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"Chi ha paura dell' IA cattiva?"...da cantare danzando
A giudicare dall'attacco di grafomania sull'argomento, si potrebbe pensare che la IA mi faccia paura.
L’Intelligenza Artificiale mi fa paura?
SI
Non nel senso cinematografico del termine, ma in quello reale, quotidiano: paura di perdere il lavoro, di restare indietro, di non essere più necessario. È una paura concreta, non isterica, che tocca professioni, identità, aspettative.
L’IA non minaccia solo l’occupazione, ma l’autocomprensione: chi sono, se non servo più a pensare?
Eppure, la paura potrebbe essere un buon punto di partenza. È il segnale che un cambiamento è in atto e che ci riguarda.
Ignorarla è peggio che esagerarla.
È solo riconoscendo l’impatto profondo dell’IA che possiamo incominciare a interrogarla seriamente.
Nel pensiero scientifico, la neutralità della tecnologia è un mito ricorrente.
Già Heidegger,il guru dell'oscurità svelata, in La questione della tecnica, avvertiva che la tecnica non è solo mezzo, ma modo di svelamento del mondo. Ogni tecnologia implica una visione di ciò che è utile, misurabile, manipolabile.
E l’IA, in quanto tecnologia cognitiva, tocca il cuore stesso di ciò che consideriamo pensiero, linguaggio, decisione.
La sua forza non sta nell’intelligenza cosciente (che non ha. Per ora, almeno.
), ma nella capacità di operare come forma alternativa di risoluzione dei problemi. Non inventa, ma ricombina.
Genera risultati sorprendenti perché si muove in spazi che la mente umana attraversa lentamente.
L’IA “crea” solo se ridefiniamo cosa intendiamo per creare: sintesi, variazione, adattamento.
La tentazione è forte: usarla subito, ovunque, comunque. Ma questa accelerazione produce un paradosso: sfruttiamo qualcosa che non conosciamo/comprendiamo appieno (bellissimo, l'arcaismo, vero?
).
Ed è qui che la paura trova terreno fertile. Senza comprensione, ogni potenza sembra arbitraria. Senza criteri condivisi, ogni trasformazione appare come un salto nel vuoto.
Comprendere l’IA non significa mitizzarla o temerla, ma smontarla analiticamente: sapere cosa fa, come lo fa, con quali dati, secondo quali logiche. Solo allora possiamo valutare se è utile, giusta, legittima.
Una tecnologia è positiva solo se non è dannosa.
Può sembrare una tautologia, ma è un principio cardine: serve ricordarlo ogni volta che una nuova tecnica viene introdotta in contesti sociali senza una valutazione d’impatto etico, cognitivo, politico.
La filosofia della scienza ce lo insegna da tempo. Popper, il falsificatore implacabile (il mio prezzemolo tuttofare) sosteneva che il progresso sta nella fallibilità, non nella perfezione: dobbiamo poter correggere i nostri modelli, discuterli pubblicamente, porre limiti. Questo vale anche per l’IA: ciò che non si può interrogare, non si può nemmeno controllare.
E non è solo una questione di trasparenza tecnica, ma di relazione epistemica
. Detto il parolone giornaliero, lo traduco.
Non si tratta solo di capire come funziona tecnicamente l’IA, ma anche di riflettere su come ci affidiamo a quello che ci dice: quanto possiamo fidarci, chi decide cosa è vero, e quali limiti ha questa conoscenza automatica.
Se trattiamo l’IA come oracolo, deleghiamo il nostro giudizio. Se la vediamo come strumento assoluto, ci rendiamo passivi.
Capirla prima di sfruttarla significa mantenere controllo consapevole, evitare la dipendenza funzionale e preservare la libertà di scelta.
Le potenzialità esistono: abbattimento delle barriere linguistiche, accesso facilitato all’informazione, supporto nella ricerca e nella cura.
Ma vanno collocate in un contesto critico.
Come scrive Haraway, la tessitrice di cyborg e utopie, ogni tecnologia è situata: nasce in un contesto, porta con sé visioni del mondo, distribuisce potere.
L’IA non fa eccezione.Prende decisioni automaticamente, rafforza pregiudizi esistenti e cambia ciò che consideriamo importante.
La paura, allora, non è ostacolo, ma soglia. Da essa parte il lavoro di comprensione.
Solo chi accetta di non sapere, può cominciare a capire. E solo la comprensione genera libertà di azione.
L’IA non è un nemico, né un salvatore. È un processo complesso, che ci interroga.
Accoglierlo senza comprenderlo è cedere al mito del progresso cieco.
Capirlo prima di usarlo è il primo gesto di responsabilità:
Non è uno strumento di risoluzione di problemi, ma un modo di pensare ai problemi.
Piccola bibliografia:
Heidegger: "La questione della tecnica"
Popper: "La logica della scoperta scientifica"
Haraway: "Manifesto cyborg. Donne, tecnologia e società"
@axe, sei contento della spaziatura?
Ultima modifica di restodelcarlino; 24-05-2025 alle 14:14
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