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Discussione: Ricordare nel tempo della memoria digitale

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    Ricordare nel tempo della memoria digitale

    La psicologia e le neuroscienze ci insegnano che la memoria non è la semplice registrazione del passato. La memoria è sempre una ricostruzione, soggetta alla deformazione, alla rimozione di eventi realmente accaduti, e persino alla formazione di falsi ricordi. E’ controllata dal presente, dai desideri, dalle paure.

    La scomparsa della presenza fisica di una persona cara o della casa familiare e la presenza delle loro tracce generano turbamento nel ricordo.

    La casa in cui si abita da molto tempo è l’archetipo della memoria. E’ archivio della memoria soggettiva. Abitare una casa significa lasciare “impronte” che si oppongono al loro dissolvimento all’incalzare dell’oblio. Per questo il rapporto con la casa, con i ricordi è complesso e ambivalente. A un estremo, si può diventare prigionieri di presenze spettrali. All’altro estremo, per la loro insopportabilità, si può essere indotti a distruggere ogni traccia del passato, come fece il noto etologo Desmond Morris, dopo la morte della compagna, Ramona, con la quale visse insieme per 66 anni.

    Dopo 7 mesi Morris vendette tutto ciò che poteva ricordargli la moglie: oggetti di antiquariato, vestiti, mobili, migliaia di libri, la tazza e la poltrona usate da lei, i dipinti acquistati insieme, le foto che restituiscono un tempo senza tempo perché non riproducibile, via anche la casa ad Oxford per non soffrire troppo in una “gabbia” di ricordi

    Per lui è un lutto insuperabile. Se uno muore, muore anche l’altro.

    Dopo una perdita, c’è chi allestisce una casa mausoleo (i genitori che non si rassegnano alla scomparsa di un figlio) o “una casa spogliata”, senza più tracce dell’altro, come una “damnatio memoriae”. Ma c’è una terza possibilità: una casa che, con tempi e modi propri, può consentire a chi è rimasto in vita un’elaborazione del lutto tollerando la sospensione continua tra perdita e memoria.

    La poetessa e saggista polacca Maria Wisława Anna Szymborska (1923 – 2012), premio Nobel per la letteratura nel 1996, nella sua poesia titolata “Autonomia” argomenta sull’oloutaria, un celenterato capace di rigenerare se stesso. Questi versi la Szymborska li dedicò alla memoria della poetessa polacca Halina Poświatowska, scomparsa in giovane età per complicazioni chirurgiche in seguito ad un’operazione al cuore


    “Autonomia”


    In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due:
    dà un sé in pasto al mondo,
    e con l’altro fugge.

    Si scinde d’un colpo in rovina e salvezza,
    in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà.

    Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso
    con due sponde subito estranee.

    Su una la morte, sull’altra la vita.

    Qui la disperazione, là la fiducia.

    Se esiste una bilancia, ha piatti immobili.

    Se c’è una giustizia, eccola.

    Morire quanto necessario, senza eccedere.

    Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato.

    Già, anche noi sappiamo dividerci in due.
    Ma solo in corpo e sussurro interrotto.
    In corpo e poesia.

    Da un lato la gola, il riso dall’altro,
    un riso leggero, di già soffocato.
    Qui il cuore pesante, là non omnis moriar,
    tre piccole parole, soltanto, tre piume d’un volo.

    L’abisso non ci divide.
    L’abisso circonda.

    Forse Desmond Morris è quel che sta cercando di fare. Cerca di rinascere da singolo. Non è una questione tra ricordare e dimenticare. È una questione di vita o di morte
    Ultima modifica di doxa; 15-03-2020 alle 20:28

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