Conosco l’Alexanderplatz, anzi, le Alexanderplatz da trent’anni.
Non ho mai capito perché i miei amici, parenti, conoscenti che sono venuti a trovarmi a Berlino abbiano immancabilmente voluto vedere l’Alexanderplatz.
Forse merito o colpa di Battiato e Milva.
L’Alex, come la chiamano i berlinesi, non è una bella piazza.
Durante il socialismo terribilmente grigia, percorsa solo da passanti frettolosi e con lo sguardo a terra, pochi turisti dall’aria smarrita alla ricerca di un motivo da fotografare che alla fine si riduceva alla bruttissima fontana, ora transennata e vuota, e all’orologio mondiale lì a rappresentare l’internazionalismo del proletariato e della sua lotta.
L’Alex voleva essere il salotto buono del socialismo reale da esporre come sfida all’Europa dei consumi e dell’abbondanza. In realtà nell’unico caffè con terrazza sulla piazza dove camerieri villani gareggiavano a maltrattare i pochi malcapitati occidentali e ogni tre tavolini erano occupati da giovanotti coi capelli corti sulla nuca intenti ad osservare con attenzione ogni movimento, gli unici clienti erano ufficiali ubriachi dell’armata rossa sovietica, qualche quadro intermedio degli uffici affacciati alla piazza e, appunto, i giovanotti attenti che qui non avvenissero i tanto temuti contatti fra cittadini della repubblica popolare e i decadenti occidentali.
Il palazzo sopra il caffè era occupato dalla cosiddetta “Casa della Cultura e della Stampa”. Una biblioteca aperta al pubblico offriva una vasta gamma di libri noiosissimi sul progresso del socialismo in Angola, la riforma scolastica nello Yemen e le conquiste dell’agricoltura della Siria Baahtista. Inutile anche una visita ai magazzini Konsum nella speranza di poter acquistare qualche articolo interessante a buon prezzo: se era a buon prezzo non era interessante e se era interessante non era a buon prezzo.
Una piazza in grado di mettere tristezza anche al più sperimentato ottimista, in altre parole, una fonte di depressione.
Poi venne la svolta, come la chiamano ancora gli ex-tedeschi orientali. Il grattacielo, orgoglio della repubblica popolare, ha cambiato nome e padrone, da Interhotel a Park-inn Radisson, il caffè è diventato una banca, la Casa della Cultura trasformata in uffici dove hanno preso posto compagnie, queste sì, internazionali. I giovanotti col taglio corto dietro la nuca hanno lasciato il posto ad allegri cittadini inebriati dal consumo insensato nei nuovi centri commerciali Alexia, C&A, Galeria Kaufhof e tutti gli altri. Ecco perché ho scritto “le Alexanderplatz”.
Perché anche questa piazza è diventata lo specchio del cambiamento dinamico di questa città e, se vogliamo, anche lo specchio del nostro destino.
Niente rimane uguale nel tempo, del socialismo rimangono ancora poche tracce. Un palazzone all’imbocco della Karl-Marx-Allee, simbolo dell’edilizia progressista orientale, è una rovina pericolante, disabitata e transennata in attesa dell’abbattimento. Su qualche palazzo vicino sono rimasti i plastici che esaltavano la repubblica degli operai e contadini e la conquista dello spazio da parte dei cosmonauti (il nome doveva essere diverso da quello occidentale di astronauti) e, curiosamente, al semaforo una vecchia “Trabbi”, le automobili con motore a due tempi della DDR, aspetta il verde.
“Panta rei”, scriveva Eraclito cinquecento anni prima di Cristo, tutto cambia, nulla resta uguale, non ci si può immergere due volte nello stesso fiume.
Chi crede che la vita sia la conquista di un sapere o di una coscienza che poi resterà alla base della propria personalità per sempre, venga qui a vedere questa piazza. La repubblica popolare tedesca, secondo la volontà dei suoi fautori, avrebbe dovuto durare per sempre e il muro che divideva la città, restare per almeno altri cento anni.
Di tutto ciò sono rimaste solo poche tracce e rovine.
I nostri sogni, le nostre certezze, per quanto doloroso ci possa sembrare, sono case costruite sulla sabbia, un colpo di vento e ci ritroviamo di fronte all’ignoto come il primo giorno della nostra vita consapevole. Per qualcuno tutto ciò è fonte di incertezza, di malessere e anche di disperazione. Per altri significa alla fine comprendere la propria natura di pellegrini perenni, di viandanti inquieti, sempre in movimento in un’avventura nel’ignoto senza fine.
Sto per lasciare la piazza ma la mia attenzione viene attirata da un gruppetto di giovani ragazze e ragazzi che regalano rose ai passanti, hanno un cartello con scritto: “Permette? Musulmano”.
Un segno dei tempi che cambiano e del fiume che scorre.
Sul cassettone di una centralina poco distante una mano anonima ha affisso un manifestino con la scritta:
“I pesci saranno gli ultimi a scoprire l’acqua”.
Alexanderplatz, auf Wiedersehen.
Ultima modifica di King Kong; 27-02-2024 alle 22:29