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Discussione: Suora suicida

  1. #1
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    Suora suicida

    Fratel Cono hai saputo la ferale notizia ?

    L’altro eri a Prato una suora si è suicidata in convento.

    "La donna, della congregazione delle Catechiste del Sacro Cuore, si è tolta la vita nella sede della comunità, a Galciana. A darne notizia è la Diocesi pratese.
    La donna, di origine indiana, aveva 40 anni. E’ stata trovata morta nella sua camera: Ad accorgersi dell'accaduto sono stati la madre superiora e il parroco di Galciana don Luca Rosati, allertato dalle religiose perché la consorella non rispondeva alle chiamate e si era chiusa nella stanza dalla sera prima. Dopo aver forzato la porta è stata fatta la tragica scoperta. Immediatamente sono stati avvertiti i soccorsi e le forze dell'ordine, che hanno constatato la morte della suora”.


    Caro Cono, ormai in Europa la Chiesa cattolica non attrae più.

    Nel passato molti giovani (uomini e donne) di famiglie povere diventavano preti e monache senza averne l’attitudine, e si soleva dire: “E’ stato/a chiamato/a dal Signore”. Non era vero.

    Quante vite sprecate !

    Adesso le congregazioni religiose maschili e femminili catttoliche fanno “ponti d’oro” per convincere gli asiatici e gli africani ad intraprendere la vita ecclesiastica, per tenere in vita i seminari, i conventi e i monasteri. Poi le suore le fanno lavorare negli ospedali, nelle scuole parificate cattoliche, negli asili, come domestiche di vescovi e cardinali, ecc..

    La conosci la storia di suor Arcangela ?

    La veneziana Elena Cassandra Tarabotti, in religione suor Arcangela (1604 – 1652) fu anche scrittrice.

    Prima di sette sorelle e quattro fratelli, di cui solo due raggiunsero l'età adulta, fu l’unica ad essere destinata, contro la sua volontà, a diventare monaca nel monastero benedettino di Sant'Anna in Castello, a Venezia.


    chiesa e monastero di Sant'Anna in Castello dove suor Arcangela Tarabotti entrò nel 1617.

    Elena Cassandra, primogenita, era una ragazza graziosa, ma aveva ereditato da suo padre un difetto fisico, la zoppia, che per l'epoca la rendeva poco appetibile al mercato matrimoniale: anche per questo fu costretta ad entrare in monastero.

    Le strategie familiari nella Venezia del ‘600 non lasciavano scampo: il suo destino era segnato fin dalla nascita.

    Maritarla sarebbe costato 3 mila ducati, affidarla al monastero benedettino di Sant’Anna in Castello, mille ducati.
    Un accorto mercante qual era il padre, Stefano non poteva non tenerne conto.

    “Aut maritum, aut murum” (= o il marito, o il convento). Con queste parole si definiva il destino delle figlie femmine nelle famiglie nobili non solo di Venezia, ma di tutta la penisola italiana, dal XV secolo con il culmine quantitativo durante il Seicento.

    Nella Repubblica di Venezia, come in molte altre città italiane, la classe dominante pianificava i matrimoni e le monacazioni delle proprie figlie secondo canoni sociali, politici ed economici. Ciò si traduceva, nella pratica, in un mercato matrimoniale mantenuto artificialmente ristretto attraverso un alto tasso di endogamia, riducendo drasticamente le possibilità per le fanciulle di trovare un marito adeguato al loro status.

    Dal punto di vista sociale il convento o il monastero era sinonimo di educazione e rispettabilità. Il che, tutto sommato era meglio sia di un dispendioso matrimonio sia d’un decorso zitellaggio. Interessava poco se la bambina non aveva la vocazione per la vita claustrale, se le sue aspirazioni non contemplavano il velo.

    La “realpolitik” della Serenissima Repubblica di Venezia in fatto di monacazioni era chiara: suore non si nasce, si è costrette, scrisse più volte Elena (= suor Arcangela). Questa sua denuncia intima e politica nel contempo è dantescamente titolata “Inferno monacale”, scritta prima del 1643. Per ovvie ragioni il testo non fu mai stampato ma circolò come manoscritto fra mani amiche. Una copia superstite fu rinvenuta alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo nell’archivio privato della nobile famiglia Giustiniani.

    Oggetto della denuncia della Tarabotti non era la vita conventuale in sé stessa ma la coercizione monastica con le sue conseguenze. Se a una monacata per forza il monastero si rivelava quasi sempre un inferno, a una religiosa per vocazione poteva sembrare un luogo paradisiaco. Infatti suor Arcangela dedicò alle “vocate” un altro testo, titolato “Paradiso monacale”.

    Quanto al Purgatorio esso era riservato alle “mal maritate”, oggetto di un altro suo pamphlet, perduto o forse mai scritto.

    Nel suo manoscritto “Inferno monacale” la Tarabotti racconta la sua storia e quella di altre bambine condannate al convento o al monastero con l’inganno, tramato dai padri, avallato dalla Chiesa e incoraggiato dalla “Serenissima”.

    All’autrice non interessava raccontare la “discesa agli inferi” di quelle bambine (catabasi in tre tappe: la vestizione, la professione di fede e la consacrazione), bensì individuare i responsabili di quell’ “etterno martir di pene” in cui era destinata a tramutarsi la vita di tutte loro.

    I primi responsabili erano i genitori, in particolare i padri, contro i quali la Tarabotti lanciava la sua maledizione in forma di dedica. Il movente economico induceva la “tirannia paterna” (titolo di un’altra sua opera).

    La Chiesa, contrariamente da quanto stabilito nel Concilio di Trento (1545 – 1563), non vigilava sull’autenticità delle vocazioni delle bambine né puniva con la scomunica coloro che le avevano costrette alla vita religiosa.

    La Repubblica di Venezia incentivava le monacazioni anche per tutelare le proprietà dell’aristocrazia: “se tutte si maritassero”, dice la Tarabotti, crescerebbe di troppo la nobiltà et impoverirebbe le case col sborso di tante doti”. Dunque una correità ai limiti della congiura, le cui vittime consideravano il convento o il monastero come una prigione.

    C’è da dire, però, che il monastero benedettino in cui la giovane Tarabotti era entrata come educanda nel 1615 offriva alcune libertà altrove inconcepibili. Suor Arcangela poteva ricevere visite a cadenza regolare, scrivere lettere a chiunque, disporre di un copista personale.

    Comunque, anche il monastero di Sant’Anna in Castello dove viveva era avvolto dal “peccato”, con relazioni sentimentali fra consorelle e covo di “vipere”, in cui, contrariamente a quanto previsto dalla Regola benedettina, regnavano rancore, invidia e superbia.

    Il pensiero mi fa “volare” verso la “Monaca di Monza” di Manzoniana memoria.


    La Tarabotti fu consacrata suora negli stessi anni in cui Manzoni ambientò “I promessi sposi”

    Nel 1620 “prese i voti” con la cerimonia della vestizione diventando suor Arcangela, nome con il quale firmerà anche la maggior parte delle sue opere, nelle quali denuncerà la drammatica realtà delle monache forzate, ma anche la più generale condizione della donna nella sua epoca e società.
    Nel 1623 fece la “professione solenne” e nel 1629 circa fu consacrata. Suor Arcangela non uscì più dal monastero, dove visse per più di trent'anni e dove morì il 28 febbraio nel 1652.

  2. #2
    Candle in the wind L'avatar di conogelato
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    C'è la monaca di Monza e c'è Madre Teresa di Calcutta....
    Oggi nella Chiesa magari esiste meno quantità e più qualità nelle vocazioni religiose. E secondo me è un bene.
    amate i vostri nemici

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