Posto quest'articolo pubblicato sulla Stampa perché mi sembra interessante, anche se non avrò credo molto tempo di seguire la discussione.

Proprio ieri riflettevo con un amico sul perché si provi il bisogno di postare qualsiasi cosa sui social, rinunciando magari alla propria privacy: desiderio di condividere? fiera delle vanità? desiderio di discutere?

Lascio a voi l'interpretazione più pertinente.

Non posto più, guardo ed è bellissimo

RICCARDO LUNA

20 Gennaio 2023 alle 07:00
2 minuti di lettura

Concita De Gregorio ha scritto un lungo, bellissimo articolo per annunciare che lascia i social e per invitarci a fare lo stesso, subito, prima che sia troppo tardi. Riprenderci le nostre vite. Uno potrebbe obiettare che lei ha già moltissime tribune dove esternare il suo pensiero, non ha certo bisogno di farlo su Facebook o Instagram, e se vuole fare un video, non le serve TikTok, sta in tv quando vuole. Ha il suo pubblico. Ma è come il dito e la luna: quello che conta non è quello che farà Concita, che è una giornalista di successo, ma il problema che pone.

I social stanno davvero mangiando le nostre identità? Il numero dei follower ha sostituito la competenza (e la fatica che serve per averla)? E la rappresentazione allegra, patinata, artefatta che facciamo delle nostre vite sul web sta aggravando le nostre fragilità nascoste rendendoci di fatto meno felici? Non lo so, parlo per me. Da un po’ di tempo posto sempre meno. Se non ve ne siete accorti, vuol dire che ho fatto bene. Se invece lo avete notato e magari vi siete preoccupati per me vorrei usare queste righe per rassicurarvi: sto benissimo. Non ho smesso di fare cose belle, i miei figli non hanno smesso di crescere, ho fatto anche io qualche bel viaggio come voi e la sera qualche volta faccio qualche aperitivo come molti. Semplicemente non l’ho postato.

In realtà prima ho cominciato con lo smetterla di dare opinioni su tutto come se su tutto avessi qualcosa da dire, sperando che la mia opinione fosse più arguta, che ci fossero molti like e molti retweet, e rispondendo con un cuore a quelli che mi mettevano i complimenti, sempre gli stessi, dopo un po’ te ne accorgi; e poi ho smesso anche di raccontare i dettagli della mia giornata. Un tempo lo facevo: Facebook ogni giorno mi ricorda che sette, otto, dieci anni fa postavo ogni partenza, qualche colazione, le cene più raffinate, i tramonti e le corse al mattino. Sentivo il bisogno di dire tutto a tutti. Guardavo i follower crescere e sentivo che era la cosa giusta da fare. Poi mi sono detto: anche meno.

Ho fatto un falò delle mie vanità. E non tanto per la questione della profilazione che le piattaforme fanno dei nostri dati a fini commerciali. Ma perché preferisco vivere piuttosto che raccontare di avere una vita costruendo cartoline di quel che sono. Dico qualcosa solo se penso che sia davvero essenziale, se in qualche modo spero possa essere utile agli altri. Evito di ingarellarmi con gente che mi accusa di qualcosa senza aver nemmeno letto quello che ho scritto. Tempo perso. L’ho recuperato per studiare di più e per occuparmi dei miei affetti. Non sono uscito dai social, però; non sono un eremita e lì ci stanno ancora tanti miei amici e i loro post mi interessano. Poi c’è tanta gente appassionante che lì ha qualcosa da dire davvero. Quelli li seguo. Insomma ci sto, sui social, ma in silenzio. Preferisco ascoltare e leggere. Provare a capire. Un tempo avremmo detto che sono diventato un lurker. E un tempo questa parola aveva un’accezione negativa, tipo “un guardone delle vite altrui”. Ma non è più così. Oggi lurker lo tradurrei piuttosto come “osservatore”. Uno che prova a studiare e pensare prima di parlare. E che cerca di capire le ragioni degli altri, a partire da quelli che sui social invece ancora ci vivono.

Giuro, ogni tanto la sera brindo alla vostra, scusate se non lo posto più.