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Discussione: Leopardi - Canti

  1. #31
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    XXVIII - A SE' STESSO

    Or poserai per sempre,
    Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
    Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
    In noi di cari inganni,
    Non che la speme, il desiderio è spento.
    Posa per sempre. Assai
    Palpitasti. Non val cosa nessuna
    I moti tuoi, nè di sospiri è degna
    La terra. Amaro e noia
    La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
    T'acqueta omai. Dispera
    L'ultima volta. Al gener nostro il fato
    Non donò che il morire. Omai disprezza
    Te, la natura, il brutto
    Poter che, ascoso, a comun danno impera,
    E l'infinita vanità del tutto.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  2. #32
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    XIX - ASPASIA

    Torna dinanzi al mio pensier talora
    Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
    Per abitati lochi a me lampeggia
    In altri volti; o per deserti campi,
    Al dì sereno, alle tacenti stelle,
    Da soave armonia quasi ridesta,
    Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
    Quella superba vision risorge.
    Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
    Mia delizia ed erinni! E mai non sento
    Mover profumo di fiorita piaggia,
    Nè di fiori olezzar vie cittadine,
    Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno
    Che ne' vezzosi appartamenti accolta,
    Tutti odorati de' novelli fiori
    Di primavera, del color vestita
    Della bruna viola, a me si offerse
    L'angelica tua forma, inchino il fianco
    Sovra nitide pelli, e circonfusa
    D'arcana voluttà; quando tu, dotta
    Allettatrice, fervidi sonanti
    Baci scoccavi nelle curve labbra
    De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
    Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
    Con la man leggiadrissima stringevi
    Al seno ascoso e desiato. Apparve
    Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
    Divino al pensier mio. Così nel fianco
    Non punto inerme a viva forza impresse
    Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
    Ululando portai finch'a quel giorno
    Si fu due volte ricondotto il sole.

    Raggio divino al mio pensiero apparve,
    Donna, la tua beltà. Simile effetto
    Fan la bellezza e i musicali accordi,
    Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
    Paion sovente rivelar. Vagheggia
    Il piagato mortal quindi la figlia
    Della sua mente, l'amorosa idea,
    Che gran parte d'Olimpo in se racchiude,
    Tutta al volto ai costumi alla favella,
    Pari alla donna che il rapito amante
    Vagheggiare ed amar confuso estima.
    Or questa egli non già, ma quella, ancora
    Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
    Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
    Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa
    La donna a torto. A quella eccelsa imago
    Sorge di rado il femminile ingegno;
    E ciò che inspira ai generosi amanti
    La sua stessa beltà, donna non pensa,
    Nè comprender potria. Non cape in quelle
    Anguste fronti ugual concetto. E male
    Al vivo sfolgorar di quegli sguardi
    Spera l'uomo ingannato, e mal richiede
    Sensi profondi, sconosciuti, e molto
    Più che virili, in chi dell'uomo, al tutto
    Da natura è minor. Che se più molli
    E più tenui le membra, essa la mente
    Men capace e men forte anco riceve.

    Nè tu finor giammai quel che tu stessa
    Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
    Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
    Che smisurato amor, che affanni intensi,
    Che indicibili moti e che deliri
    Movesti in me; nè verrà tempo alcuno
    Che tu l'intenda. In simil guisa ignora
    Esecutor di musici concenti
    Quel ch'ei con mano o con la voce adopra
    In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta
    Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
    Della mia vita un dì: se non se quanto,
    Pur come cara larva, ad ora ad ora
    Tornar costuma e disparir. Tu vivi,
    Bella non solo ancor, ma bella tanto,
    Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.
    Pur quell'ardor che da te nacque è spento:
    Perch'io te non amai, ma quella Diva
    Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
    Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
    Sua celeste beltà, ch'io, per insino
    Già dal principio conoscente e chiaro
    Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,
    Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,
    Cupido ti seguii finch'ella visse,
    Ingannato non già, ma dal piacere
    Di quella dolce somiglianza, un lungo
    Servaggio ed aspro a tollerar condotto.

    Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
    Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
    L'altero capo, a cui spontaneo porsi
    L'indomito mio cor. Narra che prima,
    E spero ultima certo, il ciglio mio
    Supplichevol vedesti, a te dinanzi
    Me timido, tremante (ardo in ridirlo
    Di sdegno e di rossor), me di me privo,
    Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
    Spiar sommessamente, a' tuoi superbi
    Fastidi impallidir, brillare in volto
    Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
    Mutar forma e color. Cadde l'incanto,
    E spezzato con esso, a terra sparso
    Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni
    Di tedio, alfin dopo il servire e dopo
    Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
    Senno con libertà. Che se d'affetti
    Orba la vita, e di gentili errori,
    E' notte senza stelle a mezzo il verno,
    Già del fato mortale a me bastante
    E conforto e vendetta è che su l'erba
    Qui neghittoso immobile giacendo,
    Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  3. #33
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    SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE
    dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi

    Dove vai? chi ti chiama
    Lunge dai cari tuoi,
    Bellissima donzella?
    Sola, peregrinando, il patrio tetto
    Sì per tempo abbandoni? a queste soglie
    Tornerai tu? farai tu lieti un giorno
    Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?

    Asciutto il ciglio ed animosa in atto,
    Ma pur mesta sei tu. Grata la via
    O dispiacevol sia, tristo il ricetto
    A cui movi o giocondo,
    Da quel tuo grave aspetto
    Mal s'indovina. Ahi ahi, nè già potria
    Fermare io stesso in me, nè forse al mondo
    S'intese ancor, se in disfavore al cielo
    Se cara esser nomata,
    Se misera tu debbi o fortunata.

    Morte ti chiama; al cominciar del giorno
    L'ultimo istante. Al nido onde ti parti,
    Non tornerai. L'aspetto
    De' tuoi dolci parenti
    Lasci per sempre. Il loco
    A cui movi, è sotterra:
    Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno.
    Forse beata sei; ma pur chi mira,
    Seco pensando, al tuo destin, sospira.

    Mai non veder la luce
    Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
    Che reina bellezza si dispiega
    Nelle membra e nel volto,
    Ed incomincia il mondo
    Verso lei di lontano ad atterrarsi;
    In sul fiorir d'ogni speranza, e molto
    Prima che incontro alla festosa fronte
    I lùgubri suoi lampi il ver baleni;
    Come vapore in nuvoletta accolto
    Sotto forme fugaci all'orizzonte,
    Dileguarsi così quasi non sorta,
    E cangiar con gli oscuri
    Silenzi della tomba i dì futuri,
    Questo se all'intelletto
    Appar felice, invade
    D'alta pietade ai più costanti il petto.

    Madre temuta e pianta
    Dal nascer già dell'animal famiglia,
    Natura, illaudabil maraviglia,
    Che per uccider partorisci e nutri,
    Se danno è del mortale
    Immaturo perir, come il consenti
    In quei capi innocenti?
    Se ben, perchè funesta,
    Perchè sovra ogni male,
    A chi si parte, a chi rimane in vita,
    Inconsolabil fai tal dipartita?

    Misera ovunque miri,
    Misera onde si volga, ove ricorra,
    Questa sensibil prole!
    Piacqueti che delusa
    Fosse ancor dalla vita
    La speme giovanil; piena d'affanni
    L'onda degli anni; ai mali unico schermo
    La morte; e questa inevitabil segno,
    Questa, immutata legge
    Ponesti all'uman corso. Ahi perchè dopo
    Le travagliose strade, almen la meta
    Non ci prescriver lieta? anzi colei
    Che per certo futura
    Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,
    Colei che i nostri danni
    Ebber solo conforto,
    Velar di neri panni,
    Cinger d'ombra sì trista,
    E spaventoso in vista
    Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?
    Già se sventura è questo
    Morir che tu destini
    A tutti noi che senza colpa, ignari,
    Nè volontari al vivere abbandoni,
    Certo ha chi more invidiabil sorte
    A colui che la morte
    Sente de' cari suoi. Che se nel vero,
    Com'io per fermo estimo,
    Il vivere è sventura,
    Grazia il morir, chi però mai potrebbe,
    Quel che pur si dovrebbe,
    Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
    Per dover egli scemo
    Rimaner di se stesso,
    Veder d'in su la soglia levar via
    La diletta persona
    Con chi passato avrà molt'anni insieme,
    E dire a quella addio senz'altra speme
    Di riscontrarla ancora
    Per la mondana via;
    Poi solitario abbandonato in terra,
    Guardando attorno, all'ore ai lochi usati
    Rimemorar la scorsa compagnia?
    Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
    Di strappar dalle braccia
    All'amico l'amico,
    Al fratello il fratello,
    La prole al genitore,
    All'amante l'amore: e l'uno estinto,
    L'altro in vita serbar? Come potesti
    Far necessario in noi
    Tanto dolor, che sopravviva amando
    Al mortale il mortal? Ma da natura
    Altro negli atti suoi
    Che nostro male o nostro ben si cura.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  4. #34
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    XXXI - SOPRA IL RITRATTO Dl UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA

    Tal fosti: or qui sotterra
    Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango
    Immobilmente collocato invano,
    Muto, mirando dell'etadi il volo,
    Sta, di memoria solo
    E di dolor custode, il simulacro
    Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
    Che tremar fe, se, come or sembra, immoto
    In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto
    Par, come d'urna piena,
    Traboccare il piacer; quel collo, cinto
    Già di desio; quell'amorosa mano,
    Che spesso, ove fu porta,
    Sentì gelida far la man che strinse;
    E il seno, onde la gente
    Visibilmente di pallor si tinse,
    Furo alcun tempo: or fango
    Ed ossa sei: la vista
    Vituperosa e trista un sasso asconde.

    Così riduce il fato
    Qual sembianza fra noi parve più viva
    Immagine del ciel. Misterio eterno
    Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
    Pensieri e sensi inenarrabil fonte,
    Beltà grandeggia, e pare,
    Quale splendor vibrato
    Da natura immortal su queste arene,
    Di sovrumani fati,
    Di fortunati regni e d'aurei mondi
    Segno e sicura spene
    Dare al mortale stato:
    Diman, per lieve forza,
    Sozzo a vedere, abominoso, abbietto
    Divien quel che fu dianzi
    Quasi angelico aspetto,
    E dalle menti insieme
    Quel che da lui moveva
    Ammirabil concetto, si dilegua.

    Desiderii infiniti
    E visioni altere
    Crea nel vago pensiere,
    Per natural virtù, dotto concento;
    Onde per mar delizioso, arcano
    Erra lo spirto umano,
    Quasi come a diporto
    Ardito notator per l'Oceano:
    Ma se un discorde accento
    Fere l'orecchio, in nulla
    Torna quel paradiso in un momento.

    Natura umana, or come,
    Se frale in tutto e vile,
    Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
    Se in parte anco gentile,
    Come i più degni tuoi moti e pensieri
    Son così di leggeri
    Da sì basse cagioni e desti e spenti?
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  5. #35
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    XXXII - PALINODIA
    Al marchese Gino Capponi

    Il sempre sospirar nulla rileva. PETRARCA

    Errai, candido Gino; assai gran tempo,
    E di gran lunga errai. Misera e vana
    Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa
    La stagion ch'or si volge. Intolleranda
    Parve, e fu, la mia lingua alla beata
    Prole mortal, se dir si dee mortale
    L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
    Dall'Eden odorato in cui soggiorna,
    Rise l'alta progenie, e me negletto
    Disse, o mal venturoso, e di piaceri
    O incapace o inesperto, il proprio fato
    Creder comune, e del mio mal consorte
    L'umana specie. Alfin per entro il fumo
    De' sígari onorato, al romorio
    De' crepitanti pasticcini, al grido
    Militar, di gelati e di bevande
    Ordinator, fra le percosse tazze
    E i branditi cucchiai, viva rifulse
    Agli occhi miei la giornaliera luce
    Delle gazzette. Riconobbi e vidi
    La pubblica letizia, e le dolcezze
    Del destino mortal. Vidi l'eccelso
    Stato e il valor delle terrene cose,
    E tutto fiori il corso umano, e vidi
    Come nulla quaggiù dispiace e dura.
    Nè men conobbi ancor gli studi e l'opre
    Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto
    Saver del secol mio. Nè vidi meno
    Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo
    E da Boston a Goa, correr dell'alma
    Felicità su l'orme a gara ansando
    Regni, imperi e ducati; e già tenerla
    O per le chiome fluttuanti, o certo
    Per l'estremo del boa. Così vedendo,
    E meditando sovra i larghi fogli
    Profondamente, del mio grave, antico
    Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

    Aureo secolo omai volgono, o Gino,
    I fusi delle Parche. Ogni giornale,
    Gener vario di lingue e di colonne,
    Da tutti i lidi lo promette al mondo
    Concordemente. Universale amore,
    Ferrate vie, moltiplici commerci,
    Vapor, tipi e choléra i più divisi
    Popoli e climi stringeranno insieme:
    Nè maraviglia fia se pino o quercia
    Suderà latte e mele, o s'anco al suono
    D'un walser danzerà. Tanto la possa
    Infin qui de' lambicchi e delle storte,
    E le macchine al cielo emulatrici
    Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
    Che seguirà; poiché di meglio in meglio
    Senza fin vola e volerà mai sempre
    Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

    Ghiande non ciberà certo la terra
    Però, se fame non la sforza: il duro
    Ferro non deporrà. Ben molte volte
    Argento ed or disprezzerà, contenta
    A polizze di cambio. E già dal caro
    Sangue de' suoi non asterrà la mano
    La generosa stirpe: anzi coverte
    Fien di stragi l'Europa e l'altra riva
    Dell'atlantico mar, fresca nutrice
    Di pura civiltà, sempre che spinga
    Contrarie in campo le fraterne schiere
    Di pepe o di cannella o d'altro aroma
    Fatal cagione, o di melate canne,
    O cagion qual si sia ch'ad auro torni.
    Valor vero e virtù, modestia e fede
    E di giustizia amor, sempre in qualunque
    Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
    Da' comuni negozi, ovvero in tutto
    Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
    Perchè diè lor natura, in ogni tempo
    Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
    Con mediocrità, regneran sempre,
    A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
    Quanto più vogli o cumulate o sparse,
    Abuserà chiunque avralle, e sotto
    Qualunque nome. Questa legge in pria
    Scrisser natura e il fato in adamante;
    E co' fulmini suoi Volta nè Davy
    Lei non cancellerà, non Anglia tutta
    Con le macchine sue, nè con un Gange
    Di politici scritti il secol novo.
    Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
    Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse
    In arme tutti congiurati i mondi
    Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
    Calunnia, odio e livor: cibo de' forti
    Il debole, cultor de' ricchi e servo
    Il digiuno mendico, in ogni forma
    Di comun reggimento, o presso o lungi
    Sien l'eclittica o i poli, eternamente
    Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
    E la face del dì non vengon meno.

    Queste lievi reliquie e questi segni
    Delle passate età, forza è che impressi
    Porti quella che sorge età dell'oro:
    Perchè mille discordi e repugnanti
    L'umana compagnia principii e parti
    Ha per natura; e por quegli odii in pace
    Non valser gl'intelletti e le possanze
    Degli uomini giammai, dal dì che nacque
    L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque
    Saggio sia nè possente, al secol nostro
    Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
    Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
    Fia la mortal felicità. Più molli
    Di giorno in giorno diverran le vesti
    O di lana o di seta. I rozzi panni
    Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
    Chiuderanno in coton la scabra pelle,
    E di castoro copriran le schiene.
    Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
    Certamente a veder, tappeti e coltri,
    Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
    Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
    Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
    E nove forme di paiuoli, e nove
    Pentole ammirerà l'arsa cucina.
    Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
    Da Londra a Liverpool, rapido tanto
    Sarà, quant'altri immaginar non osa,
    Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie
    Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
    Opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso
    Dovea, già son molt'anni. Illuminate
    Meglio ch'or son, benchè sicure al pari,
    Nottetempo saran le vie men trite
    Delle città sovrane, e talor forse
    Di suddita città le vie maggiori.
    Tali dolcezze e sì beata sorte
    Alla prole vegnente il ciel destina.

    Fortunati color che mentre io scrivo
    Miagolanti in su le braccia accoglie
    La levatrice! a cui veder s'aspetta
    Quei sospirati dì, quando per lunghi
    Studi fia noto, e imprenderà col latte
    Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
    Quanto peso di sal, quanto di carni,
    E quante moggia di farina inghiotta
    Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
    In ciascun anno partoriti e morti
    Scriva il vecchio prior: quando, per opra
    Di possente vapore, a milioni
    Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
    E credo anco del mar gl'immensi tratti,
    Come d'aeree gru stuol che repente
    Alle late campagne il giorno involi,
    Copriran le gazzette, anima e vita
    Dell'universo, e di savere a questa
    Ed alle età venture unica fonte!

    Quale un fanciullo, con assidua cura,
    Di fogliolini e di fuscelli, in forma
    O di tempio o di torre o di palazzo,
    Un edificio innalza; e come prima
    Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
    Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
    Per novo lavorio son di mestieri;
    Così natura ogni opra sua, quantunque
    D'alto artificio a contemplar, non prima
    Vede perfetta, ch'a disfarla imprende,
    Le parti sciolte dispensando altrove.
    E indarno a preservar se stesso ed altro
    Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
    Eternamente, il mortal seme accorre
    Mille virtudi oprando in mille guise
    Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,
    La natura crudel, fanciullo invitto,
    Il suo capriccio adempie, e senza posa
    Distruggendo e formando si trastulla.
    Indi varia, infinita una famiglia
    Di mali immedicabili e di pene
    Preme il fragil mortale, a perir fatto
    Irreparabilmente: indi una forza
    Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
    E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
    Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca,
    Essa indefatigata; insin ch'ei giace
    Alfin dall'empia madre oppresso e spento.
    Queste, o spirto gentil, miserie estreme
    Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
    Ch'han principio d'allor che il labbro infante
    Preme il tenero sen che vita instilla;
    Emendar, mi cred'io, non può la lieta
    Nonadecima età più che potesse
    La decima o la nona, e non potranno
    Più di questa giammai l'età future.
    Però, se nominar lice talvolta
    Con proprio nome il ver, non altro in somma
    Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
    E non pur ne' civili ordini e modi,
    Ma della vita in tutte l'altre parti,
    Per essenza insanabile, e per legge
    Universal, che terra e cielo abbraccia,
    Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
    Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
    Spirti del secol mio: che, non potendo
    Felice in terra far persona alcuna,
    L'uomo obbliando, a ricercar si diero
    Una comun felicitade; e quella
    Trovata agevolmente, essi di molti
    Tristi e miseri tutti, un popol fanno
    Lieto e felice: e tal portento, ancora
    Da pamphlets, da riviste e da gazzette
    Non dichiarato, il civil gregge ammira.

    Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
    Dell'età ch'or si volge! E che sicuro
    Filosofar, che sapienza, o Gino,
    In più sublimi ancora e più riposti
    Subbietti insegna ai secoli futuri
    Il mio secolo e tuo! Con che costanza
    Quel che ieri schernì, prosteso adora
    Oggi, e domani abbatterà, per girne
    Raccozzando i rottami, e per riporlo
    Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!
    Quanto estimar si dee, che fede inspira
    Del secol che si volge, anzi dell'anno,
    Il concorde sentir! con quanta cura
    Convienci a quel dell'anno, al qual difforme
    Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro
    Comparando, fuggir che mai d'un punto
    Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
    Se al moderno si opponga il tempo antico,
    Filosofando il saper nostro è scorso!

    Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco
    Di poetar maestro, anzi di tutte
    Scienze ed arti e facoltadi umane,
    E menti che fur mai, sono e saranno,
    Dottore, emendator, lascia, mi disse,
    I propri affetti tuoi. Di lor non cura
    Questa virile età, volta ai severi
    Economici studi, e intenta il ciglio
    Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
    Esplorar che ti val? Materia al canto
    Non cercar dentro te. Canta i bisogni
    Del secol nostro, e la matura speme.
    Memorande sentenze! ond'io solenni
    Le risa alzai quando sonava il nome
    Della speranza al mio profano orecchio
    Quasi comica voce, o come un suono
    Di lingua che dal latte si scompagni.
    Or torno addietro, ed al passato un corso
    Contrario imprendo, per non dubbi esempi
    Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi,
    Non contraddir, non repugnar, se lode
    Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
    Adulando ubbidir: così per breve
    Ed agiato cammin vassi alle stelle.
    Ond'io, degli astri desioso, al canto
    Del secolo i bisogni omai non penso
    Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
    Provveggono i mercati e le officine
    Già largamente; ma la speme io certo
    Dirò, la speme, onde visibil pegno
    Già concedon gli Dei; già, della nova
    Felicità principio, ostenta il labbro
    De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.

    O salve, o segno salutare, o prima
    Luce della famosa età che sorge.
    Mira dinanzi a te come s'allegra
    La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
    Delle donzelle, e per conviti e feste
    Qual de' barbati eroi fama già vola.
    Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
    Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli
    Italia crescerà, crescerà tutta
    Dalle foci del Tago all'Ellesponto
    Europa, e il mondo poserà sicuro.
    E tu comincia a salutar col riso
    Gl'ispidi genitori, o prole infante,
    Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
    L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.
    Ridi, o tenera prole: a te serbato
    E' di cotanto favellare il frutto;
    Veder gioia regnar, cittadi e ville,
    Vecchiezza e gioventù del par contente,
    E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  6. #36
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    XXXIII - IL TRAMONTO DELLA LUNA

    Quale in notte solinga,
    Sovra campagne inargentate ed acque,
    Là 've zefiro aleggia,
    E mille vaghi aspetti
    E ingannevoli obbietti
    Fingon l'ombre lontane
    Infra l'onde tranquille
    E rami e siepi e collinette e ville;
    Giunta al confin del cielo,
    Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
    Nell'infinito seno
    Scende la luna; e si scolora il mondo;
    Spariscon l'ombre, ed una
    Oscurità la valle e il monte imbruna;
    Orba la notte resta,
    E cantando, con mesta melodia,
    L'estremo albor della fuggente luce,
    Che dianzi gli fu duce,
    Saluta il carrettier dalla sua via;

    Tal si dilegua, e tale
    Lascia l'età mortale
    La giovinezza. In fuga
    Van l'ombre e le sembianze
    Dei dilettosi inganni; e vengon meno
    Le lontane speranze,
    Ove s'appoggia la mortal natura.
    Abbandonata, oscura
    Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
    Cerca il confuso viatore invano
    Del cammin lungo che avanzar si sente
    Meta o ragione; e vede
    Che a se l'umana sede,
    Esso a lei veramente è fatto estrano.

    Troppo felice e lieta
    Nostra misera sorte
    Parve lassù, se il giovanile stato,
    Dove ogni ben di mille pene è frutto,
    Durasse tutto della vita il corso.
    Troppo mite decreto
    Quel che sentenzia ogni animale a morte,
    S'anco mezza la via
    Lor non si desse in pria
    Della terribil morte assai più dura.
    D'intelletti immortali
    Degno trovato, estremo
    Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
    La vecchiezza, ove fosse
    Incolume il desio, la speme estinta,
    Secche le fonti del piacer, le pene
    Maggiori sempre, e non più dato il bene.

    Voi, collinette e piagge,
    Caduto lo splendor che all'occidente
    Inargentava della notte il velo,
    Orfane ancor gran tempo
    Non resterete; che dall'altra parte
    Tosto vedrete il cielo
    Imbiancar novamente, e sorger l'alba:
    Alla qual poscia seguitando il sole,
    E folgorando intorno
    Con sue fiamme possenti,
    Di lucidi torrenti
    Inonderà con voi gli eterei campi.
    Ma la vita mortal, poi che la bella
    Giovinezza sparì, non si colora
    D'altra luce giammai, nè d'altra aurora.
    Vedova è insino al fine; ed alla notte
    Che l'altre etadi oscura,
    Segno poser gli Dei la sepoltura.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  7. #37
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    XXXIV - LA GINESTRA, O FIORE DEL DESERTO

    E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
    GIOVANNI, III, 19.


    Qui su l'arida schiena
    Del formidabil monte
    Sterminator Vesevo,
    La qual null'altro allegra arbor nè fiore,
    Tuoi cespi solitari intorno spargi,
    Odorata ginestra,
    Contenta dei deserti. Anco ti vidi
    De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
    Che cingon la cittade
    La qual fu donna de' mortali un tempo,
    E del perduto impero
    Par che col grave e taciturno aspetto
    Faccian fede e ricordo al passeggero.
    Or ti riveggo in questo suol, di tristi
    Lochi e dal mondo abbandonati amante,
    E d'afflitte fortune ognor compagna.
    Questi campi cosparsi
    Di ceneri infeconde, e ricoperti
    Dell'impietrata lava,
    Che sotto i passi al peregrin risona;
    Dove s'annida e si contorce al sole
    La serpe, e dove al noto
    Cavernoso covil torna il coniglio;
    Fur liete ville e colti,
    E biondeggiàr di spiche, e risonaro
    Di muggito d'armenti;
    Fur giardini e palagi,
    Agli ozi de' potenti
    Gradito ospizio; e fur città famose
    Che coi torrenti suoi l'altero monte
    Dall'ignea bocca fulminando oppresse
    Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
    Una ruina involve,
    Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
    I danni altrui commiserando, al cielo
    Di dolcissimo odor mandi un profumo,
    Che il deserto consola. A queste piagge
    Venga colui che d'esaltar con lode
    Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
    E' il gener nostro in cura
    All'amante natura. E la possanza
    Qui con giusta misura
    Anco estimar potrà dell'uman seme,
    Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
    Con lieve moto in un momento annulla
    In parte, e può con moti
    Poco men lievi ancor subitamente
    Annichilare in tutto.
    Dipinte in queste rive
    Son dell'umana gente
    Le magnifiche sorti e progressive.

    Qui mira e qui ti specchia,
    Secol superbo e sciocco,
    Che il calle insino allora
    Dal risorto pensier segnato innanti
    Abbandonasti, e volti addietro i passi,
    Del ritornar ti vanti,
    E proceder il chiami.
    Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
    Di cui lor sorte rea padre ti fece,
    Vanno adulando, ancora
    Ch'a ludibrio talora
    T'abbian fra se. Non io
    Con tal vergogna scenderò sotterra;
    Ma il disprezzo piuttosto che si serra
    Di te nel petto mio,
    Mostrato avrò quanto si possa aperto:
    Ben ch'io sappia che obblio
    Preme chi troppo all'età propria increbbe.
    Di questo mal, che teco
    Mi fia comune, assai finor mi rido.
    Libertà vai sognando, e servo a un tempo
    Vuoi di novo il pensiero,
    Sol per cui risorgemmo
    Della barbarie in parte, e per cui solo
    Si cresce in civiltà, che sola in meglio
    Guida i pubblici fati.
    Così ti spiacque il vero
    Dell'aspra sorte e del depresso loco
    Che natura ci diè. Per questo il tergo
    Vigliaccamente rivolgesti al lume
    Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
    Vil chi lui segue, e solo
    Magnanimo colui
    Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
    Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

    Uom di povero stato e membra inferme
    Che sia dell'alma generoso ed alto,
    Non chiama se nè stima
    Ricco d'or nè gagliardo,
    E di splendida vita o di valente
    Persona infra la gente
    Non fa risibil mostra;
    Ma se di forza e di tesor mendico
    Lascia parer senza vergogna, e noma
    Parlando, apertamente, e di sue cose
    Fa stima al vero uguale.
    Magnanimo animale
    Non credo io già, ma stolto,
    Quel che nato a perir, nutrito in pene,
    Dice, a goder son fatto,
    E di fetido orgoglio
    Empie le carte, eccelsi fati e nove
    Felicità, quali il ciel tutto ignora,
    Non pur quest'orbe, promettendo in terra
    A popoli che un'onda
    Di mar commosso, un fiato
    D'aura maligna, un sotterraneo crollo
    Distrugge sì, che avanza
    A gran pena di lor la rimembranza.
    Nobil natura è quella
    Che a sollevar s'ardisce
    Gli occhi mortali incontra
    Al comun fato, e che con franca lingua,
    Nulla al ver detraendo,
    Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
    E il basso stato e frale;
    Quella che grande e forte
    Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
    Fraterne, ancor più gravi
    D'ogni altro danno, accresce
    Alle miserie sue, l'uomo incolpando
    Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
    Che veramente è rea, che de' mortali
    Madre è di parto e di voler matrigna.
    Costei chiama inimica; e incontro a questa
    Congiunta esser pensando,
    Siccome è il vero, ed ordinata in pria
    L'umana compagnia,
    Tutti fra se confederati estima
    Gli uomini, e tutti abbraccia
    Con vero amor, porgendo
    Valida e pronta ed aspettando aita
    Negli alterni perigli e nelle angosce
    Della guerra comune. Ed alle offese
    Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
    Al vicino ed inciampo,
    Stolto crede così, qual fora in campo
    Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
    Incalzar degli assalti,
    Gl'inimici obbliando, acerbe gare
    Imprender con gli amici,
    E sparger fuga e fulminar col brando
    Infra i propri guerrieri.
    Così fatti pensieri
    Quando fien, come fur, palesi al volgo,
    E quell'orror che primo
    Contra l'empia natura
    Strinse i mortali in social catena,
    Fia ricondotto in parte
    Da verace saper, l'onesto e il retto
    Conversar cittadino,
    E giustizia e pietade, altra radice
    Avranno allor che non superbe fole,
    Ove fondata probità del volgo
    Così star suole in piede
    Quale star può quel ch'ha in error la sede.

    Sovente in queste rive,
    Che, desolate, a bruno
    Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
    Seggo la notte; e sulla mesta landa
    In purissimo azzurro
    Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
    Cui di lontan fa specchio
    Il mare, e tutto di scintille in giro
    Per lo vòto Seren brillar il mondo.
    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
    Ch'a lor sembrano un punto,
    E sono immense, in guisa
    Che un punto a petto a lor son terra e mare
    Veracemente; a cui
    L'uomo non pur, ma questo
    Globo ove l'uomo è nulla,
    Sconosciuto è del tutto; e quando miro
    Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
    Nodi quasi di stelle,
    Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
    E non la terra sol, ma tutte in uno,
    Del numero infinite e della mole,
    Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
    O sono ignote, o così paion come
    Essi alla terra, un punto
    Di luce nebulosa; al pensier mio
    Che sembri allora, o prole
    Dell'uomo? E rimembrando
    Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
    Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
    Che te signora e fine
    Credi tu data al Tutto, e quante volte
    Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
    Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
    Per tua cagion, dell'universe cose
    Scender gli autori, e conversar sovente
    Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
    Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
    Fin la presente età, che in conoscenza
    Ed in civil costume
    Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
    Mortal prole infelice, o qual pensiero
    Verso te finalmente il cor m'assale?
    Non so se il riso o la pietà prevale.

    Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
    Cui là nel tardo autunno
    Maturità senz'altra forza atterra,
    D'un popol di formiche i dolci alberghi,
    Cavati in molle gleba
    Con gran lavoro, e l'opre
    E le ricchezze che adunate a prova
    Con lungo affaticar l'assidua gente
    Avea provvidamente al tempo estivo,
    Schiaccia, diserta e copre
    In un punto; così d'alto piombando,
    Dall'utero tonante
    Scagliata al ciel, profondo
    Di ceneri e di pomici e di sassi
    Notte e ruina, infusa
    Di bollenti ruscelli,
    O pel montano fianco
    Furiosa tra l'erba
    Di liquefatti massi
    E di metalli e d'infocata arena
    Scendendo immensa piena,
    Le cittadi che il mar là su l'estremo
    Lido aspergea, confuse
    E infranse e ricoperse
    In pochi istanti: onde su quelle or pasce
    La capra, e città nove
    Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
    Son le sepolte, e le prostrate mura
    L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
    Non ha natura al seme
    Dell'uom più stima o cura
    Che alla formica: e se più rara in quello
    Che nell'altra è la strage,
    Non avvien ciò d'altronde
    Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

    Ben mille ed ottocento
    Anni varcàr poi che spariro, oppressi
    Dall'ignea forza, i popolati seggi,
    E il villanello intento
    Ai vigneti, che a stento in questi campi
    Nutre la morta zolla e incenerita,
    Ancor leva lo sguardo
    Sospettoso alla vetta
    Fatal, che nulla mai fatta più mite
    Ancor siede tremenda, ancor minaccia
    A lui strage ed ai figli ed agli averi
    Lor poverelli. E spesso
    Il meschino in sul tetto
    Dell'ostel villereccio, alla vagante
    Aura giacendo tutta notte insonne,
    E balzando più volte, esplora il corso
    Del temuto bollor, che si riversa
    Dall'inesausto grembo
    Sull'arenoso dorso, a cui riluce
    Di Capri la marina
    E di Napoli il porto e Mergellina.
    E se appressar lo vede, o se nel cupo
    Del domestico pozzo ode mai l'acqua
    Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
    Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
    Di lor cose rapir posson, fuggendo,
    Vede lontano l'usato
    Suo nido, e il picciol campo,
    Che gli fu dalla fame unico schermo,
    Preda al flutto rovente
    Che crepitando giunge, e inesorato
    Durabilmente sovra quei si spiega.
    Torna al celeste raggio
    Dopo l'antica obblivion l'estinta
    Pompei, come sepolto
    Scheletro, cui di terra
    Avarizia o pietà rende all'aperto;
    E dal deserto foro
    Diritto infra le file
    Dei mozzi colonnati il peregrino
    Lunge contempla il bipartito giogo
    E la cresta fumante,
    Ch'alla sparsa ruina ancor minaccia.
    E nell'orror della secreta notte
    Per li vacui teatri, per li templi
    Deformi e per le rotte
    Case, ove i parti il pipistrello asconde,
    Come sinistra face
    Che per voti palagi atra s'aggiri,
    Corre il baglior della funerea lava,
    Che di lontan per l'ombre
    Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
    Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
    Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
    Dopo gli avi i nepoti,
    Sta natura ognor verde, anzi procede
    Per sì lungo cammino,
    Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
    Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
    E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

    E tu, lenta ginestra,
    Che di selve odorate
    Queste campagne dispogliate adorni,
    Anche tu presto alla crudel possanza
    Soccomberai del sotterraneo foco,
    Che ritornando al loco
    Già noto, stenderà l'avaro lembo
    Su tue molli foreste. E piegherai
    Sotto il fascio mortal non renitente
    Il tuo capo innocente:
    Ma non piegato insino allora indarno
    Codardamente supplicando innanzi
    Al futuro oppressor; ma non eretto
    Con forsennato orgoglio inver le stelle,
    Nè sul deserto, dove
    E la sede e i natali
    Non per voler ma per fortuna avesti;
    Ma più saggia, ma tanto
    Meno inferma dell'uom, quanto le frali
    Tue stirpi non credesti
    O dal fato o da te fatte immortali.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  8. #38
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    XXXV - IMITAZIONE

    Lungi dal proprio ramo,
    Povera foglia frale,
    Dove vai tu? - Dal faggio
    Là dov'io nacqui, mi divise il vento.
    Esso, tornando, a volo
    Dal bosco alla campagna,
    Dalla valle mi porta alla montagna.
    Seco perpetuamente
    Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.
    Vo dove ogni altra cosa,
    Dove naturalmente
    Va la foglia di rosa,
    E la foglia d'alloro.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  9. #39
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    Quando fanciullo io venni
    A pormi con le Muse in disciplina,
    L'una di quelle mi pigliò per mano;
    E poi tutto quel giorno
    La mi condusse intorno
    A veder l'officina.
    Mostrommi a parte a parte
    Gli strumenti dell'arte,
    E i servigi diversi
    A che ciascun di loro
    S'adopra nel lavoro
    Delle prose e de' versi.
    Io mirava, e chiedea:
    Musa, la lima ov'è? Disse la Dea:
    La lima è consumata; or facciam senza.
    Ed io, ma di rifarla
    Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca?
    Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  10. #40
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    Appendice

    FRAMMENTI

    XXXVII - "ODI, MELISSO"

    ALCETA
    Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno
    Di questa notte, che mi torna a mente
    In riveder la luna. Io me ne stava
    Alla finestra che risponde al prato,
    Guardando in alto: ed ecco all'improvviso
    Distaccasi la luna; e mi parea
    Che quanto nel cader s'approssimava,
    Tanto crescesse al guardo; infin che venne
    A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
    Grande quanto una secchia, e di scintille
    Vomitava una nebbia, che stridea
    Sì forte come quando un carbon vivo
    Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
    La luna, come ho detto, in mezzo al prato
    Si spegneva annerando a poco a poco,
    E ne fumavan l'erbe intorno intorno.
    Allor mirando in ciel, vidi rimaso
    Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia,
    Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,
    Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

    MELISSO
    E ben hai che temer, che agevol cosa
    Fora cader la luna in sul tuo campo.

    ALCETA
    Chi sa? non veggiam noi spesso di state
    Cader le stelle?

    MELISSO
    Egli ci ha tante stelle,
    Che picciol danno è cader l'una o l'altra
    Di loro, e mille rimaner. Ma sola
    Ha questa luna in ciel, che da nessuno
    Cader fu vista mai se non in sogno.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  11. #41
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    Io qui vagando al limitare intorno,
    Invan la pioggia invoco e la tempesta,
    Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

    Pure il vento muggia nella foresta,
    E muggia tra le nubi il tuono errante,
    Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

    O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
    Parte la donna mia: pietà, se trova
    Pietà nel mondo un infelice amante.

    O turbine, or ti sveglia, or fate prova
    Di sommergermi, o nembi, insino a tanto
    Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

    S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
    Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia
    Le luci il crudo Sol pregne di pianto.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  12. #42
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    Spento il diurno raggio in occidente,
    E queto il fumo delle ville, e queta
    De' cani era la voce e della gente;

    Quand'ella, volta all'amorosa meta,
    Si ritrovò nel mezzo ad una landa
    Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

    Spandeva il suo chiaror per ogni banda
    La sorella del sole, e fea d'argento
    Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

    I ramuscelli ivan cantando al vento,
    E in un con l'usignol che sempre piagne
    Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

    Limpido il mar da lungi, e le campagne
    E le foreste, e tutte ad una ad una
    Le cime si scoprian delle montagne.

    In queta ombra giacea la valle bruna,
    E i collicelli intorno rivestia
    Del suo candor la rugiadosa luna.

    Sola tenea la taciturna via
    La donna, e il vento che gli odori spande,
    Molle passar sul volto si sentia.

    Se lieta fosse, è van che tu dimande:
    Piacer prendea di quella vista, e il bene
    Che il cor le prometteva era più grande.

    Come fuggiste, o belle ore serene!
    Dilettevol quaggiù null'altro dura,
    Nè si ferma giammai, se non la spene.

    Ecco turbar la notte, e farsi oscura
    La sembianza del ciel, ch'era sì bella,
    E il piacere in colei farsi paura.

    Un nugol torbo, padre di procella,
    Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,
    Che più non si scopria luna nè stella.

    Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,
    E salir su per l'aria a poco a poco,
    E far sovra il suo capo a quella ammanto.
    Veniva il poco lume ognor più fioco;
    E intanto al bosco si destava il vento,
    Al bosco là del dilettoso loco.

    E si fea più gagliardo ogni momento,
    Tal che a forza era desto e svolazzava
    Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

    E la nube, crescendo, in giù calava
    Ver la marina sì, che l'un suo lembo
    Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

    Già tutto a cieca oscuritade in grembo,
    S'incominciava udir fremer la pioggia,
    E il suon cresceva all'appressar del nembo.

    Dentro le nubi in paurosa foggia
    Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;
    E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

    Discior sentia la misera i ginocchi;
    E già muggiva il tuon simile al metro
    Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

    Talvolta ella ristava, e l'aer tetro
    Guardava sbigottita, e poi correa,
    Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

    E il duro vento col petto rompea,
    Che gocce fredde giù per l'aria nera
    In sul volto soffiando le spingea.

    E il tuon veniale incontro come fera,
    Rugghiando orribilmente e senza posa;
    E cresceva la pioggia e la bufera.
    E d'ogn'intorno era terribil cosa
    Il volar polve e frondi e rami e sassi,
    E il suon che immaginar l'alma non osa.

    Ella dal lampo affaticati e lassi
    Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,
    Gia pur tra il nembo accelerando i passi.

    Ma nella vista ancor l'era il baleno
    Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento
    Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

    E si rivolse indietro. E in quel momento
    Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,
    Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

    Taceva il tutto; ed ella era di pietra.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  13. #43
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    XL - DAL GRECO DI SIMONIDE

    Ogni mondano evento
    È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
    Che giusta suo talento
    Ogni cosa dispone.
    Ma di lunga stagione
    Nostro cieco pensier s'affanna e cura,
    Benchè l'umana etate,
    Come destina il ciel nostra ventura,
    Di giorno in giorno dura.
    La bella speme tutti ci nutrica
    Di sembianze beate,
    Onde ciascuno indarno s'affatica:
    Altri l'aurora amica,
    Altri l'etade aspetta;
    E nullo in terra vive
    Cui nell'anno avvenir facili e pii
    Con Pluto gli altri iddii
    La mente non prometta.
    Ecco pria che la speme in porto arrive,
    Qual da vecchiezza è giunto
    E qual da morbi al bruno Lete addutto;
    Questo il rigido Marte, e quello il flutto
    Del pelago rapisce; altri consunto
    da negre cure, o tristo nodo al collo
    Circondando, sotterra si rifugge.
    Così di mille mali
    I miseri mortali
    Volgo fiero e diverso agita e strugge.
    Ma per sentenza mia,
    Uom saggio e sciolto dal comune errore,
    Patir non sosterria,
    Nè porrebbe al dolore
    Ed al mal proprio suo cotanto amore.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  14. #44
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    XLI - DELLO STESSO

    Umana cosa picciol tempo dura,
    E certissimo detto
    Disse il veglio di Chio,
    Conforme ebber natura
    Le foglie e l'uman seme.
    Ma questa voce in petto
    Raccolgon pochi. All'inquieta speme,
    Figlia di giovin core,
    Tutti prestiam ricetto.
    Mentre è vermiglio il fiore
    Di nostra etade acerba,
    L'alma vota e superba
    Cento dolci pensieri educa invano,
    Nè morte aspetta nè vecchiezza; e nulla
    Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano.
    Ma stolto è chi non vede
    La giovanezza come ha ratte l'ale,
    E siccome alla culla
    Poco il rogo è lontano.
    Tu presso a porre il piede
    In sul varco fatale
    Della plutonia sede,
    Ai presenti diletti
    La breve età commetti.


    Nega ai mortali e nega a' morti il fato. (1)

    [Ndr: verso finale del "Coro dei morti" nelle Operette morali, "Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie", presente solo in alcune edizioni dei Canti.]
    Ultima modifica di Tiberio; 12-03-2020 alle 21:24
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  15. #45
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