lustro, gli pendea sul capo
    Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
    Così giacea nel funeral suo giorno
    Dai più diletti amici abbandonato:
    Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
    Resta a colui che della terra è schivo.
    Pur gli era al fianco, da pietà condotta
    A consolare il suo deserto stato,
    Quella che sola e sempre eragli a mente,
    Per divina beltà famosa Elvira;
    Conscia del suo poter, conscia che un guardo
    Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
    Ben mille volte ripetuto e mille
    Nel costante pensier, sostegno e cibo
    Esser solea dell'infelice amante:
    Benchè nulla d'amor parola udita
    Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
    Era del gran desio stato più forte
    Un sovrano timor. Così l'avea
    Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

    Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
    Alla sua lingua. Poichè certi i segni
    Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
    Lei, già mossa a partir, presa per mano,
    E quella man bianchissima stringendo,
    Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
    Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
    Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
    Qual maggior grazia mai delle tue cure
    Dar possa il labbro mio. Premio daratti
    Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
    Impallidia la bella, e il petto anelo
    Udendo le si fea: che sempre stringe
    All'uomo il cor dogliosamente, ancora
    Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
    Addio per sempre. E contraddir voleva,
    Dissimulando l'appressar del fato,
    Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
    Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
    Come sai, ripregata a me discende,
    Non temuta, la morte; e lieto apparmi
    Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
    Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
    Parto da te. Mi si divide il core
    In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
    Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
    Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
    Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
    In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
    Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi
    Potrò del dono, io semispento, a cui
    Straniera man le labbra oggi fra poco
    Eternamente chiuderà. Ciò detto
    Con un sospiro, all'adorata destra
    Le fredde labbra supplicando affisse.

    Stette sospesa e pensierosa in atto
    La bellissima donna; e fiso il guardo,
    Di mille vezzi sfavillante, in quello
    Tenea dell'infelice, ove l'estrema
    Lacrima rilucea. Nè dielle il core
    Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
    Rinacerbir col niego; anzi la vinse
    Misericordia dei ben noti ardori.
    E quel volto celeste, e quella bocca,
    Già tanto desiata, e per molt'anni
    Argomento di sogno e di sospiro,
    Dolcemente appressando al volto afflitto
    E scolorato dal mortale affanno,
    Più baci e più, tutta benigna e in vista
    D'alta pietà, su le convulse labbra
    Del trepido, rapito amante impresse.

    Che divenisti allor? quali appariro
    Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
    Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
    Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
    Postasi al cor, che gli ultimi battea
    Palpiti della morte e dell'amore,
    Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
    In su la terra ancor; ben quelle labbra
    Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
    Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
    Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
    Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
    Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
    Non a te, non altrui; che non si cela
    Vero amore alla terra. Assai palese
    Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
    Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
    Muto sarebbe l'infinito affetto
    Che governa il cor mio, se non l'avesse
    Fatto ardito il morir. Morrò contento
    Del mio destino omai, nè più mi dolgo
    Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
    Poscia che quella bocca alla mia bocca
    Premer fu dato. Anzi felice estimo
    La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
    Amore e morte. All'una il ciel mi guida
    In sul fior dell'età; nell'altro, assai
    Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
    Solo una volta il lungo amor quieto
    E pago avessi tu, fora la terra
    Fatta quindi per sempre un paradiso
    Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
    L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto
    Con riposato cor: che a sostentarla
    Bastato sempre il rimembrar sarebbe
    D'un solo istante, e il dir: felice io fui
    Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
    Esser beato non consente il cielo
    A natura terrena. Amar tant'oltre
    Non è dato con gioia. E ben per patto
    In poter del carnefice ai flagelli,
    Alle ruote, alle faci ito volando
    Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
    Nel paventato sempiterno scempio.

    O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
    Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
    Il sorriso d'amor! felice appresso
    Chi per te sparga con la vita il sangue!
    Lice, lice al mortal, non è già sogno
    Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
    Provar felicità. Ciò seppi il giorno
    Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
    Questo m'accadde. E non però quel giorno
    Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
    Quel fiero giorno biasimar sostenni.

    Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
    Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
    Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
    Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
    Dal misero Consalvo in sì gran tempo
    Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
    Come al nome d'Elvira, in cor gelando,
    Impallidir; come tremar son uso
    All'amaro calcar della tua soglia,
    A quella voce angelica, all'aspetto
    Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!
    Ma la lena e la vita or vengon meno
    Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
    Nè questo dì rimemorar m'è dato.
    Elvira, addio. Con la vital favilla
    La tua diletta immagine si parte
    Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
    Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
    Dimani all'annottar manda un sospiro.
    Tacque: nè molto andò, che a lui col suono
    Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
    Suo dì felice gli fuggia dal guardo.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  7. #7
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    XIX - AL CONTE CARLO PEPOLI

    Questo affannoso e travagliato sonno
    Che noi vita nomiam, come sopporti,
    Pepoli mio? di che speranze il core
    Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
    O gioconde o moleste opre dispensi
    L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
    Grave retaggio e faticoso? E' tutta,
    In ogni umano stato, ozio la vita,
    Se quell'oprar, quel procurar che a degno
    Obbietto non intende, o che all'intento
    Giunger mai non potria, ben si conviene
    Ozioso nomar. La schiera industre
    Cui franger glebe o curar piante e greggi
    Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
    Se oziosa dirai, da che sua vita
    E' per campar la vita, e per se sola
    La vita all'uom non ha pregio nessuno,
    Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
    Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
    Sudar nelle officine, ozio le vegghie
    Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
    E il mercatante avaro in ozio vive:
    Che non a se, non ad altrui, la bella
    Felicità, cui solo agogna e cerca
    La natura mortal, veruno acquista
    Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
    Pure all'aspro desire onde i mortali
    Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
    D'esser beati sospiraro indarno,
    Di medicina in loco apparecchiate
    Nella vita infelice avea natura
    Necessità diverse, a cui non senza
    Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
    Poi che lieto non può, corresse il giorno
    All'umana famiglia; onde agitato
    E confuso il desio, men loco avesse
    Al travagliarne il cor. Così de' bruti
    La progenie infinita, a cui pur solo,
    Nè men vano che a noi, vive nel petto
    Desio d'esser beati; a quello intenta
    Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
    Condur si scopre e men gravoso il tempo,
    Nè la lentezza accagionar dell'ore.
    Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
    Provveder commettiamo, una più grave
    Necessità, cui provveder non puote
    Altri che noi, già senza tedio e pena
    Non adempiam: necessitate, io dico,
    Di consumar la vita: improba, invitta
    Necessità, cui non tesoro accolto,
    Non di greggi dovizia, o pingui campi,
    Non aula puote e non purpureo manto
    Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
    I vóti anni prendendo, e la superna
    Luce odiando, l'omicida mano,
    I tardi fati a prevenir condotto,
    In se stesso non torce; al duro morso
    Della brama insanabile che invano
    Felicità richiede, esso da tutti
    Lati cercando, mille inefficaci
    Medicine procaccia, onde quell'una
    Cui natura apprestò, mal si compensa.
    Lui delle vesti e delle chiome il culto
    E degli atti e dei passi, e i vani studi
    Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
    Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
    Lui giochi e cene e invidiate danze
    Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
    Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
    Nell'imo petto, grave, salda, immota
    Come colonna adamantina, siede
    Noia immortale, incontro a cui non puote
    Vigor di giovanezza, e non la crolla
    Dolce parola di rosato labbro,
    E non lo sguardo tenero, tremante,
    Di due nere pupille, il caro sguardo,
    La più degna del ciel cosa mortale.

    Altri, quasi a fuggir volto la trista
    Umana sorte, in cangiar terre e climi
    L'età spendendo, e mari e poggi errando,
    Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
    Degli spazi che all'uom negl'infiniti
    Campi del tutto la natura aperse,
    Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
    Su l'alte prue la negra cura, e sotto
    Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
    Felicità, vive tristezza e regna.

    Havvi chi le crudeli opre di marte
    Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
    Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
    Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
    Con far misero altrui far se men tristo,
    Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
    E chi virtute o sapienza ed arti
    Perseguitando; e chi la propria gente
    Conculcando e l'estrane, o di remoti
    Lidi turbando la quiete antica
    Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
    La destinata sua vita consuma.

    Te più mite desio, cura più dolce
    Regge nel fior di gioventù, nel bello
    April degli anni, altrui giocondo e primo
    Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
    A chi patria non ha. Te punge e move
    Studio de' carmi e di ritrar parlando
    Il bel che raro e scarso e fuggitivo
    Appar nel mondo, e quel che più benigna
    Di natura e del ciel, fecondamente
    A noi la vaga fantasia produce
    E il nostro proprio error. Ben mille volte
    Fortunato colui che la caduca
    Virtù del caro immaginar non perde
    Per volger d'anni; a cui serbare eterna
    La gioventù del cor diedero i fati;
    Che nella ferma e nella stanca etade,
    Così come solea nell'età verde,
    In suo chiuso pensier natura abbella,
    Morte, deserto avviva. A te conceda
    Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
    La favilla che il petto oggi ti scalda,
    Di poesia canuto amante. Io tutti
    Della prima stagione i dolci inganni
    Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
    Le dilettose immagini, che tanto
    Amai, che sempre infino all'ora estrema
    Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
    Or quando al tutto irrigidito e freddo
    Questo petto sarà, nè degli aprichi
    Campi il sereno e solitario riso,
    Nè degli augelli mattutini il canto
    Di primavera, nè per colli e piagge
    Sotto limpido ciel tacita luna
    Commoverammi il cor; quando mi fia
    Ogni beltate o di natura o d'arte,
    Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
    Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
    Del mio solo conforto allor mendico,
    Altri studi men dolci, in ch'io riponga
    L'ingrato avanzò della ferrea vita,
    Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
    Destini investigar delle mortali
    E dell'eterne cose; a che prodotta,
    A che d'affanni e di miserie carca
    L'umana stirpe; a quale ultimo intento
    Lei spinga il fato e la natura; a cui
    Tanto nostro dolor diletti o giovi:
    Con quali ordini e leggi a che si volva
    Questo arcano universo; il qual di lode
    Colmano i saggi, io d'ammirar sono pago.

    In questo specolar gli ozi traendo
    Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
    Ha suoi diletti il vero. E se del vero
    Ragionando talor, fieno alle genti
    O mal grati i miei detti o non intesi,
    Non mi dorrò, che già del tutto il vago
    Desio di gloria antico in me fia spento:
    Vana Diva non pur, ma di fortuna
    E del fato e d'amor, Diva più cieca.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  8. #8
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    XX - IL RISORGIMENTO

    Credei ch'al tutto fossero
    In me, sul fior degli anni,
    Mancati i dolci affanni
    Della mia prima età:
    I dolci affanni, i teneri
    Moti del cor profondo,
    Qualunque cosa al mondo
    Grato il sentir ci fa.

    Quante querele e lacrime
    Sparsi nel novo stato,
    Quando al mio cor gelato
    Prima il dolor mancò!
    Mancàr gli usati palpiti,
    L'amor mi venne meno,
    E irrigidito il seno
    di sospirar cessò!

    Piansi spogliata, esanime
    Fatta per me la vita;
    La terra inaridita,
    Chiusa in eterno gel;
    Deserto il dì; la tacita
    Notte più sola e bruna;
    Spenta per me la luna,
    Spente le stelle in ciel.

    Pur di quel pianto origine
    Era l'antico affetto:
    Nell'intimo del petto
    Ancor viveva il cor.
    Chiedea l'usate immagini
    La stanca fantasia;
    E la tristezza mia
    Era dolore ancor.

    Fra poco in me quell'ultimo
    dolore anco fu spento,
    E di più far lamento
    Valor non mi restò.
    Giacqui: insensato, attonito,
    Non dimandai conforto:
    Quasi perduto e morto,
    Il cor s'abbandonò.

    Qual fui! quanto dissimile
    Da quel che tanto ardore,
    Che sì beato errore
    Nutrii nell'alma un dì!
    La rondinella vigile,
    Alle finestre intorno
    Cantando al novo giorno,
    Il cor non mi ferì:

    Non all'autunno pallido
    In solitaria villa,
    La vespertina squilla,
    Il fuggitivo Sol.
    Invan brillare il vespero
    Vidi per muto calle,
    Invan sonò la valle
    Del flebile usignol.

    E voi, pupille tenere,
    Sguardi furtivi, erranti,
    Voi de' gentili amanti
    Primo, immortale amor,
    Ed alla mano offertami
    Candida ignuda mano,
    Foste voi pure invano
    Al duro mio sopor.

    D'ogni dolcezza vedovo,
    Tristo; ma non turbato,
    Ma placido il mio stato,
    Il volto era seren.
    Desiderato il termine
    Avrei del viver mio;
    Ma spento era il desio
    Nello spossato sen.

    Qual dell'età decrepita
    L'avanzo ignudo e vile,
    Io conducea l'aprile
    Degli anni miei così:
    Così quegl'ineffabili
    Giorni, o mio cor, traevi,
    Che sì fugaci e brevi
    Il cielo a noi sortì.

    Chi dalla grave, immemore
    Quiete or mi ridesta?
    Che virtù nova è questa,
    Questa che sento in me?
    Moti soavi, immagini,
    Palpiti, error beato,
    Per sempre a voi negato
    Questo mio cor non è?

    Siete pur voi quell'unica
    Luce de' giorni miei?
    Gli affetti ch'io perdei
    Nella novella età?
    Se al ciel, s'ai verdi margini,
    Ovunque il guardo mira,
    Tutto un dolor mi spira,
    Tutto un piacer mi dà.

    Meco ritorna a vivere
    La piaggia, il bosco, il monte;
    Parla al mio core il fonte,
    Meco favella il mar.
    Chi mi ridona il piangere
    Dopo cotanto obblio?
    E come al guardo mio
    Cangiato il mondo appar?

    Forse la speme, o povero
    Mio cor, ti volse un riso?
    Ahi della speme il viso
    Io non vedrò mai più.
    Proprii mi diede i palpiti,
    Natura, e i dolci inganni.
    Sopiro in me gli affanni
    L'ingenita virtù;

    Non l'annullàr: non vinsela
    Il fato e la sventura;
    Non con la vista impura
    L'infausta verità.
    Dalle mie vaghe immagini
    So ben ch'ella discorda:
    So che natura è sorda,
    Che miserar non sa.

    Che non del ben sollecita
    Fu, ma dell'esser solo:
    Purchè ci serbi al duolo,
    Or d'altro a lei non cal.
    So che pietà fra gli uomini
    Il misero non trova;
    Che lui, fuggendo, a prova
    Schernisce ogni mortal.

    Che ignora il tristo secolo
    Gl'ingegni e le virtudi;
    Che manca ai degni studi
    L'ignuda gloria ancor.
    E voi, pupille tremule,
    Voi, raggio sovrumano,
    So che splendete invano,
    Che in voi non brilla amor.

    Nessuno ignoto ed intimo
    Affetto in voi non brilla:
    Non chiude una favilla
    Quel bianco petto in se.
    Anzi d'altrui le tenere
    Cure suol porre in gioco;
    E d'un celeste foco
    Disprezzo è la mercè.

    Pur sento in me rivivere
    Gl'inganni aperti e noti;
    E de' suoi proprii moti
    Si maraviglia il sen.
    Da te, mio cor, quest'ultimo
    Spirto, e l'ardor natio,
    Ogni conforto mio
    Solo da te mi vien.
    Mancano, il sento, all'anima
    Alta, gentile e pura,
    La sorte, la natura,
    Il mondo e la beltà.
    Ma se tu vivi, o misero,
    Se non concedi al fato,
    Non chiamerò spietato
    chi lo spirar mi dà.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  9. #9
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    XXI - A SILVIA

    Silvia, rimembri ancora
    Quel tempo della tua vita mortale,
    Quando beltà splendea
    Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
    E tu, lieta e pensosa, il limitare
    Di gioventù salivi?

    Sonavan le quiete
    Stanze, e le vie dintorno,
    Al tuo perpetuo canto,
    Allor che all'opre femminili intenta
    Sedevi, assai contenta
    Di quel vago avvenir che in mente avevi.
    Era il maggio odoroso: e tu solevi
    Così menare il giorno.

    Io gli studi leggiadri
    Talor lasciando e le sudate carte,
    Ove il tempo mio primo
    E di me si spendea la miglior parte,
    D'in su i veroni del paterno ostello
    Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
    Ed alla man veloce
    Che percorrea la faticosa tela.
    Mirava il ciel sereno,
    Le vie dorate e gli orti,
    E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
    Lingua mortal non dice
    Quel ch'io sentiva in seno.

    Che pensieri soavi,
    Che speranze, che cori, o Silvia mia!
    Quale allor ci apparia
    La vita umana e il fato!
    Quando sovviemmi di cotanta speme,
    Un affetto mi preme
    Acerbo e sconsolato,
    E tornami a doler di mia sventura.
    O natura, o natura,
    Perchè non rendi poi
    Quel che prometti allor? perchè di tanto
    Inganni i figli tuoi?

    Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
    Da chiuso morbo combattuta e vinta,
    Perivi, o tenerella. E non vedevi
    Il fior degli anni tuoi;
    Non ti molceva il core
    La dolce lode or delle negre chiome,
    Or degli sguardi innamorati e schivi;
    Nè teco le compagne ai dì festivi
    Ragionavan d'amore

    Anche peria fra poco
    La speranza mia dolce: agli anni miei
    Anche negaro i fati
    La giovanezza. Ahi come,
    Come passata sei,
    Cara compagna dell'età mia nova,
    Mia lacrimata speme!
    Questo è quel mondo? questi
    I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
    Onde cotanto ragionammo insieme?
    Questa la sorte dell'umane genti?
    All'apparir del vero
    Tu, misera, cadesti: e con la mano
    La fredda morte ed una tomba ignuda
    Mostravi di lontano.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 19:32
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  10. #10
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    XXII - LE RICORDANZE

    Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
    Tornare ancor per uso a contemplarvi
    Sul paterno giardino scintillanti,
    E ragionar con voi dalle finestre
    Di questo albergo ove abitai fanciullo,
    E delle gioie mie vidi la fine.
    Quante immagini un tempo, e quante fole
    Creommi nel pensier l'aspetto vostro
    E delle luci a voi compagne! allora
    Che, tacito, seduto in verde zolla,
    Delle sere io solea passar gran parte
    Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
    Della rana rimota alla campagna!
    E la lucciola errava appo le siepi
    E in su l'aiuole, susurrando al vento
    I viali odorati, ed i cipressi
    Là nella selva; e sotto al patrio tetto
    Sonavan voci alterne, e le tranquille
    Opre de' servi. E che pensieri immensi,
    Che dolci sogni mi spiro' la vista
    Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
    Che di qua scopro, e che varcare un giorno
    Io mi pensava, arcani mondi, arcana
    Felicità fingendo al viver mio!
    Ignaro del mio fato, e quante volte
    Questa mia vita dolorosa e nuda
    Volentier con la morte avrei cangiato.

    Né mi diceva il cor che l'età verde
    Sarei dannato a consumare in questo
    Natio borgo selvaggio, intra una gente
    Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
    Argomento di riso e di trastullo,
    Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
    Per invidia non già, che non mi tiene
    Maggior di se, ma perché tale estima
    Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
    A persona giammai non ne fo segno.
    Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
    Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
    Tra lo stuol de' malevoli divengo:
    Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
    E sprezzator degli uomini mi rendo,
    Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
    Il caro tempo giovanil; più caro
    Che la fama e l'allor, più che la pura
    Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
    Senza un diletto, inutilmente, in questo
    Soggiorno disumano, intra gli affanni,
    O dell'arida vita unico fiore.

    Viene il vento recando il suon dell'ora
    Dalla torre del borgo. Era conforto
    Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
    Quando fanciullo, nella buia stanza,
    Per assidui terrori io vigilava,
    Sospirando il mattin. Qui non è cosa
    Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
    Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
    Dolce per se; ma con dolor sottentra
    Il pensier del presente, un van desio
    Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
    Quella loggia colà, volta agli estremi
    Raggi del dė; queste dipinte mura,
    Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
    Su romita campagna, agli ozi miei
    Porser mille diletti allor che al fianco
    M'era, parlando, il mio possente errore
    Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
    Al chiaror delle nevi, intorno a queste
    Ampie finestre sibilando il vento,
    Rimbombaro i sollazzi e le festose
    Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
    Mistero delle cose a noi si mostra
    Pien di dolcezza; indelibata, intera
    Il garzoncel, come inesperto amante,
    La sua vita ingannevole vagheggia,
    E celeste beltà fingendo ammira.

    O speranze, speranze; ameni inganni
    Della mia prima età! sempre, parlando,
    Ritorno a voi; che per andar di tempo,
    Per variar d'affetti e di pensieri,
    Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
    Son la gloria e l'onor; diletti e beni
    Mero desio; non ha la vita un frutto,
    Inutile miseria. E sebben vóti
    Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
    Il mio stato mortal, poco mi toglie
    La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
    A voi ripenso, o mie speranze antiche,
    Ed a quel caro immaginar mio primo;
    Indi riguardo il viver mio sė vile
    E sė dolente, e che la morte è quello
    Che di cotanta speme oggi m'avanza;
    Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
    Consolarmi non so del mio destino.
    E quando pur questa invocata morte
    Sarammi allato, e sarà giunto il fine
    Della sventura mia; quando la terra
    Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
    Fuggira' l'avvenir; di voi per certo
    Risovverrammi; e quell'imago ancora
    Sospirar mi farà, farammi acerbo
    L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
    Del dė fatal temperera' d'affanno.

    E già nel primo giovanil tumulto
    Di contenti, d'angosce e di desio,
    Morte chiamai più volte, e lungamente
    Mi sedetti colà su la fontana
    Pensoso di cessar dentro quell'acque
    La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
    Malor, condotto della vita in forse,
    Piansi la bella giovanezza, e il fiore
    De' miei poveri dė, che sė per tempo
    Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
    Sul conscio letto, dolorosamente
    Alla fioca lucerna poetando,
    Lamentai co' silenzi e con la notte
    Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
    In sul languir cantai funereo canto.
    [Ndr: cfr. L'appressamento della morte, 1818]

    Chi rimembrar vi può senza sospiri,
    O primo entrar di giovinezza, o giorni
    Vezzosi, inenarrabili, allor quando
    Al rapito mortal primieramente
    Sorridon le donzelle; a gara intorno
    Ogni cosa sorride; invidia tace,
    Non desta ancora ovver benigna; e quasi
    (Inusitata maraviglia!) il mondo
    La destra soccorrevole gli porge,
    Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
    Suo venir nella vita, ed inchinando
    Mostra che per signor l'accolga e chiami?
    Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
    Son dileguati. E qual mortale ignaro
    Di sventura esser può, se a lui già scorsa
    Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
    Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

    O Nerina! e di te forse non odo
    Questi luoghi parlar? caduta forse
    Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
    Che qui sola di te la ricordanza
    Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
    Questa Terra natal: quella finestra,
    Ond'eri usata favellarmi, ed onde
    Mesto riluce delle stelle il raggio,
    E' deserta. Ove sei, che più non odo
    La tua voce sonar, siccome un giorno,
    Quando soleva ogni lontano accento
    Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
    Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
    Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
    Il passar per la terra oggi è sortito,
    E l'abitar questi odorati colli.
    Ma rapida passasti; e come un sogno
    Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
    La gioia ti splendea, splendea negli occhi
    Quel confidente immaginar, quel lume
    Di gioventù, quando spegneali il fato,
    E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
    L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
    Se a radunanze io movo, infra me stesso
    Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
    Tu non ti acconci più, tu più non movi.
    Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
    Van gli amanti recando alle fanciulle,
    Dico: Nerina mia, per te non torna
    Primavera giammai, non torna amore.
    Ogni giorno sereno, ogni fiorita
    Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
    Dico: Nerina or più non gode; i campi,
    L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
    Sospiro mio: passasti: e fia compagna
    D'ogni mio vago immaginar, di tutti
    I miei teneri sensi, i tristi e cari
    Moti del cor, la rimembranza acerba.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 19:35
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  11. #11
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    XXIV - LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

    Passata è la tempesta:
    Odo augelli far festa, e la gallina,
    Tornata in su la via,
    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
    Rompe là da ponente, alla montagna;
    Sgombrasi la campagna,
    E chiaro nella valle il fiume appare.
    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
    Risorge il romorio
    Torna il lavoro usato.
    L'artigiano a mirar l'umido cielo,
    Con l'opra in man, cantando,
    Fassi in su l'uscio; a prova
    Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
    Della novella piova;
    E l'erbaiuol rinnova
    Di sentiero in sentiero
    Il grido giornaliero.
    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
    Apre terrazzi e logge la famiglia:
    E, dalla via corrente, odi lontano
    Tintinnio di sonagli; il carro stride
    Del passegger che il suo cammin ripiglia.

    Si rallegra ogni core.
    Sì dolce, sì gradita
    Quand'è, com'or, la vita?
    Quando con tanto amore
    L'uomo a' suoi studi intende?
    O torna all'opre? o cosa nova imprende?
    Quando de' mali suoi men si ricorda?
    Piacer figlio d'affanno;
    Gioia vana, ch'è frutto
    Del passato timore, onde si scosse
    E paventò la morte
    Chi la vita abborria;
    Onde in lungo tormento,
    Fredde, tacite, smorte,
    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
    Mossi alle nostre offese
    Folgori, nembi e vento.

    O natura cortese,
    Son questi i doni tuoi,
    Questi i diletti sono
    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
    E' diletto fra noi.
    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
    Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
    Che per mostro e miracolo talvolta
    Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
    Prole cara agli eterni! assai felice
    Se respirar ti lice
    D'alcun dolor: beata
    Se te d'ogni dolor morte risana.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  12. #12
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    Doppio
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 19:28
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  13. #13
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    XXV - IL SABATO DEL VILLAGGIO

    La donzelletta vien dalla campagna,
    In sul calar del sole,
    Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
    Un mazzolin di rose e di viole,
    Onde, siccome suole,
    Ornare ella si appresta
    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
    Siede con le vicine
    Su la scala a filar la vecchierella,
    Incontro là dove si perde il giorno;
    E novellando vien del suo buon tempo,
    Quando ai dì della festa ella si ornava,
    Ed ancor sana e snella
    Solea danzar la sera intra di quei
    Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
    Già tutta l'aria imbruna,
    Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
    Giù da' colli e da' tetti,
    Al biancheggiar della recente luna.
    Or la squilla dà segno
    Della festa che viene;
    Ed a quel suon diresti
    Che il cor si riconforta.
    I fanciulli gridando
    Su la piazzuola in frotta,
    E qua e là saltando,
    Fanno un lieto romore:
    E intanto riede alla sua parca mensa,
    Fischiando, il zappatore,
    E seco pensa al dì del suo riposo.

    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
    E tutto l'altro tace,
    Odi il martel picchiare, odi la sega
    Del legnaiuol, che veglia
    Nella chiusa bottega alla lucerna,
    E s'affretta, e s'adopra
    Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

    Questo di sette è il più gradito giorno,
    Pien di speme e di gioia:
    Diman tristezza e noia
    Recheran l'ore, ed al travaglio usato
    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

    Garzoncello scherzoso,
    Cotesta età fiorita
    E' come un giorno d'allegrezza pieno,
    Giorno chiaro, sereno,
    Che precorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio; stato soave,
    Stagion lieta è cotesta.
    Altro dirti non vo'; ma la tua festa
    Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  14. #14
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    XXVI - IL PENSIERO DOMINANTE

    Dolcissimo, possente
    Dominator di mia profonda mente;
    Terribile, ma caro
    Dono del ciel; consorte
    Ai lúgubri miei giorni,
    Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

    Di tua natura arcana
    Chi non favella? Il suo poter fra noi
    Chi non sentì? Pur sempre
    Che in dir gli effetti suoi
    Le umane lingue il sentir propio sprona,
    Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

    Come solinga è fatta
    La mente mia d'allora
    Che tu quivi prendesti a far dimora!
    Ratto d'intorno intorno al par del lampo
    Gli altri pensieri miei
    Tutti si dileguàr. Siccome torre
    In solitario campo,
    Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

    Che divenute son, fuor di te solo,
    Tutte l'opre terrene,
    Tutta intera la vita al guardo mio!
    Che intollerabil noia
    Gli ozi, i commerci usati,
    E di vano piacer la vana spene,
    Allato a quella gioia,
    Gioia celeste che da te mi viene!

    Come da' nudi sassi
    Dello scabro Apennino
    A un campo verde che lontan sorrida
    Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
    Tal io dal secco ed aspro
    Mondano conversar vogliosamente,
    Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
    E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

    Quasi incredibil parmi
    Che la vita infelice e il mondo sciocco
    Già per gran tempo assai
    Senza te sopportai;
    Quasi intender non posso
    Come d'altri desiri,
    Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

    Giammai d'allor che in pria
    Questa vita che sia per prova intesi,
    Timor di morte non mi strinse il petto.
    Oggi mi pare un gioco
    Quella che il mondo inetto,
    Talor lodando, ognora abborre e trema,
    Necessitade estrema;
    E se periglio appar, con un sorriso
    Le sue minacce a contemplar m'affiso.
    Sempre i codardi, e l'alme
    Ingenerose, abbiette
    Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
    Subito i sensi miei;
    Move l'alma ogni esempio
    Dell'umana viltà subito a sdegno.
    Di questa età superba,
    Che di vote speranze si nutrica,
    Vaga di ciance, e di virtù nemica;
    Stolta, che l'util chiede,
    E inutile la vita
    Quindi più sempre divenir non vede;
    Maggior mi sento. A scherno
    Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
    A' bei pensieri infesto,
    E degno tuo disprezzator, calpesto.

    A quello onde tu movi,
    Quale affetto non cede?
    Anzi qual altro affetto
    Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
    Avarizia, superbia, odio, disdegno,
    Studio d'onor, di regno,
    Che sono altro che voglie
    Al paragon di lui? Solo un affetto
    Vive tra noi: quest'uno,
    Prepotente signore,
    Dieder l'eterne leggi all'uman core.

    Pregio non ha, non ha ragion la vita
    Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
    Sola discolpa al fato,
    Che noi mortali in terra
    Pose a tanto patir senz'altro frutto;
    Solo per cui talvolta,
    Non alla gente stolta, al cor non vile
    La vita della morte è più gentile.

    Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
    Provar gli umani affanni,
    E sostener molt'anni
    Questa vita mortal, fu non indegno;
    Ed ancor tornerei,
    Così qual son de' nostri mali esperto,
    Verso un tal segno a incominciare il corso:
    Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
    Giammai finor sì stanco
    Per lo mortal deserto
    Non venni a te, che queste nostre pene
    Vincer non mi paresse un tanto bene.
    Che mondo mai, che nova
    Immensità, che paradiso è quello
    Là dove spesso il tuo stupendo incanto
    Parmi innalzar! dov'io,
    Sott'altra luce che l'usata errando,
    Il mio terreno stato
    E tutto quanto il ver pongo in obblio!
    Tali son, credo, i sogni
    Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno
    In molta parte onde s'abbella il vero
    Sei tu, dolce pensiero;
    Sogno e palese error. Ma di natura,
    Infra i leggiadri errori,
    Divina sei; perchè sì viva e forte,
    Che incontro al ver tenacemente dura,
    E spesso al ver s'adegua,
    Nè si dilegua pria, che in grembo a morte.

    E tu per certo, o mio pensier, tu solo
    Vitale ai giorni miei,
    Cagion diletta d'infiniti affanni,
    Meco sarai per morte a un tempo spento:
    Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento
    Che in perpetuo signor dato mi sei.
    Altri gentili inganni
    Soleami il vero aspetto
    Più sempre infievolir. Quanto più torno
    A riveder colei
    Della qual teco ragionando io vivo,
    Cresce quel gran diletto,
    Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
    Angelica beltade!
    Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
    Quasi una finta imago
    Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
    D'ogni altra leggiadria,
    Sola vera beltà parmi che sia.

    Da che ti vidi pria,
    Di qual mia seria cura ultimo obbietto
    Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
    Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
    La tua sovrana imago
    Quante volte mancò? Bella qual sogno,
    Angelica sembianza,
    Nella terrena stanza,
    Nell'alte vie dell'universo intero,
    Che chiedo io mai, che spero
    Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
    Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  15. #15
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    III - AD ANGELO MAI, QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DELLA REPUBBLICA

    Italo ardito, a che giammai non posi
    Di svegliar dalle tombe
    I nostri padri? ed a parlar gli meni
    A questo secol morto, al quale incombe
    Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
    Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
    Voce antica de' nostri,
    Muta sì lunga etade? e perchè tanti
    Risorgimenti? In un balen feconde
    Venner le carte; alla stagion presente
    I polverosi chiostri
    Serbaro occulti i generosi e santi
    Detti degli avi. E che valor t'infonde,
    Italo egregio, il fato? O con l'umano
    Valor forse contrasta il fato invano?

    Certo senza de' numi alto consiglio
    Non è ch'ove più lento
    E grave è il nostro disperato obblio,
    A percoter ne rieda ogni momento
    Novo grido de' padri. Ancora è pio
    Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
    Di noi qualche immortale:
    Ch'essendo questa o nessun'altra poi
    L'ora da ripor mano alla virtude
    Rugginosa dell'itala natura,
    Veggiam che tanto e tale
    E' il clamor de' sepolti, e che gli eroi
    Dimenticati il suol quasi dischiude,
    A ricercar s'a questa età sì tarda
    Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

    Di noi serbate, o gloriosi, ancora
    Qualche speranza? in tutto
    Non siam periti? A voi forse il futuro
    Conoscer non si toglie. Io son distrutto
    Nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
    M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
    E' tal che sogno e fola
    Fa parer la speranza. Anime prodi
    Ai tetti vostri inonorata, immonda
    Plebe successe; al vostro sangue è scherno
    E d'opra e di parola
    Ogni valor; di vostre eterne lodi
    Nè rossor più nè invidia; ozio circonda
    I monumenti vostri; e di viltade
    Siam fatti esempio alla futura etade.

    Bennato ingegno, or quando altrui non cale
    De' nostri alti parenti,
    A te ne caglia, a te cui fato aspira
    Benigno sì che per tua man presenti
    Paion que' giorni allor che dalla dira
    Obblivione antica ergean la chioma,
    Con gli studi sepolti,
    I vetusti divini, a cui natura
    Parlò senza svelarsi, onde i riposi
    Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
    Oh tempi, oh tempi avvolti
    In sonno eterno! Allora anco immatura
    La ruina d'Italia, anco sdegnosi
    Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
    Più faville rapia da questo suolo.

    Eran calde le tue ceneri sante,
    Non domito nemico
    Della fortuna, al cui sdegno e dolore
    Fu più l'averno che la terra amico.
    L'averno: e qual non è parte migliore
    Di questa nostra? E le tue dolci corde
    Sussurravano ancora
    Dal tocco di tua destra, o sfortunato
    Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
    L'italo canto. E pur men grava e morde
    Il mal che n'addolora
    Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
    A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
    Cinse il fastidio; a noi presso la culla
    Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

    Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
    Ligure ardita prole,
    Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
    Cui strider l'onde all'attuffar del sole
    Parve udir su la sera, agl'infiniti
    Flutti commesso, ritrovasti il raggio
    Del Sol caduto, e il giorno
    Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;
    E rotto di natura ogni contrasto,
    Ignota immensa terra al tuo viaggio
    Fu gloria, e del ritorno
    Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
    L'etra sonante e l'alma terra e il mare
    Al fanciullin, che non al saggio, appare.

    Nostri sogni leggiadri ove son giti
    Dell'ignoto ricetto
    D'ignoti abitatori, o del diurno
    Degli astri albergo, e del rimoto letto
    Della giovane Aurora, e del notturno
    Occulto sonno del maggior pianeta?
    Ecco svaniro a un punto,
    E figurato è il mondo in breve carta;
    Ecco tutto è simile, e discoprendo,
    Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
    Il vero appena è giunto,
    O caro immaginar; da te s'apparta
    Nostra mente in eterno; allo stupendo
    Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
    E il conforto perì de' nostri affanni.

    Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
    Sole splendeati in vista,
    Cantor vago dell'arme e degli amori,
    Che in età della nostra assai men trista
    Empièr la vita di felici errori:
    Nova speme d'Italia. O torri, o celle,
    O donne, o cavalieri,
    O giardini, o palagi! a voi pensando,
    In mille vane amenità si perde
    La mente mia. Di vanità, di belle
    Fole e strani pensieri
    Si componea l'umana vita: in bando
    Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
    E' spogliato alle cose? Il certo e solo
    Veder che tutto è vano altro che il duolo.

    O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
    Tua mente allora, il pianto
    A te, non altro, preparava il cielo.
    Oh misero Torquato! il dolce canto
    Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
    Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
    Cinta l'odio e l'immondo
    Livor privato e de' tiranni. Amore,
    Amor, di nostra vita ultimo inganno,
    T'abbandonava. Ombra reale e salda
    Ti parve il nulla, e il mondo
    Inabitata piaggia. Al tardo onore
    Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
    L'ora estrema ti fu. Morte domanda
    Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

    Torna torna fra noi, sorgi dal muto
    E sconsolato avello,
    Se d'angoscia sei vago, o miserando
    Esemplo di sciagura. Assai da quello
    Che ti parve sì mesto e sì nefando,
    E' peggiorato il viver nostro. O caro,
    Chi ti compiangeria,
    Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
    Chi stolto non direbbe il tuo mortale
    Affanno anche oggidì, se il grande e il raro
    Ha nome di follia;
    Nè livor più, ma ben di lui più dura
    La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
    Se più de' carmi, il computar s'ascolta,
    Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?

    Da te fino a quest'ora uom non è sorto,
    O sventurato ingegno,
    Pari all'italo nome, altro ch'un solo,
    Solo di sua codarda etate indegno
    Allobrogo feroce, a cui dal polo
    Maschia virtù, non già da questa mia
    Stanca ed arida terra,
    Venne nel petto; onde privato, inerme,
    (Memorando ardimento) in su la scena
    Mosse guerra a' tiranni: almen si dia
    Questa misera guerra
    E questo vano campo all'ire inferme
    Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
    Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
    Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

    Disdegnando e fremendo, immacolata
    Trasse la vita intera,
    E morte lo scampò dal veder peggio.
    Vittorio mio, questa per te non era
    Età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
    Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
    Paghi viviamo, e scorti
    Da mediocrità: sceso il sapiente
    E salita è la turba a un sol confine,
    Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
    Segui; risveglia i morti,
    Poi che dormono i vivi; arma le spente
    Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
    Questo secol di fango o vita agogni
    E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

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