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Discussione: Leopardi - Canti

  1. #16
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    XIII - LA SERA DEL DÌ DI FESTA

    Dolce e chiara è la notte e senza vento,
    E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
    Posa la luna, e di lontan rivela
    Serena ogni montagna. O donna mia,
    Già tace ogni sentiero, e pei balconi
    Rara traluce la notturna lampa:
    Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
    Nelle tue chete stanze; e non ti morde
    Cura nessuna; e già non sai nè pensi
    Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
    Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
    Appare in vista, a salutar m'affaccio,
    E l'antica natura onnipossente,
    Che mi fece all'affanno. A te la speme
    Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
    Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
    Questo dì fu solenne: or da' trastulli
    Prendi riposo; e forse ti rimembra
    In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
    Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
    Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
    Quanto a viver mi resti, e qui per terra
    Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
    In così verde etate! Ahi, per la via
    Odo non lunge il solitario canto
    Dell'artigian, che riede a tarda notte,
    Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
    E fieramente mi si stringe il core,
    A pensar come tutto al mondo passa,
    E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
    Il dì festivo, ed al festivo il giorno
    Volgar succede, e se ne porta il tempo
    Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
    Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
    De' nostri avi famosi, e il grande impero
    Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
    Che n'andò per la terra e l'oceano?
    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
    Il mondo, e più di lor non si ragiona.
    Nella mia prima età, quando s'aspetta
    Bramosamente il dì festivo, or poscia
    Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
    Premea le piume; ed alla tarda notte
    Un canto che s'udia per li sentieri
    Lontanando morire a poco a poco,
    Già similmente mi stringeva il core.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  2. #17
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    XIV - ALLA LUNA

    O graziosa luna, io mi rammento
    Che, or volge l'anno, sovra questo colle
    Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
    E tu pendevi allor su quella selva
    Siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    Il tuo volto apparia, che travagliosa
    Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
    O mia diletta luna. E pur mi giova
    La ricordanza, e il noverar l'etate
    Del mio dolore. Oh come grato occorre
    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    La speme e breve ha la memoria il corso,
    Il rimembrar delle passate cose,
    Ancor che triste, e che l'affanno duri!
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  3. #18
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    XV - IL SOGNO

    Era il mattino, e tra le chiuse imposte
    Per lo balcone insinuava il sole
    Nella mia cieca stanza il primo albore;
    Quando in sul tempo che più leve il sonno
    E più soave le pupille adombra,
    Stettemi allato e riguardommi in viso
    Il simulacro di colei che amore
    Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
    Morta non mi parea, ma trista, e quale
    Degl'infelici è la sembianza. Al capo
    Appressommi la destra, e sospirando,
    Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
    Serbi di noi? Donde, risposi, e come
    Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
    Di te mi dolse e duol: nè mi credea
    Che risaper tu lo dovessi; e questo
    Facea più sconsolato il dolor mio.
    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
    Sei tu quella di prima? E che ti strugge
    Internamente? Obblivione ingombra
    I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
    Disse colei. Son morta, e mi vedesti
    L'ultima volta, or son più lune. Immensa
    Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
    Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
    Certo si renda com'è tutta indarno
    L'umana speme. A desiar colei
    Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
    L'egro mortal; ma sconsolata arriva
    La morte ai giovanetti, e duro è il fato
    Di quella speme che sotterra è spenta.
    Vano è saper quel che natura asconde
    Agl'inesperti della vita, e molto
    All'immatura sapienza il cieco
    Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
    Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
    Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
    O mia diletta, ed io son vivo, ed era
    Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
    Cotesta cara e tenerella salma
    Provar dovesse, a me restasse intera
    Questa misera spoglia? Oh quante volte
    In ripensar che più non vivi, e mai
    Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
    Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
    Che morte s'addimanda? Oggi per prova
    Intenderlo potessi, e il capo inerme
    Agli atroci del fato odii sottrarre.
    Giovane son, ma si consuma e perde
    La giovanezza mia come vecchiezza;
    La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
    Ma poco da vecchiezza si discorda
    Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
    Disse, ambedue; felicità non rise
    Al viver nostro; e dilettossi il cielo
    De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
    Soggiunsi, e di pallor velato il viso
    Per la tua dipartita, e se d'angoscia
    Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
    Favilla alcuna, o di pietà, giammai
    Verso il misero amante il cor t'assalse
    Mentre vivesti? Io disperando allora
    E sperando traea le notti e i giorni;
    Oggi nel vano dubitar si stanca
    La mente mia. Che se una volta sola
    Dolor ti strinse di mia negra vita,
    Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
    La rimembranza or che il futuro è tolto
    Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
    O sventurato. Io di pietade avara
    Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
    Che fui misera anch'io. Non far querela
    Di questa infelicissima fanciulla.
    Per le sventure nostre, e per l'amore
    Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
    Nome di giovanezza e la perduta
    Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
    Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
    Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
    Di baci la ricopro, e d'affannosa
    Dolcezza palpitando all'anelante
    Seno la stringo, di sudore il volto
    Ferveva e il petto, nelle fauci stava
    La voce, al guardo traballava il giorno.
    Quando colei teneramente affissi
    Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
    Disse, che di beltà son fatta ignuda?
    E tu d'amore, o sfortunato, indarno
    Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
    Nostre misere menti e nostre salme
    Son disgiunte in eterno. A me non vivi
    E mai più non vivrai: già ruppe il fato
    La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
    Gridar volendo, e spasimando, e pregne
    Di sconsolato pianto le pupille,
    Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
    Pur mi restava, e nell'incerto raggio
    Del Sol vederla io mi credeva ancora.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  4. #19
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    XVII - CONSALVO

    Presso alla fin di sua dimora in terra,
    Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
    Del suo destino; or già non più, che a mezzo
    Il quinto lustro, gli pendea sul capo
    Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
    Così giacea nel funeral suo giorno
    Dai più diletti amici abbandonato:
    Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
    Resta a colui che della terra è schivo.
    Pur gli era al fianco, da pietà condotta
    A consolare il suo deserto stato,
    Quella che sola e sempre eragli a mente,
    Per divina beltà famosa Elvira;
    Conscia del suo poter, conscia che un guardo
    Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
    Ben mille volte ripetuto e mille
    Nel costante pensier, sostegno e cibo
    Esser solea dell'infelice amante:
    Benchè nulla d'amor parola udita
    Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
    Era del gran desio stato più forte
    Un sovrano timor. Così l'avea
    Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

    Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
    Alla sua lingua. Poichè certi i segni
    Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
    Lei, già mossa a partir, presa per mano,
    E quella man bianchissima stringendo,
    Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
    Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
    Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
    Qual maggior grazia mai delle tue cure
    Dar possa il labbro mio. Premio daratti
    Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
    Impallidia la bella, e il petto anelo
    Udendo le si fea: che sempre stringe
    All'uomo il cor dogliosamente, ancora
    Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
    Addio per sempre. E contraddir voleva,
    Dissimulando l'appressar del fato,
    Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
    Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
    Come sai, ripregata a me discende,
    Non temuta, la morte; e lieto apparmi
    Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
    Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
    Parto da te. Mi si divide il core
    In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
    Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
    Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
    Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
    In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
    Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi
    Potrò del dono, io semispento, a cui
    Straniera man le labbra oggi fra poco
    Eternamente chiuderà. Ciò detto
    Con un sospiro, all'adorata destra
    Le fredde labbra supplicando affisse.

    Stette sospesa e pensierosa in atto
    La bellissima donna; e fiso il guardo,
    Di mille vezzi sfavillante, in quello
    Tenea dell'infelice, ove l'estrema
    Lacrima rilucea. Nè dielle il core
    Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
    Rinacerbir col niego; anzi la vinse
    Misericordia dei ben noti ardori.
    E quel volto celeste, e quella bocca,
    Già tanto desiata, e per molt'anni
    Argomento di sogno e di sospiro,
    Dolcemente appressando al volto afflitto
    E scolorato dal mortale affanno,
    Più baci e più, tutta benigna e in vista
    D'alta pietà, su le convulse labbra
    Del trepido, rapito amante impresse.

    Che divenisti allor? quali appariro
    Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
    Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
    Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
    Postasi al cor, che gli ultimi battea
    Palpiti della morte e dell'amore,
    Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
    In su la terra ancor; ben quelle labbra
    Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
    Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
    Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
    Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
    Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
    Non a te, non altrui; che non si cela
    Vero amore alla terra. Assai palese
    Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
    Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
    Muto sarebbe l'infinito affetto
    Che governa il cor mio, se non l'avesse
    Fatto ardito il morir. Morrò contento
    Del mio destino omai, nè più mi dolgo
    Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
    Poscia che quella bocca alla mia bocca
    Premer fu dato. Anzi felice estimo
    La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
    Amore e morte. All'una il ciel mi guida
    In sul fior dell'età; nell'altro, assai
    Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
    Solo una volta il lungo amor quieto
    E pago avessi tu, fora la terra
    Fatta quindi per sempre un paradiso
    Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
    L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto
    Con riposato cor: che a sostentarla
    Bastato sempre il rimembrar sarebbe
    D'un solo istante, e il dir: felice io fui
    Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
    Esser beato non consente il cielo
    A natura terrena. Amar tant'oltre
    Non è dato con gioia. E ben per patto
    In poter del carnefice ai flagelli,
    Alle ruote, alle faci ito volando
    Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
    Nel paventato sempiterno scempio.

    O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
    Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
    Il sorriso d'amor! felice appresso
    Chi per te sparga con la vita il sangue!
    Lice, lice al mortal, non è già sogno
    Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
    Provar felicità. Ciò seppi il giorno
    Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
    Questo m'accadde. E non però quel giorno
    Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
    Quel fiero giorno biasimar sostenni.

    Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
    Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
    Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
    Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
    Dal misero Consalvo in sì gran tempo
    Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
    Come al nome d'Elvira, in cor gelando,
    Impallidir; come tremar son uso
    All'amaro calcar della tua soglia,
    A quella voce angelica, all'aspetto
    Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!
    Ma la lena e la vita or vengon meno
    Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
    Nè questo dì rimemorar m'è dato.
    Elvira, addio. Con la vital favilla
    La tua diletta immagine si parte
    Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
    Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
    Dimani all'annottar manda un sospiro.
    Tacque: nè molto andò, che a lui col suono
    Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
    Suo dì felice gli fuggia dal guardo.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  5. #20
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    Cara beltà che amore
    Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
    Fuor se nel sonno il core
    Ombra diva mi scuoti,
    O ne' campi ove splenda
    Più vago il giorno e di natura il riso;
    Forse tu l'innocente
    Secol beasti che dall'oro ha nome,
    Or leve intra la gente
    Anima voli? o te la sorte avara
    Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

    Viva mirarti omai
    Nulla speme m'avanza;
    S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
    Per novo calle a peregrina stanza
    Verrà lo spirto mio. Già sul novello
    Aprir di mia giornata incerta e bruna,
    Te viatrice in questo arido suolo
    Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
    Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
    Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
    Saria, così conforme, assai men bella.

    Fra cotanto dolore
    Quanto all'umana età propose il fato,
    Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
    Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
    Questo viver beato:
    E ben chiaro vegg'io siccome ancora
    Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
    L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
    Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
    E teco la mortal vita saria
    Simile a quella che nel cielo india.

    Per le valli, ove suona
    Del faticoso agricoltore il canto,
    Ed io seggo e mi lagno
    Del giovanile error che m'abbandona;
    E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
    I perduti desiri, e la perduta
    Speme de' giorni miei; di te pensando,
    A palpitar mi sveglio. E potess'io,
    Nel secol tetro e in questo aer nefando,
    L'alta specie serbar; che dell'imago,
    Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

    Se dell'eterne idee
    L'una sei tu, cui di sensibil forma
    Sdegni l'eterno senno esser vestita,
    E fra caduche spoglie
    Provar gli affanni di funerea vita;
    O s'altra terra ne' superni giri
    Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
    E più vaga del Sol prossima stella
    T'irraggia, e più benigno etere spiri;
    Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
    Questo d'ignoto amante inno ricevi.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  6. #21
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    XIX - AL CONTE CARLO PEPOLI

    Questo affannoso e travagliato sonno
    Che noi vita nomiam, come sopporti,
    Pepoli mio? di che speranze il core
    Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
    O gioconde o moleste opre dispensi
    L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
    Grave retaggio e faticoso? E' tutta,
    In ogni umano stato, ozio la vita,
    Se quell'oprar, quel procurar che a degno
    Obbietto non intende, o che all'intento
    Giunger mai non potria, ben si conviene
    Ozioso nomar. La schiera industre
    Cui franger glebe o curar piante e greggi
    Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
    Se oziosa dirai, da che sua vita
    E' per campar la vita, e per se sola
    La vita all'uom non ha pregio nessuno,
    Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
    Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
    Sudar nelle officine, ozio le vegghie
    Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
    E il mercatante avaro in ozio vive:
    Che non a se, non ad altrui, la bella
    Felicità, cui solo agogna e cerca
    La natura mortal, veruno acquista
    Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
    Pure all'aspro desire onde i mortali
    Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
    D'esser beati sospiraro indarno,
    Di medicina in loco apparecchiate
    Nella vita infelice avea natura
    Necessità diverse, a cui non senza
    Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
    Poi che lieto non può, corresse il giorno
    All'umana famiglia; onde agitato
    E confuso il desio, men loco avesse
    Al travagliarne il cor. Così de' bruti
    La progenie infinita, a cui pur solo,
    Nè men vano che a noi, vive nel petto
    Desio d'esser beati; a quello intenta
    Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
    Condur si scopre e men gravoso il tempo,
    Nè la lentezza accagionar dell'ore.
    Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
    Provveder commettiamo, una più grave
    Necessità, cui provveder non puote
    Altri che noi, già senza tedio e pena
    Non adempiam: necessitate, io dico,
    Di consumar la vita: improba, invitta
    Necessità, cui non tesoro accolto,
    Non di greggi dovizia, o pingui campi,
    Non aula puote e non purpureo manto
    Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
    I vóti anni prendendo, e la superna
    Luce odiando, l'omicida mano,
    I tardi fati a prevenir condotto,
    In se stesso non torce; al duro morso
    Della brama insanabile che invano
    Felicità richiede, esso da tutti
    Lati cercando, mille inefficaci
    Medicine procaccia, onde quell'una
    Cui natura apprestò, mal si compensa.
    Lui delle vesti e delle chiome il culto
    E degli atti e dei passi, e i vani studi
    Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
    Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
    Lui giochi e cene e invidiate danze
    Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
    Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
    Nell'imo petto, grave, salda, immota
    Come colonna adamantina, siede
    Noia immortale, incontro a cui non puote
    Vigor di giovanezza, e non la crolla
    Dolce parola di rosato labbro,
    E non lo sguardo tenero, tremante,
    Di due nere pupille, il caro sguardo,
    La più degna del ciel cosa mortale.

    Altri, quasi a fuggir volto la trista
    Umana sorte, in cangiar terre e climi
    L'età spendendo, e mari e poggi errando,
    Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
    Degli spazi che all'uom negl'infiniti
    Campi del tutto la natura aperse,
    Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
    Su l'alte prue la negra cura, e sotto
    Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
    Felicità, vive tristezza e regna.

    Havvi chi le crudeli opre di marte
    Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
    Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
    Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
    Con far misero altrui far se men tristo,
    Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
    E chi virtute o sapienza ed arti
    Perseguitando; e chi la propria gente
    Conculcando e l'estrane, o di remoti
    Lidi turbando la quiete antica
    Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
    La destinata sua vita consuma.

    Te più mite desio, cura più dolce
    Regge nel fior di gioventù, nel bello
    April degli anni, altrui giocondo e primo
    Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
    A chi patria non ha. Te punge e move
    Studio de' carmi e di ritrar parlando
    Il bel che raro e scarso e fuggitivo
    Appar nel mondo, e quel che più benigna
    Di natura e del ciel, fecondamente
    A noi la vaga fantasia produce
    E il nostro proprio error. Ben mille volte
    Fortunato colui che la caduca
    Virtù del caro immaginar non perde
    Per volger d'anni; a cui serbare eterna
    La gioventù del cor diedero i fati;
    Che nella ferma e nella stanca etade,
    Così come solea nell'età verde,
    In suo chiuso pensier natura abbella,
    Morte, deserto avviva. A te conceda
    Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
    La favilla che il petto oggi ti scalda,
    Di poesia canuto amante. Io tutti
    Della prima stagione i dolci inganni
    Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
    Le dilettose immagini, che tanto
    Amai, che sempre infino all'ora estrema
    Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
    Or quando al tutto irrigidito e freddo
    Questo petto sarà, nè degli aprichi
    Campi il sereno e solitario riso,
    Nè degli augelli mattutini il canto
    Di primavera, nè per colli e piagge
    Sotto limpido ciel tacita luna
    Commoverammi il cor; quando mi fia
    Ogni beltate o di natura o d'arte,
    Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
    Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
    Del mio solo conforto allor mendico,
    Altri studi men dolci, in ch'io riponga
    L'ingrato avanzò della ferrea vita,
    Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
    Destini investigar delle mortali
    E dell'eterne cose; a che prodotta,
    A che d'affanni e di miserie carca
    L'umana stirpe; a quale ultimo intento
    Lei spinga il fato e la natura; a cui
    Tanto nostro dolor diletti o giovi:
    Con quali ordini e leggi a che si volva
    Questo arcano universo; il qual di lode
    Colmano i saggi, io d'ammirar sono pago.

    In questo specolar gli ozi traendo
    Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
    Ha suoi diletti il vero. E se del vero
    Ragionando talor, fieno alle genti
    O mal grati i miei detti o non intesi,
    Non mi dorrò, che già del tutto il vago
    Desio di gloria antico in me fia spento:
    Vana Diva non pur, ma di fortuna
    E del fato e d'amor, Diva più cieca.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  7. #22
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    XX - IL RISORGIMENTO

    Credei ch'al tutto fossero
    In me, sul fior degli anni,
    Mancati i dolci affanni
    Della mia prima età:
    I dolci affanni, i teneri
    Moti del cor profondo,
    Qualunque cosa al mondo
    Grato il sentir ci fa.

    Quante querele e lacrime
    Sparsi nel novo stato,
    Quando al mio cor gelato
    Prima il dolor mancò!
    Mancàr gli usati palpiti,
    L'amor mi venne meno,
    E irrigidito il seno
    di sospirar cessò!

    Piansi spogliata, esanime
    Fatta per me la vita;
    La terra inaridita,
    Chiusa in eterno gel;
    Deserto il dì; la tacita
    Notte più sola e bruna;
    Spenta per me la luna,
    Spente le stelle in ciel.

    Pur di quel pianto origine
    Era l'antico affetto:
    Nell'intimo del petto
    Ancor viveva il cor.
    Chiedea l'usate immagini
    La stanca fantasia;
    E la tristezza mia
    Era dolore ancor.

    Fra poco in me quell'ultimo
    dolore anco fu spento,
    E di più far lamento
    Valor non mi restò.
    Giacqui: insensato, attonito,
    Non dimandai conforto:
    Quasi perduto e morto,
    Il cor s'abbandonò.

    Qual fui! quanto dissimile
    Da quel che tanto ardore,
    Che sì beato errore
    Nutrii nell'alma un dì!
    La rondinella vigile,
    Alle finestre intorno
    Cantando al novo giorno,
    Il cor non mi ferì:

    Non all'autunno pallido
    In solitaria villa,
    La vespertina squilla,
    Il fuggitivo Sol.
    Invan brillare il vespero
    Vidi per muto calle,
    Invan sonò la valle
    Del flebile usignol.

    E voi, pupille tenere,
    Sguardi furtivi, erranti,
    Voi de' gentili amanti
    Primo, immortale amor,
    Ed alla mano offertami
    Candida ignuda mano,
    Foste voi pure invano
    Al duro mio sopor.

    D'ogni dolcezza vedovo,
    Tristo; ma non turbato,
    Ma placido il mio stato,
    Il volto era seren.
    Desiderato il termine
    Avrei del viver mio;
    Ma spento era il desio
    Nello spossato sen.

    Qual dell'età decrepita
    L'avanzo ignudo e vile,
    Io conducea l'aprile
    Degli anni miei così:
    Così quegl'ineffabili
    Giorni, o mio cor, traevi,
    Che sì fugaci e brevi
    Il cielo a noi sortì.

    Chi dalla grave, immemore
    Quiete or mi ridesta?
    Che virtù nova è questa,
    Questa che sento in me?
    Moti soavi, immagini,
    Palpiti, error beato,
    Per sempre a voi negato
    Questo mio cor non è?

    Siete pur voi quell'unica
    Luce de' giorni miei?
    Gli affetti ch'io perdei
    Nella novella età?
    Se al ciel, s'ai verdi margini,
    Ovunque il guardo mira,
    Tutto un dolor mi spira,
    Tutto un piacer mi dà.

    Meco ritorna a vivere
    La piaggia, il bosco, il monte;
    Parla al mio core il fonte,
    Meco favella il mar.
    Chi mi ridona il piangere
    Dopo cotanto obblio?
    E come al guardo mio
    Cangiato il mondo appar?

    Forse la speme, o povero
    Mio cor, ti volse un riso?
    Ahi della speme il viso
    Io non vedrò mai più.
    Proprii mi diede i palpiti,
    Natura, e i dolci inganni.
    Sopiro in me gli affanni
    L'ingenita virtù;

    Non l'annullàr: non vinsela
    Il fato e la sventura;
    Non con la vista impura
    L'infausta verità.
    Dalle mie vaghe immagini
    So ben ch'ella discorda:
    So che natura è sorda,
    Che miserar non sa.

    Che non del ben sollecita
    Fu, ma dell'esser solo:
    Purchè ci serbi al duolo,
    Or d'altro a lei non cal.
    So che pietà fra gli uomini
    Il misero non trova;
    Che lui, fuggendo, a prova
    Schernisce ogni mortal.

    Che ignora il tristo secolo
    Gl'ingegni e le virtudi;
    Che manca ai degni studi
    L'ignuda gloria ancor.
    E voi, pupille tremule,
    Voi, raggio sovrumano,
    So che splendete invano,
    Che in voi non brilla amor.

    Nessuno ignoto ed intimo
    Affetto in voi non brilla:
    Non chiude una favilla
    Quel bianco petto in se.
    Anzi d'altrui le tenere
    Cure suol porre in gioco;
    E d'un celeste foco
    Disprezzo è la mercè.

    Pur sento in me rivivere
    Gl'inganni aperti e noti;
    E de' suoi proprii moti
    Si maraviglia il sen.
    Da te, mio cor, quest'ultimo
    Spirto, e l'ardor natio,
    Ogni conforto mio
    Solo da te mi vien.
    Mancano, il sento, all'anima
    Alta, gentile e pura,
    La sorte, la natura,
    Il mondo e la beltà.
    Ma se tu vivi, o misero,
    Se non concedi al fato,
    Non chiamerò spietato
    chi lo spirar mi dà.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  8. #23
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    XXI - A SILVIA

    Silvia, rimembri ancora
    Quel tempo della tua vita mortale,
    Quando beltà splendea
    Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
    E tu, lieta e pensosa, il limitare
    Di gioventù salivi?

    Sonavan le quiete
    Stanze, e le vie dintorno,
    Al tuo perpetuo canto,
    Allor che all'opre femminili intenta
    Sedevi, assai contenta
    Di quel vago avvenir che in mente avevi.
    Era il maggio odoroso: e tu solevi
    Così menare il giorno.

    Io gli studi leggiadri
    Talor lasciando e le sudate carte,
    Ove il tempo mio primo
    E di me si spendea la miglior parte,
    D'in su i veroni del paterno ostello
    Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
    Ed alla man veloce
    Che percorrea la faticosa tela.
    Mirava il ciel sereno,
    Le vie dorate e gli orti,
    E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
    Lingua mortal non dice
    Quel ch'io sentiva in seno.

    Che pensieri soavi,
    Che speranze, che cori, o Silvia mia!
    Quale allor ci apparia
    La vita umana e il fato!
    Quando sovviemmi di cotanta speme,
    Un affetto mi preme
    Acerbo e sconsolato,
    E tornami a doler di mia sventura.
    O natura, o natura,
    Perchè non rendi poi
    Quel che prometti allor? perchè di tanto
    Inganni i figli tuoi?

    Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
    Da chiuso morbo combattuta e vinta,
    Perivi, o tenerella. E non vedevi
    Il fior degli anni tuoi;
    Non ti molceva il core
    La dolce lode or delle negre chiome,
    Or degli sguardi innamorati e schivi;
    Nè teco le compagne ai dì festivi
    Ragionavan d'amore

    Anche peria fra poco
    La speranza mia dolce: agli anni miei
    Anche negaro i fati
    La giovanezza. Ahi come,
    Come passata sei,
    Cara compagna dell'età mia nova,
    Mia lacrimata speme!
    Questo è quel mondo? questi
    I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
    Onde cotanto ragionammo insieme?
    Questa la sorte dell'umane genti?
    All'apparir del vero
    Tu, misera, cadesti: e con la mano
    La fredda morte ed una tomba ignuda
    Mostravi di lontano.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 20:32
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  9. #24
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    XXII - LE RICORDANZE

    Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
    Tornare ancor per uso a contemplarvi
    Sul paterno giardino scintillanti,
    E ragionar con voi dalle finestre
    Di questo albergo ove abitai fanciullo,
    E delle gioie mie vidi la fine.
    Quante immagini un tempo, e quante fole
    Creommi nel pensier l'aspetto vostro
    E delle luci a voi compagne! allora
    Che, tacito, seduto in verde zolla,
    Delle sere io solea passar gran parte
    Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
    Della rana rimota alla campagna!
    E la lucciola errava appo le siepi
    E in su l'aiuole, susurrando al vento
    I viali odorati, ed i cipressi
    Là nella selva; e sotto al patrio tetto
    Sonavan voci alterne, e le tranquille
    Opre de' servi. E che pensieri immensi,
    Che dolci sogni mi spiro' la vista
    Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
    Che di qua scopro, e che varcare un giorno
    Io mi pensava, arcani mondi, arcana
    Felicità fingendo al viver mio!
    Ignaro del mio fato, e quante volte
    Questa mia vita dolorosa e nuda
    Volentier con la morte avrei cangiato.

    Né mi diceva il cor che l'età verde
    Sarei dannato a consumare in questo
    Natio borgo selvaggio, intra una gente
    Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
    Argomento di riso e di trastullo,
    Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
    Per invidia non già, che non mi tiene
    Maggior di se, ma perché tale estima
    Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
    A persona giammai non ne fo segno.
    Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
    Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
    Tra lo stuol de' malevoli divengo:
    Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
    E sprezzator degli uomini mi rendo,
    Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
    Il caro tempo giovanil; più caro
    Che la fama e l'allor, più che la pura
    Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
    Senza un diletto, inutilmente, in questo
    Soggiorno disumano, intra gli affanni,
    O dell'arida vita unico fiore.

    Viene il vento recando il suon dell'ora
    Dalla torre del borgo. Era conforto
    Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
    Quando fanciullo, nella buia stanza,
    Per assidui terrori io vigilava,
    Sospirando il mattin. Qui non è cosa
    Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
    Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
    Dolce per se; ma con dolor sottentra
    Il pensier del presente, un van desio
    Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
    Quella loggia colà, volta agli estremi
    Raggi del dė; queste dipinte mura,
    Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
    Su romita campagna, agli ozi miei
    Porser mille diletti allor che al fianco
    M'era, parlando, il mio possente errore
    Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
    Al chiaror delle nevi, intorno a queste
    Ampie finestre sibilando il vento,
    Rimbombaro i sollazzi e le festose
    Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
    Mistero delle cose a noi si mostra
    Pien di dolcezza; indelibata, intera
    Il garzoncel, come inesperto amante,
    La sua vita ingannevole vagheggia,
    E celeste beltà fingendo ammira.

    O speranze, speranze; ameni inganni
    Della mia prima età! sempre, parlando,
    Ritorno a voi; che per andar di tempo,
    Per variar d'affetti e di pensieri,
    Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
    Son la gloria e l'onor; diletti e beni
    Mero desio; non ha la vita un frutto,
    Inutile miseria. E sebben vóti
    Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
    Il mio stato mortal, poco mi toglie
    La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
    A voi ripenso, o mie speranze antiche,
    Ed a quel caro immaginar mio primo;
    Indi riguardo il viver mio sė vile
    E sė dolente, e che la morte è quello
    Che di cotanta speme oggi m'avanza;
    Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
    Consolarmi non so del mio destino.
    E quando pur questa invocata morte
    Sarammi allato, e sarà giunto il fine
    Della sventura mia; quando la terra
    Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
    Fuggira' l'avvenir; di voi per certo
    Risovverrammi; e quell'imago ancora
    Sospirar mi farà, farammi acerbo
    L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
    Del dė fatal temperera' d'affanno.

    E già nel primo giovanil tumulto
    Di contenti, d'angosce e di desio,
    Morte chiamai più volte, e lungamente
    Mi sedetti colà su la fontana
    Pensoso di cessar dentro quell'acque
    La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
    Malor, condotto della vita in forse,
    Piansi la bella giovanezza, e il fiore
    De' miei poveri dė, che sė per tempo
    Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
    Sul conscio letto, dolorosamente
    Alla fioca lucerna poetando,
    Lamentai co' silenzi e con la notte
    Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
    In sul languir cantai funereo canto.
    [Ndr: cfr. L'appressamento della morte, 1818]

    Chi rimembrar vi può senza sospiri,
    O primo entrar di giovinezza, o giorni
    Vezzosi, inenarrabili, allor quando
    Al rapito mortal primieramente
    Sorridon le donzelle; a gara intorno
    Ogni cosa sorride; invidia tace,
    Non desta ancora ovver benigna; e quasi
    (Inusitata maraviglia!) il mondo
    La destra soccorrevole gli porge,
    Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
    Suo venir nella vita, ed inchinando
    Mostra che per signor l'accolga e chiami?
    Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
    Son dileguati. E qual mortale ignaro
    Di sventura esser può, se a lui già scorsa
    Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
    Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

    O Nerina! e di te forse non odo
    Questi luoghi parlar? caduta forse
    Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
    Che qui sola di te la ricordanza
    Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
    Questa Terra natal: quella finestra,
    Ond'eri usata favellarmi, ed onde
    Mesto riluce delle stelle il raggio,
    E' deserta. Ove sei, che più non odo
    La tua voce sonar, siccome un giorno,
    Quando soleva ogni lontano accento
    Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
    Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
    Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
    Il passar per la terra oggi è sortito,
    E l'abitar questi odorati colli.
    Ma rapida passasti; e come un sogno
    Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
    La gioia ti splendea, splendea negli occhi
    Quel confidente immaginar, quel lume
    Di gioventù, quando spegneali il fato,
    E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
    L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
    Se a radunanze io movo, infra me stesso
    Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
    Tu non ti acconci più, tu più non movi.
    Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
    Van gli amanti recando alle fanciulle,
    Dico: Nerina mia, per te non torna
    Primavera giammai, non torna amore.
    Ogni giorno sereno, ogni fiorita
    Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
    Dico: Nerina or più non gode; i campi,
    L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
    Sospiro mio: passasti: e fia compagna
    D'ogni mio vago immaginar, di tutti
    I miei teneri sensi, i tristi e cari
    Moti del cor, la rimembranza acerba.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 20:35
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  10. #25
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    XXIII - CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA

    Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
    Silenziosa luna?
    Sorgi la sera, e vai,
    Contemplando i deserti; indi ti posi.
    Ancor non sei tu paga
    Di riandare i sempiterni calli?
    Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
    Di mirar queste valli?
    Somiglia alla tua vita
    La vita del pastore.
    Sorge in sul primo albore
    Move la greggia oltre pel campo, e vede
    Greggi, fontane ed erbe;
    Poi stanco si riposa in su la sera:
    Altro mai non ispera.
    Dimmi, o luna: a che vale
    Al pastor la sua vita,
    La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
    Questo vagar mio breve,
    Il tuo corso immortale?

    Vecchierel bianco, infermo,
    Mezzo vestito e scalzo,
    Con gravissimo fascio in su le spalle,
    Per montagna e per valle,
    Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
    Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
    L'ora, e quando poi gela,
    Corre via, corre, anela,
    Varca torrenti e stagni,
    Cade, risorge, e più e più s'affretta,
    Senza posa o ristoro,
    Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
    Colà dove la via
    E dove il tanto affaticar fu volto:
    Abisso orrido, immenso,
    Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
    Vergine luna, tale
    E' la vita mortale.

    Nasce l'uomo a fatica,
    Ed è rischio di morte il nascimento.
    Prova pena e tormento
    Per prima cosa; e in sul principio stesso
    La madre e il genitore
    Il prende a consolar dell'esser nato.
    Poi che crescendo viene,
    L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
    Con atti e con parole
    Studiasi fargli core,
    E consolarlo dell'umano stato:
    Altro ufficio più grato
    Non si fa da parenti alla lor prole.
    Ma perchè dare al sole,
    Perchè reggere in vita
    Chi poi di quella consolar convenga?
    Se la vita è sventura,
    Perchè da noi si dura?
    Intatta luna, tale
    E' lo stato mortale.
    Ma tu mortal non sei,
    E forse del mio dir poco ti cale.

    Pur tu, solinga, eterna peregrina,
    Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
    Questo viver terreno,
    Il patir nostro, il sospirar, che sia;
    Che sia questo morir, questo supremo
    Scolorar del sembiante,
    E perir dalla terra, e venir meno
    Ad ogni usata, amante compagnia.
    E tu certo comprendi
    Il perchè delle cose, e vedi il frutto
    Del mattin, della sera,
    Del tacito, infinito andar del tempo.
    Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
    Rida la primavera,
    A chi giovi l'ardore, e che procacci
    Il verno co' suoi ghiacci.
    Mille cose sai tu, mille discopri,
    Che son celate al semplice pastore.
    Spesso quand'io ti miro
    Star così muta in sul deserto piano,
    Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
    Ovver con la mia greggia
    Seguirmi viaggiando a mano a mano;
    E quando miro in cielo arder le stelle;
    Dico fra me pensando:
    A che tante facelle?
    Che fa l'aria infinita, e quel profondo
    Infinito seren? che vuol dir questa
    Solitudine immensa? ed io che sono?
    Così meco ragiono: e della stanza
    Smisurata e superba,
    E dell'innumerabile famiglia;
    Poi di tanto adoprar, di tanti moti
    D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
    Girando senza posa,
    Per tornar sempre là donde son mosse;
    Uso alcuno, alcun frutto
    Indovinar non so. Ma tu per certo,
    Giovinetta immortal, conosci il tutto.
    Questo io conosco e sento,
    Che degli eterni giri,
    Che dell'esser mio frale,
    Qualche bene o contento
    Avrà fors'altri; a me la vita è male.

    O greggia mia che posi, oh te beata,
    Che la miseria tua, credo, non sai!
    Quanta invidia ti porto!
    Non sol perchè d'affanno
    Quasi libera vai;
    Ch'ogni stento, ogni danno,
    Ogni estremo timor subito scordi;
    Ma più perchè giammai tedio non provi.
    Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
    Tu se' queta e contenta;
    E gran parte dell'anno
    Senza noia consumi in quello stato.
    Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
    E un fastidio m'ingombra
    La mente, ed uno spron quasi mi punge
    Sì che, sedendo, più che mai son lunge
    Da trovar pace o loco.
    E pur nulla non bramo,
    E non ho fino a qui cagion di pianto.
    Quel che tu goda o quanto,
    Non so già dir; ma fortunata sei.
    Ed io godo ancor poco,
    O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
    Se tu parlar sapessi, io chiederei:
    Dimmi: perchè giacendo
    A bell'agio, ozioso,
    S'appaga ogni animale;
    Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

    Forse s'avess'io l'ale
    Da volar su le nubi,
    E noverar le stelle ad una ad una,
    O come il tuono errar di giogo in giogo,
    Più felice sarei, dolce mia greggia,
    Più felice sarei, candida luna.
    O forse erra dal vero,
    Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
    Forse in qual forma, in quale
    Stato che sia, dentro covile o cuna,
    E' funesto a chi nasce il dì natale.
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 20:41
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  11. #26
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    XXIV - LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

    Passata è la tempesta:
    Odo augelli far festa, e la gallina,
    Tornata in su la via,
    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
    Rompe là da ponente, alla montagna;
    Sgombrasi la campagna,
    E chiaro nella valle il fiume appare.
    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
    Risorge il romorio
    Torna il lavoro usato.
    L'artigiano a mirar l'umido cielo,
    Con l'opra in man, cantando,
    Fassi in su l'uscio; a prova
    Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
    Della novella piova;
    E l'erbaiuol rinnova
    Di sentiero in sentiero
    Il grido giornaliero.
    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
    Apre terrazzi e logge la famiglia:
    E, dalla via corrente, odi lontano
    Tintinnio di sonagli; il carro stride
    Del passegger che il suo cammin ripiglia.

    Si rallegra ogni core.
    Sì dolce, sì gradita
    Quand'è, com'or, la vita?
    Quando con tanto amore
    L'uomo a' suoi studi intende?
    O torna all'opre? o cosa nova imprende?
    Quando de' mali suoi men si ricorda?
    Piacer figlio d'affanno;
    Gioia vana, ch'è frutto
    Del passato timore, onde si scosse
    E paventò la morte
    Chi la vita abborria;
    Onde in lungo tormento,
    Fredde, tacite, smorte,
    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
    Mossi alle nostre offese
    Folgori, nembi e vento.

    O natura cortese,
    Son questi i doni tuoi,
    Questi i diletti sono
    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
    E' diletto fra noi.
    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
    Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
    Che per mostro e miracolo talvolta
    Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
    Prole cara agli eterni! assai felice
    Se respirar ti lice
    D'alcun dolor: beata
    Se te d'ogni dolor morte risana.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  12. #27
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    Doppio
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 20:28
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  13. #28
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    XXV - IL SABATO DEL VILLAGGIO

    La donzelletta vien dalla campagna,
    In sul calar del sole,
    Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
    Un mazzolin di rose e di viole,
    Onde, siccome suole,
    Ornare ella si appresta
    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
    Siede con le vicine
    Su la scala a filar la vecchierella,
    Incontro là dove si perde il giorno;
    E novellando vien del suo buon tempo,
    Quando ai dì della festa ella si ornava,
    Ed ancor sana e snella
    Solea danzar la sera intra di quei
    Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
    Già tutta l'aria imbruna,
    Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
    Giù da' colli e da' tetti,
    Al biancheggiar della recente luna.
    Or la squilla dà segno
    Della festa che viene;
    Ed a quel suon diresti
    Che il cor si riconforta.
    I fanciulli gridando
    Su la piazzuola in frotta,
    E qua e là saltando,
    Fanno un lieto romore:
    E intanto riede alla sua parca mensa,
    Fischiando, il zappatore,
    E seco pensa al dì del suo riposo.

    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
    E tutto l'altro tace,
    Odi il martel picchiare, odi la sega
    Del legnaiuol, che veglia
    Nella chiusa bottega alla lucerna,
    E s'affretta, e s'adopra
    Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

    Questo di sette è il più gradito giorno,
    Pien di speme e di gioia:
    Diman tristezza e noia
    Recheran l'ore, ed al travaglio usato
    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

    Garzoncello scherzoso,
    Cotesta età fiorita
    E' come un giorno d'allegrezza pieno,
    Giorno chiaro, sereno,
    Che precorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio; stato soave,
    Stagion lieta è cotesta.
    Altro dirti non vo'; ma la tua festa
    Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  14. #29
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    XXVI - IL PENSIERO DOMINANTE

    Dolcissimo, possente
    Dominator di mia profonda mente;
    Terribile, ma caro
    Dono del ciel; consorte
    Ai lúgubri miei giorni,
    Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

    Di tua natura arcana
    Chi non favella? Il suo poter fra noi
    Chi non sentì? Pur sempre
    Che in dir gli effetti suoi
    Le umane lingue il sentir propio sprona,
    Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

    Come solinga è fatta
    La mente mia d'allora
    Che tu quivi prendesti a far dimora!
    Ratto d'intorno intorno al par del lampo
    Gli altri pensieri miei
    Tutti si dileguàr. Siccome torre
    In solitario campo,
    Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

    Che divenute son, fuor di te solo,
    Tutte l'opre terrene,
    Tutta intera la vita al guardo mio!
    Che intollerabil noia
    Gli ozi, i commerci usati,
    E di vano piacer la vana spene,
    Allato a quella gioia,
    Gioia celeste che da te mi viene!

    Come da' nudi sassi
    Dello scabro Apennino
    A un campo verde che lontan sorrida
    Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
    Tal io dal secco ed aspro
    Mondano conversar vogliosamente,
    Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
    E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

    Quasi incredibil parmi
    Che la vita infelice e il mondo sciocco
    Già per gran tempo assai
    Senza te sopportai;
    Quasi intender non posso
    Come d'altri desiri,
    Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

    Giammai d'allor che in pria
    Questa vita che sia per prova intesi,
    Timor di morte non mi strinse il petto.
    Oggi mi pare un gioco
    Quella che il mondo inetto,
    Talor lodando, ognora abborre e trema,
    Necessitade estrema;
    E se periglio appar, con un sorriso
    Le sue minacce a contemplar m'affiso.
    Sempre i codardi, e l'alme
    Ingenerose, abbiette
    Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
    Subito i sensi miei;
    Move l'alma ogni esempio
    Dell'umana viltà subito a sdegno.
    Di questa età superba,
    Che di vote speranze si nutrica,
    Vaga di ciance, e di virtù nemica;
    Stolta, che l'util chiede,
    E inutile la vita
    Quindi più sempre divenir non vede;
    Maggior mi sento. A scherno
    Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
    A' bei pensieri infesto,
    E degno tuo disprezzator, calpesto.

    A quello onde tu movi,
    Quale affetto non cede?
    Anzi qual altro affetto
    Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
    Avarizia, superbia, odio, disdegno,
    Studio d'onor, di regno,
    Che sono altro che voglie
    Al paragon di lui? Solo un affetto
    Vive tra noi: quest'uno,
    Prepotente signore,
    Dieder l'eterne leggi all'uman core.

    Pregio non ha, non ha ragion la vita
    Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
    Sola discolpa al fato,
    Che noi mortali in terra
    Pose a tanto patir senz'altro frutto;
    Solo per cui talvolta,
    Non alla gente stolta, al cor non vile
    La vita della morte è più gentile.

    Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
    Provar gli umani affanni,
    E sostener molt'anni
    Questa vita mortal, fu non indegno;
    Ed ancor tornerei,
    Così qual son de' nostri mali esperto,
    Verso un tal segno a incominciare il corso:
    Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
    Giammai finor sì stanco
    Per lo mortal deserto
    Non venni a te, che queste nostre pene
    Vincer non mi paresse un tanto bene.
    Che mondo mai, che nova
    Immensità, che paradiso è quello
    Là dove spesso il tuo stupendo incanto
    Parmi innalzar! dov'io,
    Sott'altra luce che l'usata errando,
    Il mio terreno stato
    E tutto quanto il ver pongo in obblio!
    Tali son, credo, i sogni
    Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno
    In molta parte onde s'abbella il vero
    Sei tu, dolce pensiero;
    Sogno e palese error. Ma di natura,
    Infra i leggiadri errori,
    Divina sei; perchè sì viva e forte,
    Che incontro al ver tenacemente dura,
    E spesso al ver s'adegua,
    Nè si dilegua pria, che in grembo a morte.

    E tu per certo, o mio pensier, tu solo
    Vitale ai giorni miei,
    Cagion diletta d'infiniti affanni,
    Meco sarai per morte a un tempo spento:
    Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento
    Che in perpetuo signor dato mi sei.
    Altri gentili inganni
    Soleami il vero aspetto
    Più sempre infievolir. Quanto più torno
    A riveder colei
    Della qual teco ragionando io vivo,
    Cresce quel gran diletto,
    Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
    Angelica beltade!
    Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
    Quasi una finta imago
    Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
    D'ogni altra leggiadria,
    Sola vera beltà parmi che sia.

    Da che ti vidi pria,
    Di qual mia seria cura ultimo obbietto
    Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
    Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
    La tua sovrana imago
    Quante volte mancò? Bella qual sogno,
    Angelica sembianza,
    Nella terrena stanza,
    Nell'alte vie dell'universo intero,
    Che chiedo io mai, che spero
    Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
    Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  15. #30
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    XXVII - AMORE E MORTE

    Muor giovane colui ch'al cielo è caro
    MENANDRO.

    Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
    Ingenerò la sorte.
    Cose quaggiù sì belle
    Altre il mondo non ha, non han le stelle.
    Nasce dall'uno il bene,
    Nasce il piacer maggiore
    Che per lo mar dell'essere si trova;
    L'altra ogni gran dolore,
    Ogni gran male annulla.
    Bellissima fanciulla,
    Dolce a veder, non quale
    La si dipinge la codarda gente,
    Gode il fanciullo Amore
    Accompagnar sovente;
    E sorvolano insiem la via mortale,
    Primi conforti d'ogni saggio core.
    Nè cor fu mai più saggio
    Che percosso d'amor, nè mai più forte
    Sprezzò l'infausta vita,
    Nè per altro signore
    Come per questo a perigliar fu pronto:
    Ch'ove tu porgi aita,
    Amor, nasce il coraggio,
    O si ridesta; e sapiente in opre,
    Non in pensiero invan, siccome suole,
    Divien l'umana prole.

    Quando novellamente
    Nasce nel cor profondo
    Un amoroso affetto,
    Languido e stanco insiem con esso in petto
    Un desiderio di morir si sente:
    Come, non so: ma tale
    D'amor vero e possente è il primo effetto.
    Forse gli occhi spaura
    Allor questo deserto: a se la terra
    Forse il mortale inabitabil fatta
    Vede omai senza quella
    Nova, sola, infinita
    Felicità che il suo pensier figura:
    Ma per cagion di lei grave procella
    Presentendo in suo cor, brama quiete,
    Brama raccorsi in porto
    Dinanzi al fier disio,
    Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

    Poi, quando tutto avvolge
    La formidabil possa,
    E fulmina nel cor l'invitta cura,
    Quante volte implorata
    Con desiderio intenso,
    Morte, sei tu dall'affannoso amante!
    Quante la sera, e quante
    Abbandonando all'alba il corpo stanco,
    Se beato chiamò s'indi giammai
    Non rilevasse il fianco,
    Nè tornasse a veder l'amara luce!
    E spesso al suon della funebre squilla,
    Al canto che conduce
    La gente morta al sempiterno obblio,
    Con più sospiri ardenti
    Dall'imo petto invidiò colui
    Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
    Fin la negletta plebe,
    L'uom della villa, ignaro
    D'ogni virtù che da saper deriva,
    Fin la donzella timidetta e schiva,
    Che già di morte al nome
    Sentì rizzar le chiome,
    Osa alla tomba, alle funeree bende
    Fermar lo sguardo di costanza pieno,
    Osa ferro e veleno
    Meditar lungamente,
    E nell'indotta mente
    La gentilezza del morir comprende.
    Tanto alla morte inclina
    D'amor la disciplina. Anco sovente,
    A tal venuto il gran travaglio interno
    Che sostener nol può forza mortale,
    O cede il corpo frale
    Ai terribili moti, e in questa forma
    Pel fraterno poter Morte prevale;
    O così sprona Amor là nel profondo,
    Che da se stessi il villanello ignaro,
    La tenera donzella
    Con la man violenta
    Pongon le membra giovanili in terra.
    Ride ai lor casi il mondo,
    A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

    Ai fervidi, ai felici,
    Agli animosi ingegni
    L'uno o l'altro di voi conceda il fato,
    Dolci signori, amici
    All'umana famiglia,
    Al cui poter nessun poter somiglia
    Nell'immenso universo, e non l'avanza,
    Se non quella del fato, altra possanza.
    E tu, cui già dal cominciar degli anni
    Sempre onorata invoco,
    Bella Morte, pietosa
    Tu sola al mondo dei terreni affanni,
    Se celebrata mai
    Fosti da me, s'al tuo divino stato
    L'onte del volgo ingrato
    Ricompensar tentai,
    Non tardar più, t'inchina
    A disusati preghi,
    Chiudi alla luce omai
    Questi occhi tristi, o dell'età reina.
    Me certo troverai, qual si sia l'ora
    Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
    Erta la fronte, armato,
    E renitente al fato,
    La man che flagellando si colora
    Nel mio sangue innocente
    Non ricolmar di lode,
    Non benedir, com'usa
    Per antica viltà l'umana gente;
    Ogni vana speranza onde consola
    Se coi fanciulli il mondo,
    Ogni conforto stolto
    Gittar da me; null'altro in alcun tempo
    Sperar, se non te sola;
    Solo aspettar sereno
    Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto
    Nel tuo virgineo seno.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

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