Nel NT si legge che Maria viene salutata con un "chaire kekharitomène".
Nel dizionario di Lorenzo Rocci, kecharitoménos (di cui kecharitoméne è la forma femminile), participio perfetto medio-passivo di charitóo, viene qualificato sinonimo di kecharisménos, di cui si dà la definizione di “attraente; grato; piacevole, ecc.”.
Sotto il lemma charitóo, poi, per il participio kecharitoménos si danno come equivalenti “venusto” e “grazioso”; con riferimento a una donna, si dà per la variante testuale di Sir 9, 8 nella versione dei Settanta (e si tratta, ricordiamo, di una donna da cui l’uomo deve guardarsi per non esserne sviato!) il significato di “affabile” (per il passo di Luca, ovviamente, il canonico “piena di grazia”).
E poiché ‘venusto’ vale “bello, pieno di grazia e leggiadria” (De Mauro), possiamo concludere che kecharitoméne era correntemente usato, in riferimento a una donna, con una gamma di significati che corrisponde a quella del nostro aggettivo “bella”. Il fatto che il contesto dell’Annunciazione sconsigli una traduzione “profana” non toglie che sia del tutto fuori luogo considerare il nostro termine come avvolto da un’aura di arcana sacralità.
Ma si può fare un’ulteriore considerazione, provocatoria ma inoppugnabile: se consideriamo che cháire – a prescindere da una possibile allusione biblica da parte di Luca – era, come si è detto, una comune formula di saluto che veniva impiegata al momento dell’incontro (cfr. ‘Ave, Maria’), vediamo che “Cháire, kecharitoméne” può legittimamente venire considerato un equivalente del nostro “Ciao, bella”. Si tratta quindi di una donna "piena di grazia" sì, ma di grazia fisica, di avvenenza.
Formula, quest’ultima, non necessariamente usata per apostrofare una vistosa bellezza incrociata sulla pubblica via: si può impiegarla anche per rivolgersi con simpatia ed affetto a una bambina o a una fanciulla.
Sta di fatto che “cháire, kecharitoméne” è un’allocuzione che sarà risuonata parecchie volte sulle labbra di innumerevoli cittadini grecofoni della koinè sullo scorcio del primo secolo a. C. E nessuno avrà pensato ad “abissi di luce abbagliante”, come fantastica certa apologetica.
Se dunque Luca avesse voluto veramente indicare, mediante le parole usate dall’angelo nel rivolgersi a Maria, lo statuto specialissimo della Vergine privilegiata dal Cielo sin dalla nascita in vista del suo ruolo di madre del Verbo incarnato, avrebbe certo scelto qualche espressione di uso meno corrente.
Fermo restando naturalmente il fatto che l’angelo, non rivolgendosi a Maria in greco, non usò né cháire né kecharitoméne.
È infine opportuno segnalare una circostanza che è un po’ la cartina di tornasole di quanto si è appena detto: il continuatore diretto di kecharitoméne, ossia charitoméne (privo del morfema che nella lingua antica costituiva il raddoppiamento caratterizzante il perfetto, e con la vocale finale che suona i), è correntemente usato nel greco moderno. E, proprio come nel greco antico, il termine indica una donna carina, attraente, seducente, dotata di charme.
Strano destino per una parola che si pretenderebbe quasi pensata e creata ab aeterno da Dio per designare, in una sorta di “esclusiva”, la specialissima condizione della beata Vergine Maria: parola direttamente ispirata dal Cielo a Luca e custodita nel suo vangelo come una sorta di hapax degno della più alta reverenza.
In realtà, (ke)charitoméne è da più di venti secoli sulla bocca di chi parla greco per dire di una donna quello che ogni donna ama sentirsi dire: che è bella, che attira l’attenzione dell’uomo. Se a tradurre fosse stato Alvaro Vitali, avrebbe sicuramente optato per un "Ciao bonazza!".