MilanoFinanza: Il Mes è una terapia intensiva. Ma per tornare in salute ci vuole ben altro

L’Europa non si basa più sul principio della solidarietà, ma su quello della competizione interna. In altre parole, vince il Paese che offre tasse più basse, l'Olanda, o condizioni industriali più vantaggiose, la Germania

Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), o Fondo salvastati, funziona in maniera molto semplice: se un Paese dell’area euro si trova in difficoltà finanziaria può farsi prestare i soldi dal fondo, ma deve rispettare poi regole di bilancio particolarmente stringenti. I problemi del Mes in quanto tale sono numerosi. Il primo e più evidente è che la sua applicazione equivale a una sentenza di stagnazione per il Paese in difficoltà: si ritrova non solo con più debiti, ma anche nell’impossibilità fattuale di attuare politiche d’investimento e sviluppo – altrimenti romperebbe i vincoli di bilancio. È la situazione “alla greca” che abbiamo imparato troppo bene a conoscere.

L’altro limite del Mes è il fatto di essere da solo. Non si accompagna a un qualche tipo di “Cassa d’Investimento” per le zone in difficoltà nel continente. In questo modo, agiste semplicemente da terapia intensiva per mantenere artificialmente in vita le economie malate, evitando pericolosi fallimenti, senza che le zone ricche debbano impegnarsi in azioni di recupero. Perché il problema in nuce è che le “crisi” cui il Mes fa riferimento sono in realtà situazioni normali e ricorrenti nel mondo dell’euro imperfetto; e anziché apportare un correttivo strutturale all’area monetaria, il Mes non fa altro che creare un sistema di pronto soccorso per incidenti finanziari che si ripetono da anni e si ripeteranno in futuro.

La vulgata nordeuropea è che i Paesi del meridione sarebbero colpevoli d’indisciplina fiscale, e per questo pagano adesso con la crisi. Eppure, per come è strutturato l’euro, se si attua la disciplina fiscale senza investimenti le crisi peggiorano. Prendiamo la situazione italiana a partire dalla crisi Lehman del 2008. Il debito pubblico era mediamente in discesa, ma poi dopo quell’anno ha intrapreso una salita vorticosa fino ai livelli attuali. Non è un caso: tra crisi in sé e impossibilità di politiche di sviluppo, sono scappati dall’Italia capitali e persone qualificate. A meno di particolari convinzioni patriottiche o vincoli di famiglia, chi poteva se ne andava fuori. E non vale molto sostenere che i capitali italiani fossero in fuga già da prima dell’euro: con la moneta unica l’aspettativa era che queste dinamiche s’interrompessero – invece sono in accelerazione.

Con la crisi si evidenziava anche la potenza delle politiche di riforma interna in Germania. Il piano “Agenda 2010” varato dal cancelliere socialdem Schröder prevedeva abbattimento delle aliquote fiscali per i più ricchi, taglio dello stato sociale e lotta ai contratti di negoziazione sindacale. Si è creata cioè una macchina industriale-statale a costo contenuto per conquistare i mercati asiatici. Al successo tedesco negli anni successivi ha corrisposto la stagnazione meridionale. Non è un caso, semplicemente perché non è possibile che lo sia. L’Europa non si basa più sul principio della solidarietà, ma su quello della competizione interna. In altre parole, vince il Paese che offre tasse più basse (Olanda) o condizioni industriali più vantaggiose (Germania), mentre agli altri si offre il panorama di fornire manodopera a basso costo per le zone più ricche.

La crisi del 2008, così come quella attuale, non ha fatto altro che accelerare fenomeni già in atto. Con la crisi le risorse sono corse in aiuto delle economie vincenti, abbandonando le altre al proprio destino. Perché peraltro, se tutti si riformassero alla tedesca o all’olandese, si scatenerebbe una guerra al ribasso di tasse e stato sociale le cui conseguenze sarebbero pagate da tutti, e in particolare dai ceti meno abbienti. Quello della polarizzazione economica dovuta all’euro è un fenomeno normale, e il Mes non solo non lo risolve, ma inserisce il panorama di debito in un’ottica politica che avrà rischi sociali tremendi. L’odio anti-tedesco che percepiamo in questi mesi è solo l’inizio, così come il disprezzo anti-italiano. Non c’è Europa senza sviluppo, e non possiamo dar colpa al popolo se nell’euro vede uno strumento di dominio e non di unità.