Trentenni "flessibili" e il lavoro ad ostacoli: cos� abbiamo rubato il loro futuro
I termini della denuncia del presidente dell'Inps sembrano ottimistici: � credibile che alla pensione non ci arrivino neanche migliaia di uomini e di donne degli anni '70 e '80, che si riconosceranno senza sforzo nel difficile percorso lavorativo tipico dei trentenni: fatto di stipendi a forfait, incarichi a progetto senza il progetto, collaborazioni permanentemente saltuarie, finte partite Iva e stage eterni mai retribuiti.
SONO passati dieci anni da quando il precariato divenne un argomento di moda nei talk show e nei comizi, e ce li ricordiamo ancora tutti i politici nei salottini televisivi pontificare che non bisognava definire "precariet�" quel deflusso dei diritti legati al lavoro; dovevamo chiamarla "flessibilit�", parola ambigua che evocava l'immagine di cose leggere e forti, il legno dell'arco e le chiome piegate dei giunchi al vento. Ma gi� a met� degli anni Novanta erano cominciate le prime leggi sul lavoro: ci dissero allora che quelle riforme erano moderne, poi che era l'Europa che ce le chiedeva, e che dovevamo essere contenti che le nuove generazioni avessero l'opportunit� di vivere per anni motivate dalla prospettiva di non sapere se tre mesi dopo il loro contratto sarebbe stato rinnovato.
Nessuno con un briciolo di buon senso credette alla favola dell'aumento delle retribuzioni in cambio della perdita dei diritti e infatti qualche anno dopo arriv� la crisi e gli stipendi scesero alla stessa velocit� con cui gli ultimi diritti rimasti se ne stavano andando. Furono gli scrittori tra i trenta e i quarant'anni - Nove, Bajani, Desiati, Platania, Baldanzi, Falco, Incorvaia e Rimassa - a raccontare per primi quello che stava succedendo, ma c'� voluto tanto tempo ancora perch� un'istituzione, calcoli alla mano, si rendesse conto che il disastro che allora annunciavamo come possibile � gi� diventato probabile. I termini della denuncia del presidente dell'Inps sembrano persino ottimistici: � credibile che alla pensione non ci arrivino neanche migliaia di uomini e di donne degli anni '70 e '80, che si riconosceranno senza sforzo nella descrizione del percorso lavorativo a ostacoli che Boeri indica come tipico dei trentenni. Tutti loro, fratelli maggiori e minori, hanno avuto un futuro non pi� lungo dei loro rinnovi contrattuali e un presente fatto di stipendi a forfait, incarichi a progetto senza il progetto, collaborazioni permanentemente saltuarie, finte partite Iva e stage eterni mai retribuiti. Quegli uomini e quelle donne non sono una generazione perduta, come li ha definiti icasticamente Boeri, perch� sono qui, sono vivi, ci camminano accanto e saranno sempre di pi�: ciascuno � l� coi suoi sogni non realizzati, le scelte che con pi� sicurezze lavorative si sarebbero potute fare, i figli mai generati per la paura di non avere abbastanza per crescerli e la pensione dei genitori come estremo paracadute.
In quella generazione depredata � l'Italia che si � perduta, sacrificando milioni di intelligenze, di idee e di potenzialit� all'avidit� di una parte del mondo industriale, quello che conta, convinto che la vita di quelle persone non sia una risorsa, ma un costo da abbassare fino a metterlo in concorrenza col pi�
basso salario al mondo. Non � la pensione la speranza perduta dei trentenni: � il futuro.
http://www.repubblica.it/economia/20...75/?ref=HREA-1