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Discussione: Leopardi - Canti

  1. #1
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    Leopardi - Canti

    Pubblico dominio 14 giugno 1907

    Metterò tutti i Canti e qualcosa in più.

    Nell'ordine dell' edizione definitiva parigina postuma del 1845, a cura di Antonio Ranieri.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 09:16
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  2. #2
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    Indice dei Canti di Giacomo Leopardi (Centro naz. studi leopardiani)

    http://www.leopardi.it/canti.php

    I ALL' ITALIA
    II SOPRA IL MONUMENTO Dl DANTE CHE Sl PREPARAVA IN FIRENZE
    III AD ANGELO MAI, QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI Dl CICERONE DELLA REPUBBLICA
    IV NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA
    V A UN VINCITORE NEL PALLONE
    VI BRUTO MINORE
    VII ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE
    VIII INNO AI PATRIARCHI, O DE' PRINCIPI DEL GENERE UMANO
    IX ULTIMO CANTO Dl SAFFO
    X IL PRIMO AMORE
    XI IL PASSERO SOLITARIO
    XII L'INFINITO
    XIII LA SERA DEL DI Dl FESTA
    XIV ALLA LUNA
    XV IL SOGNO
    XVI LA VITA SOLITARIA
    XVII CONSALVO
    XVIII ALLA SUA DONNA
    XIX AL CONTE CARLO PEPOLI
    XX IL RISORGIMENTO
    XXI A SILVIA
    XXII LE RICORDANZE
    XXIII CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
    XXIV LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
    XXV IL SABATO DEL VILLAGGIO
    XXVI IL PENSIERO DOMINANTE
    XXVII AMORE E MORTE
    XXVIII A SE STESSO
    XXIX ASPASIA
    XXX SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA E' RAPPRESENTATA IN ATTO Dl PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DAI SUOI
    XXXI SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA
    XXXII PALINODIA. Al marchese Gino Capponi
    XXXIII IL TRAMONTO DELLA LUNA
    XXXIV LA GINESTRA, O IL FIORE DEL DESERTO
    XXXV IMITAZIONE
    XXXVI SCHERZO

    FRAMMENTI
    XXXVII "ODI, MELISSO"
    XXXVIII "IO QUI VAGANDO"
    XXXIX "SPENTO IL DIURNO RAGGIO"
    XL DAL GRECO DI SIMONIDE
    XLI DELLO STESSO



    Bonus aggiunti da me: I nuovi credenti - Ad Arimane (abbozzo di inno)



    AD ARIMANE

    (1835)


    Re delle cose, autor del mondo, arcana
    malvagità, sommo potere e somma
    intelligenza, eterno
    dator de' mali e reggitor del moto,


    io non so se questo ti faccia felice; ma mira e godi, ecc., contemplando eternamente, ecc.

    Produzione e distruzione, ecc. Per uccider partorisce, ecc. Sistema del mondo, tutto patimenti. Natura è come un bambino, che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: Amore.

    I selvaggi e le tribù primitive, sotto diverse forme, non riconoscono che te. Ma i popoli civili, ecc.

    Te con diversi nomi il volgo appella
    Fato, Natura e Dio.

    Ma tu sei Arimane, tu quello che, ecc.

    E il mondo civile t'invoca.

    Taccio le tempeste, le pesti, ecc., tuoi doni, ché altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci.

    E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l'opra tua rimane immutabile, perché per natura dell'uomo sempre regneranno l'ardimento e l'inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso, ecc. ecc.

    Vivi, Arimane, e trionfi, e sempre trionferai.

    Invidia dagli antichi attribuita agli dèi verso gli uomini.

    Animali destinati in cibo. Serpente boa. Nume pietoso, ecc.

    Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l'amore? per travagliarci col desiderio, con confronto degli altri e del tempo nostro passato, ecc.?

    Io non so se tu ami le lodi o le bestemmie, ecc. Tua lode sani il pianto, testimonio del nostro patire. Pianto da me per certo tu non avrai : ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà, ecc.

    Ma io non mi rassegnerò, ecc.

    Se mai grazia fu chiesta ad Arimane, ecc., concedimi ch'io non passi il settimo lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predicatore, ecc., l'apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quello che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de' mali, la morte. (Non ti chiedo ricchezze, ecc., non amore, sola causa degna di vivere, ecc.). Non posso, non posso più della vita.


    Cfr. anche A sé stesso "il brutto poter che ascoso, a comun danno impera"

    I NUOVI CREDENTI


    Ranieri mio, le carte ove l’umana
    vita esprimer tentai, con Salomone
    lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
    spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
    da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
    e spiaccion per Toledo alle persone.
    Di Chiaia la Riviera, e quei che il suolo
    impinguan del Mercato, e quei che vanno
    per l’erte vie di San Martino a volo;
    Capodimonte, e quei che passan l’anno
    in sul Caffé d’Italia, e in breve, accesa
    d’un concorde voler, tutta in mio danno
    s’arma Napoli a gara alla difesa
    de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
    anteposto il morir, troppo le pesa.
    E comprender non sa, quando son buoni,
    come per virtú lor non sien felici
    borghi, terre, province e nazioni.
    Che dirò delle triglie e delle alici?
    Qual puoi bramar felicitá piú vera
    che far d’ostriche scempio infra gli amici?
    Sallo Santa Lucia, quando la sera,
    poste le mense al lume delle stelle,
    vede accorrer le genti a schiera a schiera,


    e di frutta di mare empier la pelle.
    Ma di tutte maggior, piena d’affanno,
    alla vendetta delle cose belle
    sorge la voce di color che sanno,
    e che insegnano altrui dentro ai confini
    che il Liri e un doppio mar battendo vanno.
    Palpa la coscia, ed i pagati crini
    scompiglia in su la fronte, e con quel fiato
    soave, onde attoscar suole i vicini,
    incontro al dolor mio dal labbro armato
    vibra d’alte sentenze acuti strali
    il valoroso Elpidio; il qual beato
    dell’amor d’una dea che batter l’ali
    vide giá dieci lustri, i suoi contenti
    a gran ragione omai crede immortali.
    Uso giá contra il ciel torcere i denti
    finché piacque alla Francia; indi veduto
    altra moda regnar, mutati i venti,
    alla pietá si volse, e conosciuto
    il ver senz’altre scorte, arse di zelo,
    e d’empio a me dá nome e di perduto.
    E le giovani donne e l’evangelo
    canta, e le vecchie abbraccia, e la mercede
    di sua molta virtú spera nel cielo.
    Pende dal labbro suo con quella fede
    che il bimbo ha nel dottor, levando il muso
    che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,
    Galerio, il buon garzon, che ognor deluso
    cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio,
    che da Venere il fato avealo escluso.
    Per sempre escluso: ed ei contento e pio,
    loda i raggi del dí, loda la sorte
    del gener nostro, e benedice Iddio.
    E canta; ed or le sale ed or la corte
    empiendo d’armonia, suole in tal forma
    dilettando se stesso, altrui dar morte.

    Ed oggi del suo duca egli su l’orma
    movendo, incontro a me fulmini elice
    dal casto petto, che da lui s’informa.
    — Bella Italia, bel mondo, etá felice,
    dolce stato mortal! — grida tossendo
    un altro, come quei che sogna e dice;
    a cui per l’ossa e per le vene orrendo
    veleno andò giá sciolto, or va commisto
    con Mercurio ed andrá sempre serpendo.
    Questi e molti altri, che nimici a Cristo
    fûro insin oggi, il mio parlare offende,
    perché il vivere io chiamo arido e tristo.
    E in odio mio, fedel tutta si rende
    questa falange, e santi detti scocca
    contra chi Giobbe e Salomon difende.
    Racquetatevi, amici. A voi non tocca
    dell’umana miseria alcuna parte,
    che misera non è la gente sciocca.
    Né dissi io questo, o se pur dissi, all’arte
    non sempre appieno esce l’intento, e spesso
    la penna un poco dal pensier si parte.
    Or mia sentenza dichiarando, espresso
    dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna
    non è dagli astri alcun poter concesso.
    Non al dolor, perché alla vostra cuna
    assiste, e poi sull’asinina stampa
    il piè per ogni via pon la fortuna.
    E se talor la vostra vita inciampa,
    come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio
    90il non sentire e il non saper vi scampa.
    Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio
    rompon l’alme ben nate; a voi tal male
    narrare indarno e non inteso io soglio.
    Portici, San Carlin, Villa reale,
    Toledo, e l’arte onde barone è Vito,
    e quella onde la donna in alto sale,


    pago fanno ad ogni or vostro appetito,
    e il cor, che né gentil cosa, né rara,
    né il bel sognò giammai, né l’infinito.
    Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
    a cui grava il morir; noi femminette,
    cui la morte è in desio, la vita amara.
    Voi saggi, voi felici: anime elette
    a goder delle cose: in voi natura
    le intenzioni sue vide perfette.
    Degli uomini e del ciel delizia e cura
    sarete sempre, infin che stabilita
    ignoranza e sciocchezza in cuor vi dura:
    e durerá, mi penso, almeno in vita.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 11:41
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  3. #3
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    AGLI AMICI SUOI


    DI TOSCANA.
    (1831)





    La mia favola breve è già compita,
    E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.
    petrarca.

    [p. 5]




    Amici miei cari,











    Firenze 15 Dicembre 1830.




    Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai [p. 6]che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia [p. 7]infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m’è in luogo degli studi, e in luogo d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant’io vorrei, e s’io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio.

    Il vostro Leopardi.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  4. #4
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    I - ALL'ITALIA

    O patria mia, vedo le mura e gli archi
    E le colonne e i simulacri e l'erme
    Torri degli avi nostri,
    Ma la gloria non vedo,
    Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
    I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
    Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
    Oimè quante ferite,
    Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
    Formosissima donna! Io chiedo al cielo
    E al mondo: dite dite;
    Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
    Che di catene ha carche ambe le braccia;
    Sì che sparte le chiome e senza velo
    Siede in terra negletta e sconsolata,
    Nascondendo la faccia
    Tra le ginocchia, e piange.
    Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
    Le genti a vincer nata
    E nella fausta sorte e nella ria.

    Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
    Mai non potrebbe il pianto
    Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
    Che fosti donna, or sei povera ancella.
    Chi di te parla o scrive,
    Che, rimembrando il tuo passato vanto,
    Non dica: già fu grande, or non è quella?
    Perchè, perchè? dov'è la forza antica,
    Dove l'armi e il valore e la costanza?
    Chi ti discinse il brando?
    Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
    O qual tanta possanza
    Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
    Come cadesti o quando
    Da tanta altezza in così basso loco?
    Nessun pugna per te? non ti difende
    Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
    Combatterò, procomberò sol io.
    Dammi, o ciel, che sia foco
    Agl'italici petti il sangue mio.

    Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
    E di carri e di voci e di timballi:
    In estranie contrade
    Pugnano i tuoi figliuoli.
    Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
    Un fluttuar di fanti e di cavalli,
    E fumo e polve, e luccicar di spade
    Come tra nebbia lampi.
    Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
    Piegar non soffri al dubitoso evento?
    A che pugna in quei campi
    L'Itala gioventude? O numi, o numi:
    Pugnan per altra terra itali acciari.
    Oh misero colui che in guerra è spento,
    Non per li patrii lidi e per la pia
    Consorte e i figli cari,
    Ma da nemici altrui,
    Per altra gente, e non può dir morendo:
    Alma terra natia,
    La vita che mi desti ecco ti rendo.

    Oh venturose e care e benedette
    L'antiche età, che a morte
    Per la patria correan le genti a squadre;
    E voi sempre onorate e gloriose,
    O tessaliche strette,
    Dove la Persia e il fato assai men forte
    Fu di poch'alme franche e generose!
    Io credo che le piante e i sassi e l'onda
    E le montagne vostre al passeggere
    Con indistinta voce
    Narrin siccome tutta quella sponda
    Coprìr le invitte schiere
    De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
    Allor, vile e feroce,
    Serse per l'Ellesponto si fuggia,
    Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
    E sul colle d'Antela, ove morendo
    Si sottrasse da morte il santo stuolo,
    Simonide salia,
    Guardando l'etra e la marina e il suolo.

    E di lacrime sparso ambe le guance,
    E il petto ansante, e vacillante il piede,
    Toglieasi in man la lira:
    Beatissimi voi,
    Ch'offriste il petto alle nemiche lance
    Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
    Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
    Nell'armi e ne' perigli
    Qual tanto amor le giovanette menti,
    Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
    Come sì lieta, o figli,
    L'ora estrema vi parve, onde ridenti
    Correste al passo lacrimoso e duro?
    Parea ch'a danza e non a morte andasse
    Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
    Ma v'attendea lo scuro
    Tartaro, e l'onda morta;
    Nè le spose vi foro o i figli accanto
    Quando su l'aspro lito
    Senza baci moriste e senza pianto.

    Ma non senza de' Persi orrida pena
    Ed immortale angoscia.
    Come lion di tori entro una mandra
    Or salta a quello in tergo e sì gli scava
    Con le zanne la schiena,
    Or questo fianco addenta or quella coscia;
    Tal fra le Perse torme infuriava
    L'ira de' greci petti e la virtute.
    Ve' cavalli supini e cavalieri;
    Vedi intralciare ai vinti
    La fuga i carri e le tende cadute,
    E correr fra' primieri
    Pallido e scapigliato esso tiranno;
    Ve' come infusi e tinti
    Del barbarico sangue i greci eroi,
    Cagione ai Persi d'infinito affanno,
    A poco a poco vinti dalle piaghe,
    L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
    Beatissimi voi
    Mentre nel mondo si favelli o scriva.

    Prima divelte, in mar precipitando,
    Spente nell'imo strideran le stelle,
    Che la memoria e il vostro
    Amor trascorra o scemi.
    La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
    Verran le madri ai parvoli le belle
    Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
    O benedetti, al suolo,
    E bacio questi sassi e queste zolle,
    Che fien lodate e chiare eternamente
    Dall'uno all'altro polo.
    Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
    Fosse del sangue mio quest'alma terra.
    Che se il fato è diverso, e non consente
    Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
    Chiuda prostrato in guerra,
    Così la vereconda
    Fama del vostro vate appo i futuri
    Possa, volendo i numi,
    Tanto durar quanto la vostra duri.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 08:22
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  5. #5
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    II - SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE

    Perché le nostre genti
    Pace sotto le bianche ali raccolga,
    Non fien da' lacci sciolte
    Dell'antico sopor l'itale menti
    S'ai patrii esempi della prisca etade
    Questa terra fatal non si rivolga.
    O Italia, a cor ti stia
    Far ai passati onor; che d'altrettali
    Oggi vedove son le tue contrade,
    Nè v'è chi d'onorar ti si convegna.
    Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
    Quella schiera infinita d'immortali,
    E piangi e di te stessa ti disdegna;
    Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
    Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
    E ti punga una volta
    Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

    D'aria e d'ingegno e di parlar diverso
    Per lo toscano suol cercando gia
    L'ospite desioso
    Dove giaccia colui per lo cui verso
    Il meonio cantor non è più solo.
    Ed, oh vergogna! udia
    Che non che il cener freddo e l'ossa nude
    Giaccian esuli ancora
    Dopo il funereo dì sott'altro suolo,
    Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,
    Firenze, a quello per la cui virtude
    Tutto il mondo t'onora.
    Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso
    Obbrobrio laverà nostro paese!
    Bell'opra hai tolta e di ch'amor ti rende,
    Schiera prode e cortese,
    Qualunque petto amor d'Italia accende.

    Amor d'Italia, o cari,
    Amor di questa misera vi sproni,
    Ver cui pietade è morta
    In ogni petto omai, perciò che amari
    Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo.
    Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni
    Misericordia, o figli,
    E duolo e sdegno di cotanto affanno
    Onde bagna costei le guance e il velo.
    Ma voi di quale ornar parola o canto
    Si debbe, a cui non pur cure o consigli,
    Ma dell'ingegno e della man daranno
    I sensi e le virtudi eterno vanto
    Oprate e mostre nella dolce impresa?
    Quali a voi note invio, sì che nel core,
    Sì che nell'alma accesa
    Nova favilla indurre abbian valore?

    Voi spirerà l'altissimo subbietto,
    Ed acri punte premeravvi al seno.
    Chi dirà l'onda e il turbo
    Del furor vostro e dell'immenso affetto?
    Chi pingerà l'attonito sembiante?
    Chi degli occhi il baleno?
    Qual può voce mortal celeste cosa
    Agguagliar figurando?
    Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante
    Lacrime al nobil sasso Italia serba!
    Come cadrà? come dal tempo rosa
    Fia vostra gloria o quando?
    Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,
    Sempre vivete, o care arti divine,
    Conforto a nostra sventurata gente,
    Fra l'itale ruine
    Gl'itali pregi a celebrare intente.

    Ecco voglioso anch'io
    Ad onorar nostra dolente madre
    Porto quel che mi lice,
    E mesco all'opra vostra il canto mio,
    Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.
    O dell'etrusco metro inclito padre,
    Se di cosa terrena,
    Se di costei che tanto alto locasti
    Qualche novella ai vostri lidi arriva,
    Io so ben che per te gioia non senti,
    Che saldi men che cera e men ch'arena,
    Verso la fama che di te lasciasti,
    Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti
    Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,
    Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
    E in sempiterni guai
    Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.

    Ma non per te; per questa ti rallegri
    Povera patria tua, s'unqua l'esempio
    Degli avi e de' parenti
    Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
    Tanto valor che un tratto alzino il viso.
    Ahi, da che lungo scempio
    Vedi afflitta costei, che sì meschina
    Te salutava allora
    Che di novo salisti al paradiso!
    Oggi ridotta sì che a quel che vedi,
    Fu fortunata allor donna e reina.
    Tal miseria l'accora
    Qual tu forse mirando a te non credi.
    Taccio gli altri nemici e l'altre doglie;
    Ma non la più recente e la più fera,
    Per cui presso alle soglie
    Vide la patria tua l'ultima sera.

    Beato te che il fato
    A viver non dannò fra tanto orrore;
    Che non vedesti in braccio
    L'itala moglie a barbaro soldato;
    Non predar, non guastar cittadi e colti
    L'asta inimica e il peregrin furore;
    Non degl'itali ingegni
    Tratte l'opre divine a miseranda
    Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti
    Carri impedita la dolente via;
    Non gli aspri cenni ed i superbi regni;
    Non udisti gli oltraggi e la nefanda
    Voce di libertà che ne schernia
    Tra il suon delle catene e de' flagelli.
    Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto
    Che lasciaron quei felli?
    Qual tempio, quale altare o qual misfatto?

    Perchè venimmo a sì perversi tempi?
    Perchè il nascer ne desti o perchè prima
    Non ne desti il morire,
    Acerbo fato? onde a stranieri ed empi
    Nostra patria vedendo ancella e schiava,
    E da mordace lima
    Roder la sua virtù, di null'aita
    E di nullo conforto
    Lo spietato dolor che la stracciava
    Ammollir ne fu dato in parte alcuna.
    Ahi non il sangue nostro e non la vita
    Avesti, o cara; e morto
    Io non son per la tua cruda fortuna.
    Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:
    Pugnò, cadde gran parte anche di noi:
    Ma per la moribonda
    Italia no; per li tiranni suoi.

    Padre, se non ti sdegni,
    Mutato sei da quel che fosti in terra.
    Morian per le rutene
    Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,
    Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo
    E gli uomini e le belve immensa guerra.
    Cadeano a squadre a squadre
    Semivestiti, maceri e cruenti,
    Ed era letto agli egri corpi il gelo.
    Allor, quando traean l'ultime pene,
    Membrando questa desiata madre,
    Diceano: oh non le nubi e non i venti,
    Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,
    O patria nostra. Ecco da te rimoti,
    Quando più bella a noi l'età sorride,
    A tutto il mondo ignoti,
    Moriam per quella gente che t'uccide.

    Di lor querela il boreal deserto
    E conscie fur le sibilanti selve.
    Così vennero al passo,
    E i negletti cadaveri all'aperto
    Su per quello di neve orrido mare
    Dilaceràr le belve;
    E sarà il nome degli egregi e forti
    Pari mai sempre ed uno
    Con quel de' tardi e vili. Anime care,
    Bench'infinita sia vostra sciagura,
    Datevi pace; e questo vi conforti
    Che conforto nessuno
    Avrete in questa o nell'età futura.
    In seno al vostro smisurato affanno
    Posate, o di costei veraci figli,
    Al cui supremo danno
    Il vostro solo è tal che s'assomigli.

    Di voi già non si lagna
    La patria vostra, ma di chi vi spinse
    A pugnar contra lei,
    Sì ch'ella sempre amaramente piagna
    E il suo col vostro lacrimar confonda.
    Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse
    Pietà nascesse in core
    A tal de' suoi ch'affaticata e lenta
    Di sì buia vorago e sì profonda
    La ritraesse! O glorioso spirto,
    Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?
    Dì: quella fiamma che t'accese, è spenta?
    Dì: nè più mai rinverdirà quel mirto
    Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?
    Nostre corone al suol fien tutte sparte?
    Nè sorgerà mai tale
    Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

    In eterno perimmo? e il nostro scorno
    Non ha verun confine?
    Io mentre viva andrò sclamando intorno,
    Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
    Mira queste ruine
    E le carte e le tele e i marmi e i templi;
    Pensa qual terra premi; e se destarti
    Non può la luce di cotanti esempli,
    Che stai? levati e parti.
    Non si conviene a sì corrotta usanza
    Questa d'animi eccelsi altrice e scola:
    Se di codardi è stanza,
    Meglio l'è rimaner vedova e sola.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 08:26
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  6. #6
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    III - AD ANGELO MAI, QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DELLA REPUBBLICA

    Italo ardito, a che giammai non posi
    Di svegliar dalle tombe
    I nostri padri? ed a parlar gli meni
    A questo secol morto, al quale incombe
    Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
    Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
    Voce antica de' nostri,
    Muta sì lunga etade? e perchè tanti
    Risorgimenti? In un balen feconde
    Venner le carte; alla stagion presente
    I polverosi chiostri
    Serbaro occulti i generosi e santi
    Detti degli avi. E che valor t'infonde,
    Italo egregio, il fato? O con l'umano
    Valor forse contrasta il fato invano?

    Certo senza de' numi alto consiglio
    Non è ch'ove più lento
    E grave è il nostro disperato obblio,
    A percoter ne rieda ogni momento
    Novo grido de' padri. Ancora è pio
    Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
    Di noi qualche immortale:
    Ch'essendo questa o nessun'altra poi
    L'ora da ripor mano alla virtude
    Rugginosa dell'itala natura,
    Veggiam che tanto e tale
    E' il clamor de' sepolti, e che gli eroi
    Dimenticati il suol quasi dischiude,
    A ricercar s'a questa età sì tarda
    Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

    Di noi serbate, o gloriosi, ancora
    Qualche speranza? in tutto
    Non siam periti? A voi forse il futuro
    Conoscer non si toglie. Io son distrutto
    Nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
    M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
    E' tal che sogno e fola
    Fa parer la speranza. Anime prodi
    Ai tetti vostri inonorata, immonda
    Plebe successe; al vostro sangue è scherno
    E d'opra e di parola
    Ogni valor; di vostre eterne lodi
    Nè rossor più nè invidia; ozio circonda
    I monumenti vostri; e di viltade
    Siam fatti esempio alla futura etade.

    Bennato ingegno, or quando altrui non cale
    De' nostri alti parenti,
    A te ne caglia, a te cui fato aspira
    Benigno sì che per tua man presenti
    Paion que' giorni allor che dalla dira
    Obblivione antica ergean la chioma,
    Con gli studi sepolti,
    I vetusti divini, a cui natura
    Parlò senza svelarsi, onde i riposi
    Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
    Oh tempi, oh tempi avvolti
    In sonno eterno! Allora anco immatura
    La ruina d'Italia, anco sdegnosi
    Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
    Più faville rapia da questo suolo.

    Eran calde le tue ceneri sante,
    Non domito nemico
    Della fortuna, al cui sdegno e dolore
    Fu più l'averno che la terra amico.
    L'averno: e qual non è parte migliore
    Di questa nostra? E le tue dolci corde
    Sussurravano ancora
    Dal tocco di tua destra, o sfortunato
    Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
    L'italo canto. E pur men grava e morde
    Il mal che n'addolora
    Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
    A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
    Cinse il fastidio; a noi presso la culla
    Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

    Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
    Ligure ardita prole,
    Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
    Cui strider l'onde all'attuffar del sole
    Parve udir su la sera, agl'infiniti
    Flutti commesso, ritrovasti il raggio
    Del Sol caduto, e il giorno
    Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;
    E rotto di natura ogni contrasto,
    Ignota immensa terra al tuo viaggio
    Fu gloria, e del ritorno
    Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
    L'etra sonante e l'alma terra e il mare
    Al fanciullin, che non al saggio, appare.

    Nostri sogni leggiadri ove son giti
    Dell'ignoto ricetto
    D'ignoti abitatori, o del diurno
    Degli astri albergo, e del rimoto letto
    Della giovane Aurora, e del notturno
    Occulto sonno del maggior pianeta?
    Ecco svaniro a un punto,
    E figurato è il mondo in breve carta;
    Ecco tutto è simile, e discoprendo,
    Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
    Il vero appena è giunto,
    O caro immaginar; da te s'apparta
    Nostra mente in eterno; allo stupendo
    Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
    E il conforto perì de' nostri affanni.

    Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
    Sole splendeati in vista,
    Cantor vago dell'arme e degli amori,
    Che in età della nostra assai men trista
    Empièr la vita di felici errori:
    Nova speme d'Italia. O torri, o celle,
    O donne, o cavalieri,
    O giardini, o palagi! a voi pensando,
    In mille vane amenità si perde
    La mente mia. Di vanità, di belle
    Fole e strani pensieri
    Si componea l'umana vita: in bando
    Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
    E' spogliato alle cose? Il certo e solo
    Veder che tutto è vano altro che il duolo.

    O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
    Tua mente allora, il pianto
    A te, non altro, preparava il cielo.
    Oh misero Torquato! il dolce canto
    Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
    Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
    Cinta l'odio e l'immondo
    Livor privato e de' tiranni. Amore,
    Amor, di nostra vita ultimo inganno,
    T'abbandonava. Ombra reale e salda
    Ti parve il nulla, e il mondo
    Inabitata piaggia. Al tardo onore
    Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
    L'ora estrema ti fu. Morte domanda
    Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

    Torna torna fra noi, sorgi dal muto
    E sconsolato avello,
    Se d'angoscia sei vago, o miserando
    Esemplo di sciagura. Assai da quello
    Che ti parve sì mesto e sì nefando,
    E' peggiorato il viver nostro. O caro,
    Chi ti compiangeria,
    Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
    Chi stolto non direbbe il tuo mortale
    Affanno anche oggidì, se il grande e il raro
    Ha nome di follia;
    Nè livor più, ma ben di lui più dura
    La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
    Se più de' carmi, il computar s'ascolta,
    Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?

    Da te fino a quest'ora uom non è sorto,
    O sventurato ingegno,
    Pari all'italo nome, altro ch'un solo,
    Solo di sua codarda etate indegno
    Allobrogo feroce, a cui dal polo
    Maschia virtù, non già da questa mia
    Stanca ed arida terra,
    Venne nel petto; onde privato, inerme,
    (Memorando ardimento) in su la scena
    Mosse guerra a' tiranni: almen si dia
    Questa misera guerra
    E questo vano campo all'ire inferme
    Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
    Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
    Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

    Disdegnando e fremendo, immacolata
    Trasse la vita intera,
    E morte lo scampò dal veder peggio.
    Vittorio mio, questa per te non era
    Età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
    Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
    Paghi viviamo, e scorti
    Da mediocrità: sceso il sapiente
    E salita è la turba a un sol confine,
    Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
    Segui; risveglia i morti,
    Poi che dormono i vivi; arma le spente
    Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
    Questo secol di fango o vita agogni
    E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  7. #7
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    IV - NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA

    Poi che del patrio nido
    I silenzi lasciando, e le beate
    Larve e l'antico error, celeste dono,
    Ch'abbella agli occhi tuoi quest'ermo lido,
    Te nella polve della vita e il suono
    Tragge il destin; l'obbrobriosa etate
    Che il duro cielo a noi prescrisse impara,
    Sorella mia, che in gravi
    E luttuosi tempi
    L'infelice famiglia all'infelice
    Italia accrescerai. Di forti esempi
    Al tuo sangue provvedi. Aure soavi
    L'empio fato interdice
    All'umana virtude,
    Nè pura in gracil petto alma si chiude.

    O miseri o codardi
    Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
    Tra fortuna e valor dissidio pose
    Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,
    E nella sera dell'umane cose,
    Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.
    Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
    Questa sovr'ogni cura,
    Che di fortuna amici
    Non crescano i tuoi figli, e non di vile
    Timor gioco o di speme: onde felici
    Sarete detti nell'età futura:
    Poiché (nefando stile,
    Di schiatta ignava e finta)
    Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

    Donne, da voi non poco
    La patria aspetta; e non in danno e scorno
    Dell'umana progenie al dolce raggio
    Delle pupille vostre il ferro e il foco
    Domar fu dato. A senno vostro il saggio
    E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
    Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.
    Ragion di nostra etate
    Io chieggo a voi. La santa
    Fiamma di gioventù dunque si spegne
    Per vostra mano? attenuata e franta
    Da voi nostra natura? e le assonnate
    Menti, e le voglie indegne,
    E di nervi e di polpe
    Scemo il valor natio, son vostre colpe?

    Ad atti egregi è sprone
    Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto
    Maestra è la beltà. D'amor digiuna
    Siede l'alma di quello a cui nel petto
    Non si rallegra il cor quando a tenzone
    Scendono i venti, e quando nembi aduna
    L'olimpo, e fiede le montagne il rombo
    Della procella. O spose,
    O verginette, a voi
    Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno
    E' della patria e che sue brame e suoi
    Volgari affetti in basso loco pose,
    Odio mova e disdegno;
    Se nel femmineo core
    D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.

    Madri d'imbelle prole
    V'incresca esser nomate. I danni e il pianto
    Della virtude a tollerar s'avvezzi
    La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
    La vergognosa età, condanni e sprezzi;
    Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
    Agli avi suoi deggia la terra impari.
    Qual de' vetusti eroi
    Tra le memorie e il grido
    Crescean di Sparta i figli al greco nome;
    Finché la sposa giovanetta il fido
    Brando cingeva al caro lato, e poi
    Spandea le negre chiome
    Sul corpo esangue e nudo
    Quando e' reddia nel conservato scudo.

    Virginia, a te la molle
    Gota molcea con le celesti dita
    Beltade onnipossente, e degli alteri
    Disdegni tuoi si sconsolava il folle
    Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
    Nella stagion ch'ai dolci sogni invita,
    Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
    Il bianchissimo petto,
    E all'Erebo scendesti
    Volonterosa. A me disfiori e scioglia
    Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,
    Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto
    Del tiranno m'accoglia.
    E se pur vita e lena
    Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

    O generosa, ancora
    Che più bello a' tuoi dì splendesse il sole
    Ch'oggi non fa, pur consolata e paga
    E' quella tomba cui di pianto onora
    L'alma terra nativa. Ecco alla vaga
    Tua spoglia intorno la romulea prole
    Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
    Lorda il tiranno i crini;
    E libertade avvampa
    Gli obbliviosi petti; e nella doma
    Terra il marte latino arduo s'accampa
    Dal buio polo ai torridi confini.
    Così l'eterna Roma
    In duri ozi sepolta
    Femmineo fato avviva un'altra volta.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  8. #8
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    V - A UN VINCITORE NEL PALLONE

    Di gloria il viso e la gioconda voce,
    Garzon bennato, apprendi,
    E quanto al femminile ozio sovrasti
    La sudata virtude. Attendi attendi,
    Magnanimo campion (s'alla veloce
    Piena degli anni il tuo valor contrasti
    La spoglia di tuo nome), attendi e il core
    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
    Arena e il circo, e te fremendo appella
    Ai fatti illustri il popolar favore;
    Te rigoglioso dell'età novella
    Oggi la patria cara
    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

    Del barbarico sangue in Maratona
    Non colorò la destra
    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
    Che stupido mirò l'ardua palestra,
    Né la palma beata e la corona
    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
    Forse le chiome polverose e i fianchi
    Delle cavalle vincitrici asterse
    Tal che le greche insegne e il greco acciaro
    Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
    Nelle pallide torme; onde sonaro
    Di sconsolato grido
    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

    Vano dirai quel che disserra e scote
    Della virtù nativa
    Le riposte faville? e che del fioco
    Spirto vital negli egri petti avviva
    Il caduco fervor? Le meste rote
    Da poi che Febo instiga, altro che gioco
    Son l'opre de' mortali? ed è men vano
    Della menzogna il vero? A noi di lieti
    Inganni e di felici ombre soccorse
    Natura stessa: e là dove l'insano
    Costume ai forti errori esca non porse,
    Negli ozi oscuri e nudi
    Mutò la gente i gloriosi studi.

    Tempo forse verrà ch'alle ruine
    Delle italiche moli
    Insultino gli armenti, e che l'aratro
    Sentano i sette colli; e pochi Soli
    Forse fien volti, e le città latine
    Abiterà la cauta volpe, e l'atro
    Bosco mormorerà fra le alte mura;
    Se la funesta delle patrie cose
    Obblivion dalle perverse menti
    Non isgombrano i fati, e la matura
    Clade non torce dalle abbiette genti
    Il ciel fatto cortese
    Dal rimembrar delle passate imprese.

    Alla patria infelice, o buon garzone,
    Sopravviver ti doglia.
    Chiaro per lei stato saresti allora
    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
    Che nullo di tal madre oggi s'onora:
    Ma per te stesso al polo ergi la mente.
    Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
    Beata allor che ne' perigli avvolta,
    Se stessa obblia, nè delle putri e lente
    Ore il danno misura e il flutto ascolta;
    Beata allor che il piede
    Spinto al varco leteo, più grata riede.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  9. #9
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    VI - BRUTO MINORE

    Poi che divelta, nella tracia polve
    Giacque ruina immensa
    L'italica virtute, onde alle valli
    D'Esperia verde, e al tiberino lido,
    Il calpestio de' barbari cavalli
    Prepara il fato, e dalle selve ignude
    Cui l'Orsa algida preme,
    A spezzar le romane inclite mura
    Chiama i gotici brandi;
    Sudato, e molle di fraterno sangue,
    Bruto per l'atra notte in erma sede,
    Fermo già di morir, gl'inesorandi
    Numi e l'averno accusa,
    E di feroci note
    Invan la sonnolenta aura percote.

    Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
    Dell'inquiete larve
    Son le tue scole, e ti si volge a tergo
    Il pentimento. A voi, marmorei numi,
    (Se numi avete in Flegetonte albergo
    O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
    E' la prole infelice
    A cui templi chiedeste, e frodolenta
    Legge al mortale insulta.
    Dunque tanto i celesti odii commove
    La terrena pietà? dunque degli empi
    Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
    Per l'aere il nembo, e quando
    Il tuon rapido spingi,
    Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?

    Preme il destino invitto e la ferrata
    Necessità gl'infermi
    Schiavi di morte: e se a cessar non vale
    Gli oltraggi lor, de' necessarii danni
    Si consola il plebeo. Men duro è il male
    Che riparo non ha? dolor non sente
    Chi di speranza è nudo?
    Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
    Teco il prode guerreggia,
    Di cedere inesperto; e la tiranna
    Tua destra, allor che vincitrice il grava,
    Indomito scrollando si pompeggia,
    Quando nell'alto lato
    L'amaro ferro intride,
    E maligno alle nere ombre sorride.

    Spiace agli Dei chi violento irrompe
    Nel Tartaro. Non fora
    Tanto valor ne' molli eterni petti.
    Forse i travagli nostri, e forse il cielo
    I casi acerbi e gl'infelici affetti
    Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
    Non fra sciagure e colpe,
    Ma libera ne' boschi e pura etade
    Natura a noi prescrisse,
    Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
    Sparse i regni beati empio costume,
    E il viver macro ad altre leggi addisse;
    Quando gl'infausti giorni
    Virile alma ricusa,
    Riede natura, e il non suo dardo accusa?

    Di colpa ignare e de' lor proprii danni
    Le fortunate belve
    Serena adduce al non previsto passo
    La tarda età. Ma se spezzar la fronte
    Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
    Dare al vento precipiti le membra,
    Lor suadesse affanno;
    Al misero desio nulla contesa
    Legge arcana farebbe
    O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
    Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
    Figli di Prometeo, la vita increbbe;
    A voi le morte ripe,
    Se il fato ignavo pende,
    Soli, o miseri, a voi Giove contende.

    E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
    Candida luna, sorgi,
    E l'inquieta notte e la funesta
    All'ausonio valor campagna esplori.
    Cognati petti il vincitor calpesta,
    Fremono i poggi, dalle somme vette
    Roma antica ruina;
    Tu sì placida sei? Tu la nascente
    Lavinia prole, e gli anni
    Lieti vedesti, e i memorandi allori;
    E tu su l'alpe l'immutato raggio
    Tacita verserai quando ne' danni
    Del servo italo nome,
    Sotto barbaro piede
    Rintronerà quella solinga sede.

    Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
    E la fera e l'augello,
    Del consueto obblio gravido il petto,
    L'alta ruina ignora e le mutate
    Sorti del mondo: e come prima il tetto
    Rosseggerà del villanello industre,
    Al mattutino canto
    Quel desterà le valli, e per le balze
    Quella l'inferma plebe
    Agiterà delle minori belve.
    Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
    Siam delle cose; e non le tinte glebe,
    Non gli ululati spechi
    Turbò nostra sciagura,
    Né scolorò le stelle umana cura.

    Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
    Regi, o la terra indegna,
    E non la notte moribondo appello;
    Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
    Conscia futura età. Sdegnoso avello
    Placàr singulti, ornàr parole e doni
    Di vil caterva? In peggio
    Precipitano i tempi; e mal s'affida
    A putridi nepoti
    L'onor d'egregie menti e la suprema
    De' miseri vendetta. A me dintorno
    Le penne il bruno augello avido roti;
    Prema la fera, e il nembo
    Tratti l'ignota spoglia;
    E l'aura il nome e la memoria accoglia.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  10. #10
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    VII - ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE

    Perchè i celesti danni
    ristori il sole, e perchè l'aure inferme
    Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
    Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
    Credano il petto inerme
    Gli augelli al vento, e la diurna luce
    Novo d'amor desio, nova speranza
    Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
    Pruine induca alle commosse belve;
    Forse alle stanche e nel dolor sepolte
    Umane menti riede
    La bella età, cui la sciagura e l'atra
    Face del ver consunse
    Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
    Di febo i raggi al misero non sono
    In sempiterno? ed anco,
    Primavera odorata, inspiri e tenti
    Questo gelido cor, questo ch'amara
    Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

    Vivi tu, vivi, o santa
    Natura? vivi e il dissueto orecchio
    Della materna voce il suono accoglie?
    Già di candide ninfe i rivi albergo,
    Placido albergo e specchio
    Furo i liquidi fonti. Arcane danze
    D'immortal piede i ruinosi gioghi
    Scossero e l'ardue selve (oggi romito
    Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
    Meridiane incerte ed al fiorito
    Margo adducea de' fiumi
    Le sitibonde agnelle, arguto carme
    Sonar d'agresti Pani
    Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
    Vide, e stupì, che non palese al guardo
    La faretrata Diva
    Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
    Polve tergea della sanguigna caccia
    Il niveo lato e le verginee braccia.

    Vissero i fiori e l'erbe,
    Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
    Aure, le nubi e la titania lampa
    Fur dell'umana gente, allor che ignuda
    Te per le piagge e i colli,
    Ciprigna luce, alla deserta notte
    Con gli occhi intenti il viator seguendo,
    Te compagna alla via, te de' mortali
    Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
    Cittadini consorzi e le fatali
    Ire fuggendo e l'onte,
    Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
    Selve remoto accolse,
    Viva fiamma agitar l'esangui vene,
    Spirar le foglie, e palpitar segreta
    Nel doloroso amplesso
    Dafne o la mesta Filli, o di Climene
    Pianger credè la sconsolata prole
    Quel che sommerse in Eridano il sole.

    Nè dell'umano affanno,
    Rigide balze, i luttuosi accenti
    Voi negletti ferìr mentre le vostre
    Paurose latebre Eco solinga,
    Non vano error de' venti,
    Ma di ninfa abitò misero spirto,
    Cui grave amor, cui duro fato escluse
    Delle tenere membra. Ella per grotte,
    Per nudi scogli e desolati alberghi,
    Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
    Nostre querele al curvo
    Etra insegnava. E te d'umani eventi
    Disse la fama esperto,
    Musico augel che tra chiomato bosco
    Or vieni il rinascente anno cantando,
    E lamentar nell'alto
    Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
    Antichi danni e scellerato scorno,
    E d'ira e di pietà pallido il giorno.

    Ma non cognato al nostro
    Il gener tuo; quelle tue varie note
    Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
    Men caro assai la bruna valle asconde.
    Ahi ahi, poscia che vote
    Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
    Per l'atre nubi e le montagne errando,
    Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro
    In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
    Il suol nativo, e di sua prole ignaro
    Le meste anime educa;
    Tu le cure infelici e i fati indegni
    Tu de' mortali ascolta,
    Vaga natura, e la favilla antica
    Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
    E se de' nostri affanni
    Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
    Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
    Pietosa no, ma spettatrice almeno.


    Cfr. anche Operette morali, I, Storia del genere umano
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  11. #11
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    VIII - INNO Al PATRIARCHI, O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO

    E voi de' figli dolorosi il canto,
    Voi dell'umana prole incliti padri,
    Lodando ridirà; molto all'eterno
    Degli astri agitator più cari, e molto
    Di noi men lacrimabili nell'alma
    Luce prodotti. Immedicati affanni
    Al misero mortal, nascere al pianto,
    E dell'etereo lume assai più dolci
    Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,
    Non la pietà, non la diritta impose
    Legge del cielo. E se di vostro antico
    Error che l'uman seme alla tiranna
    Possa de' morbi e di sciagura offerse,
    Grido antico ragiona, altre più dire
    Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,
    E demenza maggior l'offeso Olimpo
    N'armaro incontra, e la negletta mano
    Dell'altrice natura; onde la viva
    Fiamma n'increbbe, e detestato il parto
    Fu del grembo materno, e violento
    Emerse il disperato Erebo in terra.

    Tu primo il giorno, e le purpuree faci
    Delle rotanti sfere, e la novella
    Prole de' campi, o duce antico e padre
    Dell'umana famiglia, e tu l'errante
    Per li giovani prati aura contempli:
    Quando le rupi e le deserte valli
    Precipite l'alpina onda feria
    D'inudito fragor; quando gli ameni
    Futuri seggi di lodate genti
    E di cittadi romorose, ignota
    Pace regnava; e gl'inarati colli
    Solo e muto ascendea l'aprico raggio
    Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,
    Di colpe ignara e di lugubri eventi,
    Erma terrena sede! Oh quanto affanno
    Al gener tuo, padre infelice, e quale
    D'amarissimi casi ordine immenso
    Preparano i destini! Ecco di sangue
    Gli avari colti e di fraterno scempio
    Furor novello incesta, e le nefande
    Ali di morte il divo etere impara.
    Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
    Solitarie fuggendo e la secreta
    Nelle profonde selve ira de' venti,
    Primo i civili tetti, albergo e regno
    Alle macere cure, innalza; e primo
    Il disperato pentimento i ciechi
    Mortali egro, anelante, aduna e stringe
    Ne' consorti ricetti: onde negata
    L'improba mano al curvo aratro, e vili
    Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
    Scellerate occupò; ne' corpi inerti
    Domo il vigor natio, languide, ignave
    Giacquer le menti; e servitù le imbelli
    Umane vite, ultimo danno, accolse.

    E tu dall'etra infesto e dal mugghiante
    Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
    Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima
    Dall'aer cieco e da' natanti poggi
    Segno arrecò d'instaurata spene
    La candida colomba, e delle antiche
    Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,
    L'atro polo di vaga iri dipinse.
    Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
    Studi rinnova e le seguaci ambasce
    La riparata gente. Agl'inaccessi
    Regni del mar vendicatore illude
    Profana destra, e la sciagura e il pianto
    A novi liti e nove stelle insegna.

    Or te, padre de' pii, te giusto e forte,
    E di tuo seme i generosi alunni
    Medita il petto mio. Dirò siccome
    Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre
    Del riposato albergo, appo le molli
    Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
    Te de' celesti peregrini occulte
    Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio
    Della saggia Rebecca, in su la sera,
    Presso al rustico pozzo e nella dolce
    Di pastori e di lieti ozi frequente
    Aranitica valle, amor ti punse
    Della vezzosa Labanide: invitto
    Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni
    E di servaggio all'odiata soma
    Volenteroso il prode animo addisse.

    Fu certo, fu (nè d'error vano e d'ombra
    L'aonio canto e della fama il grido
    Pasce l'avida plebe) amica un tempo
    Al sangue nostro e dilettosa e cara
    Questa misera piaggia, ed aurea corse
    Nostra caduca età. Non che di latte
    Onda rigasse intemerata il fianco
    Delle balze materne, o con le greggi
    Mista la tigre ai consueti ovili
    Nè guidasse per gioco i lupi al fonte
    Il pastorel; ma di suo fato ignara
    E degli affanni suoi, vota d'affanno
    Visse l'umana stirpe; alle secrete
    Leggi del cielo e di natura indutto
    Valse l'ameno error, le fraudi, il molle
    Pristino velo; e di sperar contenta
    Nostra placida nave in porto ascese.

    Tal fra le vaste californie selve
    Nasce beata prole, a cui non sugge
    Pallida cura il petto, a cui le membra
    Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
    Nidi l'intima rupe, onde ministra
    L'irrigua valle, inopinato il giorno
    Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro
    Scellerato ardimento inermi regni
    Della saggia natura! I lidi e gli antri
    E le quiete selve apre l'invitto
    Nostro furor; le violate genti
    Al peregrino affanno, agl'ignorati
    Desiri educa; e la fugace, ignuda
    Felicità per l'imo sole incalza.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  12. #12
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    IX - ULTIMO CANTO DI SAFFO

    Placida notte, e verecondo raggio
    Della cadente luna; e tu che spunti
    Fra la tacita selva in su la rupe,
    Nunzio del giorno; oh dilettose e care
    Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
    Sembianze agli occhi miei; già non arride
    Spettacol molle ai disperati affetti.
    Noi l'insueto allor gaudio ravviva
    Quando per l'etra liquido si volve
    E per li campi trepidanti il flutto
    Polveroso de' Noti, e quando il carro,
    Grave carro di Giove a noi sul capo,
    Tonando, il tenebroso aere divide.
    Noi per le balze e le profonde valli
    Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
    Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
    Fiume alla dubbia sponda
    Il suono e la vittrice ira dell'onda.

    Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
    Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
    Infinita beltà parte nessuna
    Alla misera Saffo i numi e l'empia
    Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
    Vile, o natura, e grave ospite addetta,
    E dispregiata amante, alle vezzose
    Tue forme il core e le pupille invano
    Supplichevole intendo. A me non ride
    L'aprico margo, e dall'eterea porta
    Il mattutino albor; me non il canto
    De' colorati augelli, e non de' faggi
    Il murmure saluta: e dove all'ombra
    Degl'inchinati salici dispiega
    Candido rivo il puro seno, al mio
    Lubrico piè le flessuose linfe
    Disdegnando sottragge,
    E preme in fuga l'odorate spiagge.

    Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
    Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
    Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
    In che peccai bambina, allor che ignara
    Di misfatto è la vita, onde poi scemo
    Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
    Dell'indomita Parca si volvesse
    Il ferrigno mio stame? Incaute voci
    Spande il tuo labbro: i destinati eventi
    Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
    Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
    Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
    De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
    De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
    Alle amene sembianze eterno regno
    Diè nelle genti; e per virili imprese,
    Per dotta lira o canto,
    Virtù non luce in disadorno ammanto.

    Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
    Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
    E il crudo fallo emenderà del cieco
    Dispensator de' casi. E tu cui lungo
    Amore indarno, e lunga fede, e vano
    D'implacato desio furor mi strinse,
    Vivi felice, se felice in terra
    Visse nato mortal. Me non asperse
    Del soave licor del doglio avaro
    Giove, poi che perìr gl'inganni e il sogno
    Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
    Giorno di nostra età primo s'invola.
    Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
    Della gelida morte. Ecco di tante
    Sperate palme e dilettosi errori,
    Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
    Han la tenaria Diva,
    E l'atra notte, e la silente riva.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  13. #13
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    X - IL PRIMO AMORE

    Tornami a mente il dì che la battaglia
    D'amor sentii la prima volta, e dissi:
    Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

    Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
    Io mirava colei ch'a questo core
    Primiera il varco ed innocente aprissi.

    Ahi come mal mi governasti, amore!
    Perchè seco dovea sì dolce affetto
    Recar tanto desio, tanto dolore?

    E non sereno, e non intero e schietto,
    Anzi pien di travaglio e di lamento
    Al cor mi discendea tanto diletto?

    Dimmi, tenero core, or che spavento,
    Che angoscia era la tua fra quel pensiero
    Presso al qual t'era noia ogni contento?

    Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
    Ti si offeriva nella notte, quando
    Tutto queto parea nell'emisfero:

    Tu inquieto, e felice e miserando,
    M'affaticavi in su le piume il fianco,
    Ad ogni or fortemente palpitando.

    E dove io tristo ed affannato e stanco
    Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
    Rotto e deliro il sonno venia manco.

    Oh come viva in mezzo alle tenebre
    Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
    La contemplavan sotto alle palpebre!

    Oh come soavissimi diffusi
    Moti per l'ossa mi serpeano, oh come
    Mille nell'alma instabili, confusi

    Pensieri si volgean! qual tra le chiome
    D'antica selva zefiro scorrendo,
    Un lungo, incerto mormorar ne prome.

    E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
    Che dicevi, o mio cor, che si partia
    Quella per che penando ivi e battendo?

    Il cuocer non più tosto io mi sentia
    Della vampa d' amor, che il venticello
    Che l'aleggiava, volossene via.

    Senza sonno io giacea sul dì novello,
    E i destrier che dovean farmi deserto,
    Battean la zampa sotto al patrio ostello.

    Ed io timido e cheto ed inesperto,
    Ver lo balcone al buio protendea
    L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

    La voce ad ascoltar, se ne dovea
    Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;
    La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

    Quante volte plebea voce percosse
    Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
    E il core in forse a palpitar si mosse!

    E poi che finalmente mi discese
    La cara voce al core, e de' cavai
    E delle rote il romorio s'intese;

    Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
    Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
    Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

    Poscia traendo i tremuli ginocchi
    Stupidamente per la muta stanza,
    Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

    Amarissima allor la ricordanza
    Locommisi nel petto, e mi serrava
    Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

    E lunga doglia il sen mi ricercava,
    Com'è quando a distesa Olimpo piove
    Malinconicamente e i campi lava.

    Ned io ti conoscea, garzon di nove
    E nove Soli, in questo a pianger nato
    Quando facevi, amor, le prime prove.

    Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
    M'era degli astri il riso, o dell'aurora
    Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

    Anche di gloria amor taceami allora
    Nel petto, cui scaldar tanto solea,
    Che di beltade amor vi fea dimora.

    Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea,
    E quelli m'apparian vani per cui
    Vano ogni altro desir creduto avea.

    Deh come mai da me sì vario fui,
    E tanto amor mi tolse un altro amore?
    Deh quanto, in verità, vani siam nui!

    Solo il mio cor piaceami, e col mio core
    In un perenne ragionar sepolto,
    Alla guardia seder del mio dolore.

    E l'occhio a terra chino o in se raccolto,
    Di riscontrarsi fuggitivo e vago
    Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:

    Che la illibata, la candida imago
    Turbare egli temea pinta nel seno,
    Come all'aure si turba onda di lago.

    E quel di non aver goduto appieno
    Pentimento, che l'anima ci grava,
    E il piacer che passò cangia in veleno,

    Per li fuggiti dì mi stimolava
    Tuttora il sen: che la vergogna il duro
    Suo morso in questo cor già non oprava.

    Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
    Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
    Ch'arsi di foco intaminato e puro.

    Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
    Spira nel pensier mio la bella imago,
    Da cui, se non celeste, altro diletto

    Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  14. #14
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    XI - IL PASSERO SOLITARIO

    D'in su la vetta della torre antica,
    Passero solitario, alla campagna
    Cantando vai finchè non more il giorno;
    Ed erra l'armonia per questa valle.
    Primavera dintorno
    Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
    Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
    Odi greggi belar, muggire armenti;
    Gli altri augelli contenti, a gara insieme
    Per lo libero ciel fan mille giri,
    Pur festeggiando il lor tempo migliore:
    Tu pensoso in disparte il tutto miri;
    Non compagni, non voli,
    Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
    Canti, e così trapassi
    Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

    Oimè, quanto somiglia
    Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
    Della novella età dolce famiglia,
    E te german di giovinezza, amore,
    Sospiro acerbo de' provetti giorni
    Non curo, io non so come; anzi da loro
    Quasi fuggo lontano;
    Quasi romito, e strano
    Al mio loco natio,
    Passo del viver mio la primavera.
    Questo giorno ch'omai cede alla sera,
    Festeggiar si costuma al nostro borgo.
    Odi per lo sereno un suon di squilla,
    Odi spesso un tonar di ferree canne,
    Che rimbomba lontan di villa in villa.
    Tutta vestita a festa
    La gioventù del loco
    Lascia le case, e per le vie si spande;
    E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
    Io solitario in questa
    Rimota parte alla campagna uscendo,
    Ogni diletto e gioco
    Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
    Steso nell'aria aprica
    Mi fere il Sol che tra lontani monti,
    Dopo il giorno sereno,
    Cadendo si dilegua, e par che dica
    Che la beata gioventù vien meno.

    Tu, solingo augellin, venuto a sera
    Del viver che daranno a te le stelle,
    Certo del tuo costume
    Non ti dorrai; che di natura è frutto
    Ogni vostra vaghezza.
    A me, se di vecchiezza
    La detestata soglia
    Evitar non impetro,
    Quando muti questi occhi all'altrui core,
    E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
    Del dì presente più noioso e tetro,
    Che parrà di tal voglia?
    Che di quest'anni miei? che di me stesso?
    Ahi pentirommi, e spesso,
    Ma sconsolato, volgerommi indietro.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  15. #15
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    XII - L'INFINITO

    Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
    E questa siepe, che da tanta parte
    Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    Spazi di là da quella, e sovrumani
    Silenzi, e profondissima quiete
    Io nel pensier mi fingo; ove per poco
    Il cor non si spaura. E come il vento
    Odo stormir tra queste piante, io quello
    Infinito silenzio a questa voce
    Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
    E le morte stagioni, e la presente
    E viva, e il suon di lei. Così tra questa
    Immensità s'annega il pensier mio:
    E il naufragar m'è dolce in questo mare.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

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