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Opinionista
Inverno demografico
Ebbene sì, la denatalità o inverno demografico ha ripercussioni anche economiche. Conseguenza di facile deduzione.
Sarà per questo che anche il sole24ore se ne è occupato con un bel articolo.
Prima di fare commenti, leggetelo bene. Il finale, che poi è l'inizio, potrebbe sorprendervi. 
Udite udite:
"Si fanno sempre meno figli. Non solo in Italia, ma in gran parte dei Paesi occidentali e ormai la definizione di inverno demografico sembra quasi un eufemismo per definire il calo continuo e costante dei tassi di fertilità.
Sono le donne a non volere più diventare madri o piuttosto il quadro è molto più complesso e riguarda la struttura del sistema economico contemporaneo? Domanda retorica a parte, la realtà è innegabile: al di fuori dell’Africa sub-Sahariana il numero di figli per mamma è in calo in tutto il mondo. In alcuni Paesi la linea ha seguito un andamento costante nei decenni, in altri ha registrato balzi profondi e veloci in specifici momenti storici. Ma a rimanere comune per tutti, restano le ragioni alla base di questa tendenza globale al ribasso. Chi prima negli anni chi dopo è sceso sotto il livello di 2,1 figli per donna in età fertile, come evidenzia lo studio dell’Onu World Fertility 2024.
Una questione economica?
Costi della vita sempre più elevati, non accompagnati da un aggiustamento adeguato dei salari. Incertezze economiche e insicurezza sociale. Tutti elementi che continuano ad allontanare i Paesi dal numero “magico di sostituzione” (2,1 figli per donna in età fertile, appunto), prendendo in prestito le parole del nobel per l’Economia 2023, Claudia Goldin.
Per quanto il trend prevalente sia di una flessione del tasso di fertilità, il calo delle nascite non ha seguito lo stesso andamento in tutte le nazioni o aree. «In Europa, Asia e in Nord America, i tassi di fertilità totali di alcune nazioni sono scesi sotto la magica cifra sostitutiva di 2,1 almeno già negli anni ‘70. Ma in altre nazioni, (questi livelli) sono rimasti elevati fino agli anni ‘90 per poi crollare in seguito» scrive la professoressa di Harvard nell’introduzione al suo recente studio “Babies and the macroeconomics”. Cosa è successo?
I soldi, o meglio la loro mancanza, restano certo gli imputati numero uno. Ma il puzzle è definito anche da caratteristiche ed evoluzioni sociali, individuali ed economiche. Allertavano, per esempio, le Nazione unite nell’annuale “State of the World Population”, di giugno: «A un numero sempre più alto di persone viene negata la libertà (stessa) di metter su famiglia data l’impennata dei costi della vita, persistenti diseguaglianze di genere e delle crescenti incertezze sul futuro».
O addirittura, come mette in chiaro il report Unfpa (United Nation Population Fund) – dal titolo significativo, “The real fertility crisis: The pursuit of reproductive agency in a changing world” (La vera crisi della fertilità. La ricerca dell’autonomia riproduttiva in un mondo che cambia):
«Ciò che è davvero a rischio è l’abilità delle persone di scegliere liberamente quando – e se – avere figli»
Tassi di fertilità per donna – World Population Dashboard, UNFPS
Economia, società e libertà personali che si intrecciano, quindi, in un mix particolarmente rilevante nello sviluppo degli stati. Sempre meno nati e una popolazione che invecchia, corrispondono infatti a una minaccia, tra le altre, alla sostenibilità dei sistemi pensionistici; intaccano gli andamenti di crescita del mercato del lavoro conosciuti fino a qui; e mettono a rischio anche gli investimenti verdi.
Carichi di cura mail distribuiti
Se i “money worries”, le preoccupazioni legate alle proprie finanze, rappresentano la ragione numero uno per scegliere di diventare genitori o meno, secondo l’indagine internazionale delle Nazioni unite, per la maggior parte dei rispondenti (39%) le limitazioni economiche sono anche la causa primaria che porta ad avere meno figli di quanti se ne vorrebbero. Per il 21% il principale ostacolo in questo senso riguarda l’incertezza lavorativa. Mentre per il 19% le preoccupazioni sul futuro, dal cambiamento climatico, alle guerre rappresentano le prime imputate per non allargare la famiglia quanto si vorrebbe.
Tra tutte le risposte, per quanto in percentuali più piccole, interessante è notare che alcuni imputano alla divisione squilibrata dei carichi domestici l’impossibilità di diventare genitori del numero desiderato di figli. Lo afferma il 13% delle donne. Ma solo l’8% degli uomini.
Su questo tema della cura, torna anche nelle recenti osservazioni di Claudia Goldin. Nel suo studio “Babies and Macroeconomy”, infatti, la premio Nobel per l’economia rileva che i Paesi dove gli uomini si assumono maggiori responsabilità in casa e nella cura di bambini – in altre parole, dove ci si allontana dai ruoli tradizionali di papà-breadwinner e mamma-casalinga – sono quelli che conoscono i livelli di fertilità più alti. Per quanto, ribadiamolo, continuiamo comunque a parlare di tassi ovunque molto più bassi rispetto al passato.
L’analisi della professoressa di Harvard indica poi come il calo della fertilità nei Paesi più ricchi ha seguito due traiettorie. Stati come Danimarca, Francia Germania o Stati Uniti, che hanno conosciuto uno sviluppo economico relativamente costante nel XX secolo, hanno visto calare il numero di figli per donna sotto il 2, negli anni ’10 di questo secolo. Un declino proseguito a ritmo abbastanza costante nel tempo e che non ha portato a cifre basse quanto quelle di Paesi come Italia, Giappone, Grecia o Corea del sud.
Il gruppo di cui fanno parte queste ultime tre nazioni, infatti, per tutti gli anni ’70 ha registrato medie di 3 figli per donna. A partire da quarant’anni fa però, questi numeri sono precipitati rapidamente. Scrive Goldin che proprio Roma e Tokyo, tra le altre, sono oggi nazioni «del “minimo-minimo” (“lowest-low”, tra virgolette nel testo). Cioè con tassi che sono sotto l’1,3» figli per donna.
Secondo l’economista, alla base del tipo di traiettoria verificatosi ci sarebbe il tipo di crescita economica avvenuto. Un’evoluzione che ha catapultato Italia e Giappone, nella “modernità”, senza lasciare il tempo alle società di adattarsi a nuovi norme di genere. Ricorda Goldin che proprio queste due nazioni, per esempio, dopo un periodo di stagnazione, hanno conosciuto tra gli anni ‘60 e ‘70 un’aumento repentino del Pil pro-capite. Con sempre più donne nel mondo del lavoro. E senza che parallelamente si verificasse un cambio culturale. O aumentasse adeguatamente il supporto da parte dei loro partner nella cura di casa e famiglia.
Chiarisce infatti lo studio, «Un cambiamento economico rapido può aver portato a conflitti sia generazionali sia di genere, risultanti in un veloce calo dei tassi di fertilità totali». Dopo tutto, «trasformazioni economiche repentine, spesso mettono in discussione convinzioni profondamente radicate». E le convinzioni culturali «cambiano più lentamente di a quanto (facciano) la tecnologia o l’economia».
Nuove priorità
Che sia per l’instabilità mondiale o perché manca il lavoro; che centri la crescita Pil o le condizioni sociali, si continuano a fare sempre meno figli. I primati negativi restano quelli registrati in Italia, Giappone e Corea del Sud. Nel 2024 le prime due hanno registrato tassi di 1,18 e 1,15, numeri in calo in tutti e due i casi anche rispetto all’anno precedente – nel 2023 erano per entrambe pari a 1,2 figli per donna. Peggio di tutti, però, fa Seul. Qui, dalle ultime stime ufficiali, l’indice di fertilità ha toccato lo 0,74. In ripresa, ma di pochissimo rispetto allo 0,72 dell’anno precedente.
Ovunque un sempre maggior numero di ragazze studia più a lungo. Sempre più giovani aspirano a costruirsi una professione e magari assicurarsi una carriera. Sono sempre di più quindi quelle che ritardano (se mai la pianificano del tutto) la maternità. Posticipano rispetto alle loro madri e nonne alcune tappe anche perché le loro priorità sono cambiate. Per quanto, poi, la scienza continui a costituire un elemento cruciale nel permettere di programmare meglio e più tardi eventuali gravidanze, la via medica non è per tutte sempre sostenibile, sia per i costi che per le procedure necessarie.
A questo aspetto si aggiunge la considerazione che, come indica la Goldin, rispetto al passato «le ragazze improvvisamente vedono che le loro opzioni sono cambiate». E se da una parte i ragazzi tendono generalmente a guadagnare da una divisione “tradizionale” dei ruoli, sarebbe proprio la partecipazione alle faccende domestiche a impattare sulla dimensione delle famiglie. Al contrario di quanto alcuni credono, infatti, i tassi di fertilità risultano più alti dove la partecipazione delle donne al mercato del lavoro (e credibilmente anche una migliore divisione delle necessità di casa) è maggiore. Al contrario, addirittura, i Paesi con un tasso di fertilità “minimo-minimo” sono anche quelli che presentano la differenza di genere più grande di tempo trascorso a occuparsi delle faccende domestiche e familiari.
Rispetto ai giapponesi, per esempio, le giapponesi dedicano 3,1 ore al giorno in più alle faccende domestiche. Le italiane tre ore in più. Addirittura in Corea del Sud, dove persistono ancora oggi norme sociali di genere particolarmente rigide e dove la divisione del lavoro casalingo resta particolarmente sproporzionata, molte donne hanno iniziato a rifiutare del tutto matrimonio e maternità*.
Oltre il tema della sostituzione della popolazione
Il problema di una popolazione che smette di crescere va ben oltre un tema di mera sostituzione. Riguarda infatti la sostenibilità dei modelli economici contemporanei. Però, come spiega uno degli autori dello studio Ocse: «I profondi cambiamenti demografici stanno rendendo tangibile il rischio di un significativo rallentamento della crescita del tenore di vita. Ma non si tratta di un rischio inevitabile».
Secondo le Nazioni unite la soluzione reale alla crisi demografica che stiamo vivendo sarebbe la costruzione di «un mondo più equo, sostenibile e solidale che aiuti le persone a realizzare il proprio sogno di avere una famiglia». Perché «Soluzioni che non mettono al centro la scelta riproduttiva si sono dimostrate, più e più volte, fallimentari».
Se si inizia con il rallentare il declino numerico, si può guadagnare tempo per prepararsi agli inevitabili cambiamenti demografici del futuro**. Per farlo le vie più efficaci passano proprio anche dall’alleggerimento dei carichi familiari non retribuiti che oggi gravano soprattutto sulle spalle delle donne. Gli stati, inoltre, mentre migliorano la partecipazione femminile al mondo del lavoro, dovrebbero anche lavorare specificamente per rendere più convenienti i congedi di paternità.
È possibile, scrive la Goldin, invertire la tendenza «esaltando la genitorialità, in particolare la paternità», modificando le regole proprio nei luoghi di lavoro, così da non penalizzare i padri. «Se non si inverte la relazione negativa tra reddito e fertilità – chiude il suo studio la premio nobel -, il tasso di natalità probabilmente non aumenterà».
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* Nato attorno agli anni ’10 di questo secolo ma esploso a partire circa dal 2017, il movimento femminista coreano è conosciuto come 4B, cioè “i 4 no” e implica il rifiuto del matrimoni, i rapporti sentimentali e sessuali con gli uomini e l’avere figli.
** A dirla tutta, secondo alcuni scienziati, tassi di fertilità bassi ma non troppo bassi, potrebbero anzi avere alcuni vantaggi."
Ah, il titolo è : Tasso di fertilità: cala meno se c’è condivisione dei lavori di cura familiari
https://alleyoop.ilsole24ore.com/202...x-newtab-it-it
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