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Opinionista
Sorriso d'arance.
Quello che mi piace delle ragazze sono i sorrisi. Mica quelli smaglianti a 32 denti, no. Quelli appena accennati, un po’ indecisi ad aprirsi. Oppure quelli asimmetrici, magari con gli angoli all’ingiù. Così se poi la ragazza scoppia in una risata mi sento un dio. Come la prima volta che accadde: me lo ricordo bene perché mi è stata impressa nella memoria da mia madre. A ceffoni.
Be’ sì, tutto accadde in un periodo difficile, la prima crisi è sempre tosta. A scuola ero in seconda e seppur bravino andò a finire che mi rimandarono in tutte le materie.
Un giorno sedevo al banco con aria svagata dall’ultima ora di lezione e già pensavo al pomeriggio di libertà.
Il mio sorriso inebetito stimolò la cattiveria del mio compagno che mi sparò una fucilata: “Uè, bamba: ma è vero che ci credi ancora a Babbo Natale?” .
Nella vita avevo già imparato che in certe occasioni è meglio fare la faccia disincantata, ma mi stava crollando il mondo addosso.
Ma come? e tutte le scene che mio padre fa alla vigilia, lasciando in cucina un bicchiere di vino per rifocillare Babbo Natale quando passa a trovarci la notte? E il bicchiere vuoto che trovavo il mattino? E il tavolo pieno di regali? Non erano forse la prova provata del suo passaggio?
Che stupida insinuazione quella del mio compagno di banco. Non l’avevo mai considerato particolarmente intelligente.
Però uscendo da scuola un branco di tarli mi trapanava il cervello: e se..?
Mia madre ammise subito. “Ma dai, è un gioco carino che si fa con i bambini: ora sei grande, hai quasi 8 anni. Io e papà pensavamo tu lo sapessi già.”
In certe occasioni è difficile non piangere, ma sono un tipo tosto e feci solo qualche laconica rimostranza per dimostrare che ormai ero un ometto e mi sapevo comportare come tale. Infatti dopo pranzo andai di nascosto sul balcone con il martello di papà e con metodo e determinazione ridussi ad una sogliola il bellissimo carro armato di latta che avevo ricevuto in regalo poche settimane prima.
Ma non lo feci per antimilitarismo precoce, no.
Mia madre non si fida più a lasciarmi a casa da solo mentre esce per commissioni. Nel pomeriggio mi affida ad una ragazzina di 15 anni che vive nel pianerottolo. Grazie a qualche regalino lei viene a fare i compiti nel pomeriggio da noi e bada che li faccia anch’io. A volte mi da anche la merenda e quel giorno mi passa un’arancia distrattamente. Io la lascio rotolare fuori dal tavolo per poi prenderla al volo con sgangherata agilità prima che tocchi il pavimento. E’ così che spunta quel primo accenno di sorriso, ammaliante anche se la sua ambiguità significava ben altro.
Gioco che vince non si cambia. Faccio scorrere l’arancia ancora fuori dal bordo per strappare un altro sorriso che mi arriva come un premio, poi una terza volta. Già alla quarta i miei occhi non seguono più il frutto, ma sono piantati sulle sue labbra mentre l’arancia cade a terra. Splash.
Umiliato abbasso lo sguardo quando sento una risatina.
Inorgoglito mi metto a fare il giocoliere come al circo con esiti più che prevedibili e la risata diventa squillante. Le arance ormai volano sempre più in alto e la ridarola comincia a prenderci tutti due, finché una non si spiaccica sul soffitto. Bum e ride. E allora ne tiro altre sulle pareti. Bum, bum: a ogni centro lei ride. Non sbaglio un colpo e mentre gusto con fierezza questa mia mira infallibile la chiave nella porta di casa comincia a girare.
Non vidi mai più quella ragazzina. E nemmeno la mia paghetta per diversi mesi a venire.
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