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Discussione: Peccatrice o redenta ?

  1. #1
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    Peccatrice o redenta ?

    Il titolo del topic non allude al "peccato della carne" , ma è una parte del titolo di un articolo di Roberto Righetto, pubblicato oggi (20 - 10 - 2023) nel quotidiano "Avvenire": “Peccatrice o redenta? I due volti della Chiesa”.

    Righetto segnala la pubblicazione del libro elaborato dalla storica Paula Fredriksen, la quale ha indagato l’evolvere del concetto di peccato nel cristianesimo e come questo abbia portato a uno stile più centrato sul timore dell’inferno che sulla gioia del Regno.

    Questo il testo:


    “Come ha ben dimostrato lo storico francese Jean Delumeau, la civiltà occidentale per oltre un millennio è stata dominata dal senso di colpa finendo per ampliare a dismisura le dimensioni del peccato rispetto a quelle del perdono.

    Pure le letture della Sacra Scrittura e la conseguente predicazione delle verità di fede si sono appoggiate su una visione del mondo considerato come il regno del Maligno. In realtà nei Vangeli il “mondo” si presta a una lettura ambivalente: ora appare come il regno di Satana che si contrappone a quello di Dio e che alla fine dei tempi sarà vinto, ora indica l’umanità che vive sulla terra e su questa seconda accezione non pesa più un giudizio di condanna.

    «Uno dei drammi - annota Delumeau - della storia cristiana è dato dalla confusione dei due significati del termine “mondo” e dall’estensione di un anatema che riguardava solo il regno di Satana».

    Nel volume “Il peccato e la paura”, tradotto in Italia dalla casa editrice il Mulino nel 2006, Delumeau evidenzia il processo progressivo attraverso il quale la Chiesa ha dato sempre più spazio a un annuncio fondato sulla paura della dannazione che non sul desiderio di ricongiungersi con Dio in cielo.

    Predicazioni e raffigurazioni per lunghissimo tempo si sono uniformate a questo modello. Sant’Agostino e i Padri del deserto, oltre che i monaci del Medioevo, sono indicati come i principali responsabili di questo pessimismo di fondo sulla natura umana e sulle sue possibilità di salvezza, congiunti al disprezzo per il corpo e per il mondo. Di qui anche l’accentuazione del nesso fra colpa e sventura, personale o collettiva, così che tutti gli eventi anche fisici che colpivano l’umanità, dalla peste alla carestia ad ogni tipo di cataclisma, veniva collegato al peccato dell’umanità.

    Delumeau evidenzia che per tre volte Gesù si è pronunciato contro questa logica: nel caso del cieco nato, in quello delle vittime della torre di Siloe e dei galilei massacrati da Pilato. Così, tutta una concezione della vita fondata sul dolorismo ha a lungo prevalso e anche quando si giunse a elaborare in maniera definita la dottrina del purgatorio, esso venne visto più come luogo di castigo che di purificazione.

    Ora un bel volume di Paula Fredriksen, che ha insegnato Storia delle religioni all’università di Princeton e Interpretazione biblica in quella di Boston e a lungo ha studiato i primi secoli del cristianesimo, mette a fuoco questa tematica affrontando sette figure: innanzitutto Gesù e Paolo, poi Valentino, Marcione e Giustino, infine Origene e Agostino.

    Il libro si intitola “Il peccato” ed è pubblicato da Paideia (pagine 214, euro 26,00).

    Se la questione del peccato e della redenzione sono quelle fondamentali, in realtà l’autrice spazia dalla storia all’escatologia, dal rapporto con gli ebrei e i pagani alle diverse sottolineature della carne e dello spirito, rilevando le tante facce del cristianesimo di allora, almeno sino al primo Concilio di Nicea che stabilì la natura divina e umana di Cristo. Le prime parole di Gesù, riportate nel Vangelo di Marco, sono state: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo».

    Fu l’annuncio della buona notizia: Dio si era incarnato per salvare l’umanità.

    La Fredriksen si sofferma nella prima parte sull’attesa escatologica che animava i discepoli e le prime comunità cristiane, che attendevano il ritorno imminente di Gesù. Uno dei segnali della parusia sarebbe stato considerato la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte di Tito.

    Un capitolo è dedicato ovviamente a Paolo e al suo concetto di peccato, ben espresso nella nota frase della Lettera ai Romani «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio», a sottolineare come la creazione intera sia prigioniera della legge del peccato e come solo la morte e la resurrezione di Cristo portino alla redenzione. Scrive la studiosa: «Il campo d’azione del peccato è per Paolo universale. Il peccato pervade il cosmo e definisce la condizione umana».

    Ma la salvezza toccherà a tutti, anche agli ebrei e ai pagani? Secondo la Fredriksen, Paolo non ha dubbi, la redenzione sarà universale, come si legge nell’epistola ai Romani: «Dio ha infatti imprigionato tutti nella disobbedienza, così da poter mostrare misericordia verso tutti».

    Diverse interpretazioni subì il pensiero di Paolo nei secoli seguenti, soprattutto da parte degli gnostici Valentino e Marcione, che fecero del disprezzo del corpo uno dei fondamenti del loro pensiero. «Sia per i valentiniani sia per i marcioniti – dice l’autrice – salvezza significa redenzione dalla carne. Per i proto-ortodossi salvezza significava invece redenzione della carne».

    A loro rispose Giustino, ritenuto il primo filosofo cristiano.

    Ma dove la sfida si fece decisiva sul tema della redenzione universale avvenne più tardi, con Origene e poi con Agostino. Il primo (187-254) operò nel mondo greco, mentre il secondo (354 - 430) nel mondo latino, ma entrambi condividevano lo stesso canone scritturistico e ritenevano di parlare a nome della vera Chiesa dell’ortodossia cristiana.

    Furono due veri geni della Chiesa antica, ma sulle cose ultime si trovarono in profondo disaccordo: la teoria sull’apocatastasi di Origene, secondo la quale tutta l’umanità sarebbe stata redenta e perfino Satana si sarebbe alfine salvato, fu infatti condannata come eretica.

    In Agostino l’idea di giustizia in Dio prevalse su quella della misericordia. Il vescovo di Ippona, vissuto un secolo dopo Origene, si pose in diretta contrapposizione: «Sono consapevole che devo impegnarmi in un dibattito con quei cristiani compassionevoli che rifiutano di credere che la punizione dell’inferno sarà eterna. Sull’argomento il più compassionevole di tutti fu Origene ». Un’opinione che per Agostino contraddice le parole esplicite di Dio.

    La discussione teologica ha avuto, come è noto, un epilogo nel 1985 con la pubblicazione del libro titolato: “Sperare per tutti”, scritto dal presbitero e teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905 – 1988)”.



    Philippe de Champaigne, Agostino d’Ippona cardioforo, olio su tela, 1645 - 1650, Los Angeles, County Museum of Art.

    Nel libro nono delle “Confessioni” Agostino dice: “sagittaveras tu cor meum charitate tua” (= hai ferito il mio cuore con il tuo amore). La frase esprime in forma poetica l’amore di Agostino per Dio.

    Un amore così grande da essere rappresentato simbolicamente con un cuore fiammante. Nei dipinti realizzati da numerosi autori, Agostino lo sorregge con la mano, talvolta il cuore è attraversato da una freccia, oppure Agostino lo offre al Signore.

    La raffigurazione del cuore, diffusa dal XVII secolo, fu usata anche per il logo dell’Ordine Agostiniano.
    Ultima modifica di doxa; 21-10-2023 alle 13:48

  2. #2
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    Peccatrice e redenta, amico Doxa: senza punto interrogativo e senza le due opzioni. La Chiesa è la sposa di Cristo, che a lei rimane fedele per sempre. Nonostante le sue contraddizioni....

    https://www.culturacattolica.it/cris...dele-di-cristo

    Tu sei Pietro e su questa pietra poggeranno le fondamenta della mia Chiesa. Le porte degli Inferi non prevarranno MAI contro di Essa.
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  3. #3
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    "sposa" si, ma infedele, molto infedele

    Ora ti faccio leggere un articolo di Giuliano Ferrara, titolato "La sposa infedele" e pubblicato su "il Foglio" del 21 settembre 2013




    "E io che me la portai al fiume credendo che fosse ragazza, e invece aveva marito”. Bergoglio nell’intervista al giornale gesuita parla della "Casada infiel", della Sposa infedele, quella che García Lorca si porta al fiume, dove “i suoi seni si aprivano come rami di giacinto”, senza immaginare che fosse un adulterio. Quando insegnava, il nuovo Papa racconta che trovò le vie per indurre i suoi allievi, curiosi della sensualità del poeta, a distrarsi in cose più serie. Ma ormai l’ha detto, la Casada infiel, e siccome è anche un lettore e seguace di Michel de Certeau, una specie di mistico Lacan dei gesuiti, l’incidente o lapsus si è irreversibilmente prodotto, almeno per quanto mi riguarda.

    La Chiesa cattolica è una sposa infedele. Ecco spiegata in versi la nuova chiesa povera e per i poveri, l’ospedale da campo della misericordia, delle garze e dei buoni sentimenti al posto dell’esercito angelico di Wojtyla e della cattedra razionale di Ratzinger, due dimensioni temibili che hanno spossato e minacciato la contemporaneità. Il richiamo è grandioso: bisogna far rivivere la pietà cristiana di cui si erano perse le tracce nelle ultime guerre razionali, e sulla scia del compagno di Ignazio, Pierre Favre, occorre puntare al rafforzamento dei corpi e alle guarigioni di ciascuna delle loro parti molto più che non alla salvezza delle anime o alle virtù. Ora il Vangelo si erge contro la dottrina. Quel libro bellissimo e selvaggio, che è anche un memoriale misterioso e confuso, quel libro che da venti secoli cerchiamo di spiegarci, perché la semplicità è difficile a farsi, diventa la febbre di bene e di comprensione umana contro il cinismo catechistico della dottrina, contro i piccoli precetti.

    Il mondo ha processato e condannato la Chiesa cattolica e il pensiero cristiano, la chiesa lo assolve. Che trovata geniale, che uovo di Colombo. Non solo lo assolve: mutua i suoi mezzi, ci trascina evangelicamente verso un soggettivismo modernista di tipo antico, verso la sua radice, verso la morale dell’intenzione. Non sono affatto scandalizzato, e resto un papista convinto, un ammiratore curioso del relativismo dei gesuiti, del loro discernimento, ma le mie ferite non sono curabili nel suo ospedale. Non è che io non creda, questo lo vedremo al momento giusto che nessuno sa mai se e quando verrà: è che non affetto di credere o di non credere. Non chiedo ancora perdono per i miei peccati, non sono ancora contrito, capiterà ma non adesso, c’è tempo. La mia devozione per il cristianesimo e per la chiesa non viene dall’animo privato, dalla fede o dalla prospettiva di una benevola confessione e assoluzione bensì, come detto e stradetto, dal posto delle idee e della cultura cristiana nello spazio pubblico e dall’uso teologale che gli ultimi due papi prima di Francesco avevano fatto della ragione umana, come una quarta virtù dopo la fede la speranza e la carità.

    Il gesuita che obbedisce a se stesso, il relativista che conta sul quarto voto, ha preso tutt’altra direzione. Chi è lui per giudicare i fornicatori? Chi è lui per dire che l’aborto è un omicidio e il matrimonio una cosa seria? Sono cose ovvie, almeno per i figli della chiesa, come non si stanca di ripetere il nostro Bergoglio, magari come ieri ai ginecologi. Non sono ovvie per il mondo extra muros? Pazienza.

    Ora la chiesa si fa figlia del mondo, e il suo adulterio sentimentale è sotto gli occhi di tutti. Gesù è un avvocato delle nostre debolezze, come ha detto Francesco in un Angelus, e il peccato esiste solo per essere cancellato da una penitenza che, non sia mai, per la carità, deve esprimersi in una confessione benigna, in una emersione di ciò che sta sotto anziché in un giudizio dall’alto dei cieli, ultima vittoria della psicoanalisi. Il Papa gesuita con il saio usa argomenti illustri, impiega modi bruschi e liturgie eversive che non mi dispiacciono affatto, non ha la dolente mondanità di un cardinal Martini, e ha buoni motivi per comportarsi come si comporta: dopo i fasti del guerriero (Giovanni Paolo II) vennero gli anni in cui il gigante teologo (Joseph Ratzinger) fu piegato e piagato, e messo in ginocchio dal mondo, che gli aveva abbattuto le mura della chiesa con storie di pedofilia del clero e di orchi e streghe, fino al gran rifiuto. Francesco ha l’irruenza della hispanidad latinoamericana, è una rumba sudamericana presa dalla fine del mondo, uno così se ne fotte dei drammi novecenteschi dell’Europa polacca e bavarese espressa dalla cultura dei predecessori, se proprio deve trovare una fonte la troverà nella Parigi del Cinquecento, a Montmartre, dove fu fondata la Compagnia di Gesù.

    Il suo problema non è il Concilio Vaticano II e nemmeno il dopo Concilio. Queste cose le sbriga in due parole. L’ospedale di Francesco è un’altra costruzione ancora. E’ una cosa viva, è una risposta politica, è un tentativo lodevole, scandaloso ma ammirevole, di sopravvivenza. Per questo l’infedeltà di Francesco a me piace, in un certo senso. Io però sono un laico, a me interessa una ragione completa del suo mistero, non il vangelo come santa e sublime filastrocca; e finalmente vediamo all’opera gli atei devoti veri, quelli che la chiesa va bene se amministra la fede, concede ai sentimenti politicamente corretti e lascia in pace la ragione più o meno illuminata. E’ anche una bella soddisfazione. Quest’uomo energico e scaltro libera la coscienza inquieta dei peccatori, perché è furbo come egli stesso afferma, ma al tempo stesso ributta il diavolo tra le gambe dei contemporanei, perché l’ingenuità non gli manca. Spero che il gesuita sappia regolarsi come una volta i confessori dei re e i casuisti e i grandi missionari: spero si ricordi del fatto che la chiesa perdona, il mondo no.


    Di Federico Garcia Lorca la poesia titolata: "La sposa infedele"

    "E io me la portai al fiume
    credendo che fosse ragazza,
    invece aveva marito.

    Fu la notte di San Giacomo
    e quasi per miracolo
    si spensero i lampioni
    E si accesero i grilli.

    Dopo l’ultima curva
    toccai i suoi seni addormentati,
    e mi si aprirono subito
    come rami di giacinti.

    L’amido della sua sottana
    mi suonava nell’orecchio,
    come una stoffa di seta
    lacerata da dieci coltelli.

    Senza luce d’argento sulle loro cime
    sono cresciuti gli alberi,
    e un orizzonte di cani
    latrava lontano.

    Passati i rovi,
    i giunchi e gli spini,
    sotto la chioma dei suoi capelli
    feci una buca nella sabbia.

    Io mi levai la cravatta.
    Lei si levò il vestito.

    Io il cinturone con la pistola.

    Lei i suoi quattro corpetti.

    Né tuberose né chiocciole
    hanno la pelle tanto sottile,
    né cristalli sotto la luna
    risplendono con questa luce.

    Le sue cosce mi sfuggivano
    come pesci sorpresi,
    metà piene di fuoco,
    metà piene di freddo.

    Quella notte percorsi
    il migliore dei cammini,
    sopra una puledra di madreperla
    senza briglie e senza staffe.

    Non voglio dire, da uomo,
    le cose che lei mi disse.
    La luce della ragione
    mi fa essere molto discreto.

    Unta di baci e sabbia,
    io la portai via dal fiume.

    Con l'aria si battevano
    le spade dei gigli.

    Mi comportai da quello che sono.
    Come un gitano autentico.


    Le regalai un tavolino da lavoro
    grande di raso paglierino,
    e non volli innamorarmi
    perché avendo marito
    mi disse che era ragazza
    quando la portavo al fiume.


  4. #4
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    La Chiesa perdona, il mondo no.
    Mi colpisce questo passo, della riflessione di Ferrara.
    Qualsiasi nostro errore, il mondo ce lo fa pagare. Spesso a caro prezzo! Dio prende i nostri errori...i nostri peccati e, dice la Scrittura, "se li butta dietro le spalle!"
    amate i vostri nemici

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