Nel primo capitolo della seconda lettera ai Corinzi, Paolo scrive: “Non vi scriviamo nulla di diverso da quello che potete leggere o comprendere” (1,13). Cosa intende dire l’Apostolo?
E’ evidente che i fedeli di Corinto leggono quanto ha scritto Paolo. Forse quest’ultimo sospetta che i Corinti possono attribuire alle sue parole intenzioni dolose o doppi sensi?
Tuttavia, né il rapporto preferenziale che Paolo mantiene con questa comunità né il contenuto della lettere portano ad una simile conclusione. Per questo motivo, nonostante la sua semplicità grammaticale, tale affermazione risulta enigmatica. Gli sforzi fatti dagli studiosi per attribuirgli un significato accettabile sono stati vani. L’unica spiegazione che consente di fare luce su questa affermazione sta nel ritenere che ci troviamo di fronte ad una cattiva traduzione dall’originale aramaico.
In questa lingua semitica, oltre all’accusativo che funge da complemento diretto di verbi transitivi, esistono gli accusativi indiretti, e tra questi il cosiddetto accusativo di specificazione. Quest’ultimo deve essere tradotto facendolo precedere dalla preposizione “circa, con riferimento a”. Interpretando in tal modo l’accusativo di questa preposizione paolina, l’originale aramaico diceva: “Perché non vi scriviamo se non circa le cose che leggete”. In questo modo L’Apostolo specifica che il contenuto delle sue lettere non è diverso dalle letture che la comunità di Corinto realizza pubblicamente. Non nomina specificamente questi scritti, ma possiamo facilmente dedurre che essi siano collegati all’annuncio cristiano. Si ritiene quindi, che queste parole dell’Apostolo debbano essere interpretate così: ”Ciò che io scrivo nelle mie lettere è pura riflessione teologica, commento a quanto voi leggete nelle vostre letture sacre della domenica”. L’Apostolo si sente radicato a questa tradizione su Gesù tramandata per iscritto.
E’ altresì interessante segnalare che nessuna espressione del testo induce a pensare che qui Paolo si riferisca ad una tradizione propria delle Chiese da lui stesso create; anzi, sembra piuttosto un qualcosa che già succedeva nelle comunità cristiane, ancor prima della sua conversione ed incorporazione alla predicazione del Vangelo.
Di conseguenza, i testi che contenevano l’annuncio cristiano sono preesistenti all’epoca in cui egli fondò la comunità di Corinto. Da questa affermazione paolina si deduce inoltre che gli scritti che possiamo denominare “Vangeli” non furono redatti ad uso esclusivo dei predicatori, così come suole ripetersi con frequenza tra gli studiosi, bensì anche, e forse soprattutto, affinché coloro che credevano in Gesù Cristo potessero avere una lettura sacra che parlasse di Lui nelle celebrazioni dell’Eucaristia.
Effettivamente, ovunque si fossero riuniti i credenti cristiani per celebrare il rito liturgico, si saranno letti scritti di genere sacro. Noi li definiamo sacri, e già erano considerati tali, per il loro contenuto: si trattava semplicemente delle opere e degli insegnamenti di Gesù e dei racconti della sua passione, morte e resurrezione. Soltanto attraverso letture di questo tipo era possibile garantire la conservazione della fede nelle comunità. A tale proposito si ricordi che le prime comunità di credenti cristiani furono quelle della Palestina, nate dopo la morte e resurrezione di Cristo. Poiché erano comunità di lingua aramaica, è ovvio che i loro scritti fossero in aramaico. Di fatto, lo studio filologico e linguistico dei vangeli greci conferma l’esistenza di questi racconti aramaici primitivi.