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Discussione: Simulazione, dissimulazione

  1. #1
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    Simulazione, dissimulazione

    A cura dello scrittore e critico letterario Salvatore Silvano Nigro è stato ripubblicato recentemente (edizioni Otto/Novecento) il breve trattato titolato “Della dissimulazione onesta” , scritto da Torquato Accetto ed edito nel 1641.


    Il titolo di tale saggio mi ha indotto ad approfondire l’etimo dei due verbi, perché il “dis-“negativo non chiarisce concettualmente il significato.


    simulare= essere ciò che non si è;

    dissimulare= fingere di non essere ciò che si è.


    Sui due sostantivi (simulazione, dissimulazione) Francesco di Bartolo, detto anche Francesco da Buti (1324 – 1406) eminente politico a Pisa e docente di lingua latina nella locale università, in un suo commento all’Inferno nella Divina Commedia scrisse: “Simulazione è fingere vero quello che non è vero; dissimulazione è negare quello che è vero”.


    Torquato Accetto nel suo trattato così descrive i due non opposti atteggiamenti: "Io tratterei pur della simulazione e spiegherei appieno l'arte del fingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome che stimo maggior necessità il farne di meno, e, benché molti dicono: Qui nescit fingere nescit vivere, anche da molti altri si afferma che sia meglio morire che viver con questa condizione [...] Basterà dunque il discorrer della dissimulazione in modo che sia appresa nel suo sincero significato, non essendo altro il dissimulare che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo".


    Torquato Accetto, chi era costui ? Un filosofo e scrittore nato a Trani nel 1588 circa e morto ad Andria nel 1641.


    Nel 1612 si trasferì ad Andria per lavorare come segretario della nobile famiglia Carafa, ramo di Andria.


    Nel 1618 era a Napoli, dove frequentò l’Accademia degli Oziosi.


    Per un breve periodo visse anche a Roma nel 1626.


    La sua notorietà è dovuta al citato saggio “Della dissimulazione onesta”, nel quale dice che la dissimulazione non è sinonimo di menzogna, ma cautela. Invita l’individuo al silenzio per vivere la propria esistenza al riparo dai tormenti.


    Meditando sul conformismo e sull'ipocrisia della società del suo tempo, il ‘600, l'autore si interroga su quale possa essere la risposta e la reazione dell'uomo onesto.


    Tra i personaggi esemplari da imitare cita il biblico Giobbe, noto per la sua pazienza nel sopportare le avversità.


    Accetto dice che il segreto è nel “viver cauto”, nel trovare il difficile equilibrio tra dire e non dire, tra esternare pericolosamente i propri sentimenti o rifugiarsi in una laconica verità.


    Egli differenzia la simulazione moralmente riprovevole, perché malevola, dalla dissimulazione difensiva, per tutelarsi.


    Accetto vuole dimostrare che la dissimulazione prudente, il “non dicibile” serve per difendersi dall'oppressione dei potenti, per tutelarsi nel rapporto con gli altri, perché le parole “agiscono anche dove tacciono”.


    Il suo saggio quindi tratta della dialettica contrastante fra realtà e apparenza, mettendo in evidenza che il dissimulare non è dire il falso, bensì una virtù che ci permette di dimostrare meno cose di quello che dovremmo o vorremmo.


    Il contrario è il simulare: dire cose in più, allontanandosi dalla realtà. La dissimulazione, comunque, non deve mai essere un'attività lunga e prolungata, soltanto un “breve riposo della mente”, per non allontanarsi dalla realtà.


    Nell’elaborato di Accetto ci sono riferimenti non espliciti a “Il Principe” (perché messo all’Indice) di Machiavelli.


    Elementi in comune con messer Niccolò: la mansione di segretario, scrive il suo elaborato dopo aver avuto esperienze di mondo, mira alla concretezza.


    Elementi differenti: Machiavelli si rivolge ai principi (argomentando di politica aiutandoli a decidere per prendere il potere), mentre Accetto, parlando di morale e di come comportarsi, si indirizza al popolo, per aiutarlo a difendersi dai tiranni.


    Il trattato, elogiato dai suoi contemporanei, indica come il cortigiano, in particolare il “secretario” di qualsivoglia potente nei tempi presenti, visti come tempi di oppressione e di difficoltà, possa e debba avere l’abilità nelle relazioni sociali fra le istanze poste dalla sua coscienza civile e cristiana e la necessità di sottrarsi alla censura e alla repressione imposta dalla legge per i dissidenti. Nel suo saggio non ci sono allusioni al malgoverno spagnolo nel Regno di Napoli e alla sua censura sociale, alle limitazioni della libertà di espressione e l’eccessiva pressione fiscale.


    S’intuisce dalle parole di Accetto anche la condizione dell’individuo nel confronto con un Dio che non parla, un Dio clandestino e latente, che promise di rivelarsi alla “fine dei tempi”, nel giorno dell’Apocalisse, quando ogni velo sarà strappato e non sarà necessario nascondere, dissimulare.


    Torquato Accetto non compose semplicemente un manuale per “dare riposo al vero”. Andò oltre, trovando la formula per vivere senza soffrire, liberi dai vincoli.

  2. #2
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