"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".
Dylan Thomas.
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,
I probi, con l'ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d'averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
Bella!
amate i vostri nemici
Da questa De André trasse il Cantico dei drogati
Riccardo Mannerini
Eroina
Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Preparazione della siringa di eroinaFu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".
Jack Kerouac
Sulle lacrime
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!
Dio
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d'olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.
Come meditare
- luci spente -
autunno, mani strette, in istantanea
estasi come una pera di eroina o morfina.
la ghiandola nel mio cervello secernente
il buon fluido felice (Fluido Santo) allorché
mi ah-bbasso e tengo ogni parte del corpo
giù in trance da puntomorto – Sanando
ogni mio male – tutto cancellando – neppure
resta il brandello di uno «spero-che-tu» o una
Bolla di Pazzia, ma la mente
libera, serena, spensierata. “Quando arriva
un pensiero spuntando da lontano con la sua
esibita figura d’immagine, lo freghi,
lo sfreghi via, lo smonti e si fa
smunto, e il pensiero non viene – e
con gioia comprendi per la prima volta
«Pensare è proprio come non pensare –
Perciò non devo pensare
mai
più».
Beat (una prosa poetica, titolo mio, ndr, rielaborata da me in versi), originale di Kerouac citato da "Scrivere Bop. Lezioni di scrittura creativa"
Fu da cattolico […]
che un pomeriggio
andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante),
Santa Giovanna d'Arco a Lowell, Mass.,
e a un tratto, con le lacrime agli occhi,
quando udii il sacro silenzio della chiesa
(ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio;
fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie,
le candele brillavano debolmente solo per me),
ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”,
la visione che la parola Beat significava beato
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".
Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
È sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa.
(Giuseppe Ungaretti)
amate i vostri nemici
La poesia più bella dell'universo, imho
Paul Verlaine
Languore
Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d'oro.
Soletta l'anima soffre di noia densa al cuore.
Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.
O non potervi, debole e così lento ai propositi,
e non volervi far fiorire un po' quest'esistenza!
O non potervi, o non volervi un po' morire!
Ah! tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!
Solo, un poema un po' fatuo che si getta alle fiamme,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi dimentica,
solo, un tedio d'un non so che attaccato all'anima!
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".
Oscar Wilde
La ballata del carcere di Reading
In Memoriam C.T.W. già soldato delle Guardie Reali a Cavallo Obiit nel carcere di S.M. a Reading,
Berkshire, il 7 luglio 1896.
Prima edizione: Londra, Smithers, 1898, in-8° (in luogo del nome dell’autore, la sua sigla di carcerato: “C.3.3.”).
* * *
I
Più non portava la scarlatta tunica,
Poiché il sangue ed il vino erano rossi,
E sangue e vino aveva sulle mani
Allorché fu sorpreso, con la morta,
Quella povera morta che egli amava
E uccise nel suo letto.
Camminava frammezzo agli imputati
In un frusto e meschino abito grigio;
Aveva in capo un berretto da cricket
E i suoi passi parevan lievi e gai:
Ma io non vidi uomo guardar mai
Così intensamente la luce.
Uomo non vidi che guardasse mai
Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
Che i prigionieri chiamano cielo
E la nuvola errante che passava
Con argentee vele.
Camminavo con altre anime in pena
In un altro cerchio,
Pensando se la colpa di quell’uomo
Fosse grave o leggera,
Quando mi sussurrò dietro una voce:
“Colui sarà impiccato”.
Ah, Cristo Iddio! Le mura del carcere
Parvero barcollare bruscamente
E sul mio capo il cielo diventò
Come un casco d’acciaio incandescente;
Anima in pena pur essendo io stesso,
Non potei la mia pena sentir più.
Sol seppi quale incalzato pensiero
Gli accelerasse il passo e perché mai
Egli guardasse il fulgore del giorno
Con sì intensa pupilla:
Quell’uomo aveva ucciso ciò che amava,
E quindi doveva morire.
Eppure ognuno uccide ciò che ama,
Lo intendano tutti:
Lo fanno alcuni con un bieco sguardo
Ed altri con parole carezzevoli,
Il vile con un bacio,
Il prode con la spada!
Alcuni uccidono il loro amore quando sono giovani,
Altri quando sono vecchi;
Alcuni strozzano con le mani della Lussuria,
Altri con le mani dell’Oro:
I migliori si servon d’una lama,
Perché così i morti più presto diventano freddi.
Troppo poco si ama, o troppo a lungo;
C’è chi vende l’amore e chi lo compra,
Chi commette il delitto lacrimando
E chi senza un sospiro:
Poiché ogni uomo uccide ciò che ama,
Ma non per questo ogni uomo muore.
Non muore d’una morte obbrobriosa
In un giorno d’infamia tenebrosa,
Non ha un nodo scorsoio intorno al collo
Ed un panno sul viso,
Né ritto sprofonda traverso l’assito
In uno spazio vuoto.
Non siede vigilato giorno e notte
Da uomini silenti
Che lo spiano quando tenta di piangere
E quando tenta di pregare,
Che lo spiano per tema che sottragga
Al carcere la sua preda.
Non vede, svegliandosi all’alba,
Terrificanti figure affollare la sua cella;
Il tremante cappellano in veste bianca,
Lo sceriffo cupo e severo,
Il governatore tutto in nero,
Gialla faccia da giorno del Giudizio.
Non si leva con fretta miseranda
Per indossare i panni del condannato,
Mentre un medico dalla bocca volgare lo guata
E prende nota d’ogni suo sussulto,
Palpeggiando un orologio in cui i battiti lievi
Son come orrendi colpi di martello.
Non conosce la sete disgustosa
Ch’empie di sabbia le fauci,
Prima che il boia con i suoi guanti da giardiniere
S’insinui dalla porta imbottita
E con tre cinghie di cuoio lo leghi
Sì che le sue fauci non abbiano sete mai più.
Non reclina la testa ad ascoltare
La lettura dell’Ufficio dei Morti
Né, mentre il terrore dell’anima
L’assicura che non è morto ancora,
Sfiora la propria bara inoltrandosi
Dentro lo spaventoso capannone.
Non fissa i vuoti spazi
Traverso un piccolo tetto di vetro:
Non prega con labbra di creta
Perché passi la sua agonia;
Né sente sulla guancia fremente
Il bacio di Caifa.
II
Per sei settimane il nostro soldato passeggiò nel cortile,
Col suo frusto e meschino abito grigio:
Aveva in capo il berretto da cricket,
E i suoi passi parevan lievi e gai:
Ma io non vidi mai uomo guardar mai
Così intensamente la luce.
Uomo non vidi che guardasse mai
Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
Che i prigionieri chiamano cielo
E la nuvola errante che trascina
Il suo arruffato vello.
Non si torceva le mani
Come i pazzi che ardiscono tentare
D’allevar la Speranza, figlia spuria,
Nell’antro della nera Disperazione:
Solamente guardava in alto il sole
E beveva l’aria del mattino.
Non torceva le mani, non piangeva,
Né si divincolava o si struggeva:
Beveva l’aria quasi contenesse
Un salutare balsamo:
Beveva a bocca spalancata il sole
Come se fosse vino!
Ed io e tutte quelle anime in pena
Nell’altro cerchio incedenti
Dimenticammo se la nostra colpa
Fosse grave o leggera:
Con opaco stupore guardavamo
L’uomo che doveva penzolar dalla forca.
Ed era strano vederlo passare
Con andatura così lieve e gaia,
Ed era strano vederlo fissare
Così intensamente la luce,
E strano era pensare
Che un tale debito avesse da pagare.
La quercia e l’olmo han deliziose foglie
Che a primavera si schiudono:
Ma orrido a vedersi è l’albero della forca,
Con la radice morsa dalle vipere,
E, verde o secco, un uomo ha da morire
Prima ch’esso dia frutto!
Il più alto posto è quel seggio di grazia
Al quale tendon tutti gli ambiziosi:
Ma chi vorrebbe in cordone di canapa
Troneggiare dall’alto d’un patibolo
E attraverso un collare d’assassino
Lanciare in cielo l’ultimo suo sguardo?
Dolce è danzare al suono dei violini
Quando l’amore e la vita sorridono;
Danzare a suon di flauti, a suon di liuti,
E’ delicato e raro:
Ma non è dolce con agile piede
Ballar sospesi in aria!
Così con occhi curiosi e congetture angosciate
Di giorno in giorno osservandolo,
Ci chiedevamo se ognuno di noi
Non finirebbe alla stessa maniera
Poichè nessuno può dire fino a qual rosso inferno
Possa smarrirsi la sua cieca anima.
Infine il morto non passeggiò più
Frammezzo gli imputati
Ed io seppi che adesso era là ritto
Nel nero banco degli accusati,
E che mai più avrei visto la sua faccia
In questo dolce mondo del Signore.
Come due navi perdute che passano nella tempesta
Ci eravamo sfiorati,
Ma senza un cenno, senza una parola:
Non avevamo parole da dire,
Poiché non nella notte santa ci eravamo incontrati,
Ma nel giorno della vergogna.
Intorno a entrambi un muro di prigione.
Due reietti eravamo:
Il mondo ci aveva rigettato dal suo cuore
E Iddio dai suoi pensieri:
E la trappola di ferro che attende il peccato
Nella sua insidia ci aveva ghermiti.
III
Dure le pietre nel Cortile degli Indebitati,
Alte le mura stillanti:
Ed era là ch’egli prendeva aria
Sotto il plumbeo cielo,
E due guardiani gli camminavano ai fianchi
Per tema che morisse.
O sedeva con quelli che spiavano
Dì e notte la sua angoscia,
Che lo spiavano quando si alzava per piangere
E quando si curvava per pregare,
Che lo spiavano affinché non sottraesse
Al patibolo loro la sua preda.
Il governatore s’atteneva
Agli articoli del Regolamento:
Il medico diceva che la morte
Era nient’altro che un fatto scientifico:
Due volte al giorno veniva
Il cappellano e lasciava un opuscolo.
E due volte al giorno egli fumava la pipa
E beveva il suo quarto di birra:
In quell’anima intrepida non v’era
Nascondiglio per la paura:
Spesso diceva d’essere contento
D’aver vicine le mani del boia.
Ma perché mai affermasse una cosa sì strana
Nessun guardiano osava domandargli,
Poiché chi dalla sorte è condannato
Al compito di guardia nelle carceri
Deve porsi alle labbra un catenaccio
E fare del suo viso una maschera.
Altrimenti potrebbe commuoversi e cercare
Di porgere conforto e consolare:
E che farebbe l’umana pietà
Rinchiusa in una tana di assassini?
In un simile luogo dove la parola bontà
L’anima d’un fratello potrebbe aiutare?
Con passo goffo e dondolante intorno al cortile
La Parata dei Pazzi scandivamo!
Non ci importava: sapevamo d’essere
La Brigata del Diavolo:
Teste rase e piedi di piombo
Compongono un ‘allegra mascherata.
Sfilacciavamo corda incatramata
Con le unghie corrose e sanguinanti;
Sfregavamo le porte e i pavimenti,
Pulivamo le inferriate lucenti:
Ogni squadra lavava i tavolati
Tra un fragore di secchi sbatacchiati.
Cucire i sacchi, spaccare le pietre,
Il polveroso trapano girare,
Urtare le gamelle, urlare gli inni,
Al mulino sudare:
Ma nel cuore d’ognuno
Tranquillo se ne stava il terrore.
Così tranquillo, che ogni giornata
Strisciava come un’onda greve d’alghe:
E noi dimenticammo l’aspra sorte
Che attende il folle e il tristo,
Fino a quando, tornando dal lavoro,
Passammo accanto ad una tomba aperta.
La bocca della gialla fossa spalancata in uno sbadiglio
Attendeva d’ingoiare una cosa vivente:
Il fango stesso gridava per chiedere sangue
Al sitibondo cortile d’asfalto:
E noi sapemmo che prima che l’alba imbiondisse
Un prigioniero doveva penzolar dalla forca.
Rientrammo senza indugio, con l’anima assorta in pensieri
Di morte, di terrore e di condanna:
Il boia, con il suo piccolo sacco,
S’allontanò pesantemente nel buio:
E ognuno tremava infilandosi
Nella propria tomba numerata.
Quella notte i deserti corridoi
Si gremiron d’immagini paurose,
E su e giù per la città di ferro
Andavano passi furtivi che non udivamo;
Dalle sbarre che occultano le stelle
Bianche facce sembravano spiare.
Egli giaceva come chi disteso
Sogna in una ridente prateria;
le guardie lo guardavano dormire,
Né sapevan capire
Come fosse possibile godere un sonno sì dolce
Con il boia alle costole.
Ma non v’è sonno per uomini che devono piangere
E che in passato non piansero mai:
E così noi – i folli, i frodatori, i furfanti –
Facemmo quella veglia interminabile:
E in ogni cervello, su mani dolorose strisciando,
Il terrore d’un altro penetrava.
Ahimè, è spaventevole
Sentire la colpa di un altro!
Nell’anima la spada del Peccato
Ci entrava fino all’elsa avvelenata,
E come gocce di piombo erano le lacrime che versavamo
Per il sangue non sparso da noi.
Con le loro scarpe di feltro i guardiani
Scivolavano davanti alle porte sprangate
E dalla spia vedevano, con occhio sgomento,
Figure grigie sul pavimento,
E si domandavano perché si inginocchiassero a pregare
Uomini che un tempo non pregavano mai.
Tutta la notte stemmo inginocchiati in preghiera,
Dementi che piangevano un cadavere!
Le agitate piume della mezzanotte
Eran pennacchi sopra un carro funebre,
E amaro vino offerto su una spugna
Era il sapore del Rimorso.
Il gallo grigio cantò, cantò il gallo rosso,
Ma il giorno mai non spuntava;
Contorte forme di terrore si rannicchiavano
Negli angoli dove noi giacevamo:
E tutti gli spiriti maligni che vanno errando nella notte
Dinanzi a noi pareva folleggiassero.
Scivolavano e passavano, scivolavano rapidi,
Come viandanti attraverso la nebbia:
Beffavano la luna in un trescone
Ricco di giri e intrecci delicati;
Con movenze solenni e orrenda grazia
I fantasmi tenevano convegno.
Con smorfie e lazzi li vedemmo muoversi,
Tenendo per mano, ombre sottili:
Gira, gira, in tumulto fantomatico
Ballarono una sarabanda:
E i dannati grotteschi tracciavano arabeschi
Come il vento fa sulla sabbia!
Con piroette di marionette
Sulle punte dei piedi saltellavano:
Ma con i flauti della Paura l’orecchio assordavano,
Nella raccapricciante mascherata,
E a gran voce cantavano, e lungamente cantavano,
Poiché cantavan per destare i morti.
“Oh! – gridavano. – il mondo è lungo e largo,
Ma gambe incatenate vanno zoppe!
E gettare una volta o due i dadi
E’ un gioco da signori:
Ma non vince chi gioca col Peccato
Nella segreta Casa dell’Infamia”.
Non eran certo aeree parvenze
Quei buffoni che allegri sgambettavano:
Per uomini le cui vite erano tenute in catene
E i cui piedi non potevano andare liberamente,
Ahi, piaghe di Cristo! Essi eran creature ben vive
E spaventose a guardarsi.
In cerchio, in cerchio vorticosamente ballavano il valzer:
Alcuni giravano, in coppie leziose;
Altri con passi affettati di tipi un po’ equivoci
Si dileguavano su per le scale:
E con sottili sogghigni, con occhiatine adescanti,
Ognuno ci assisteva nelle nostre preghiere.
Il vento del mattino cominciò a far udire i suoi gemiti,
Ma ancora durava la notte;
Sul suo gigantesco telaio l’ordito delle tenebre scorse
Fin che l’ultimo filo fu tessuto:
E nel pregare paura ci colse
Della giustizia del sole.
Il vento gemebondo andò vagando
Intorno alle piangenti mura del carcere,
finché, come una ruota d’acciaio che giri,
Sentimmo serpeggiare i minuti:
O gemebondo vento, che cosa avevamo mai fatto
Per meritarci un simile siniscalco?
Io vidi infine l’ombra delle sbarre
Come un traliccio lavorare in piombo
Stamparsi sull’imbiancata parete
Di fronte al letto fatto di tre assi,
E seppi che in qualche luogo del mondo
Già rosseggiava la terribile alba di Dio.
Alle sei scopammo le nostre celle,
Alle sette tutto era tranquillo:
Ma il fremito di un’ala possente
Parve riempir la prigione,
Poiché il Signore della Morte dal gelido fiato
Era entrato per uccidere.
Non passò avvolto di purpureo fasto,
Né cavalcava un corsiero bianco al par di luna.
Tre metri di corda ed un asse scorrevole
Son tutto ciò che occorre per la forca:
Così con la corda dell’obbrobrio venne l’Araldo
Per compiere la sua opera segreta.
Eravamo come gente che in una palude
Di sozza tenebra brancoli:
Non osammo alitare una preghiera
O dare sfogo all’angoscia:
Qualcosa era morto in ognuno di noi,
E ciò che era morto era la speranza.
La truce giustizia dell’uomo segue il suo corso
E mai non devia:
Abbatte il debole, abbatte il forte
Con il suo passo semina la morte:
Con tallone di ferro schiaccia il forte,
Il mostruoso parricida!
Aspettavamo il battere delle otto
Con la lingua ispessita dalla sete:
Poiché alle otto batte il destino
Che d’un uomo fa un maledetto,
E il destino si serve d’un nodo scorsoio
Tanto per il migliore che per il peggiore.
Non potevamo fare altro
Che attendere il segno imminente:
Come cose di pietra in una valle sperduta
Sedevamo immobili e muti;
ma il cuore d’ognuno dava battiti rapidi e cupi,
Come su un tamburo un demente.
Con un colpo improvviso l’orologio della prigione
Percosse l’aria fremente,
E dal carcere intero eruppe un gemito
Di disperazione impotente,
Simile al grido che odono le paludi sgomente
Dalla tana di un lebbroso.
E come si vedono le più spaventevoli cose
Nel cristallo d’un sogno,
Vedemmo la corda di canapa oleosa
Appesa alla trave nera
E udimmo la preghiera
Che il laccio del boia in un urlo strozzò.
Tutto il dolore che lo lacerò
Fino a strappargli quell’amaro grido,
E i furiosi rimpianti, i sudori di sangue,
Nessuno al pari di me li poté capire:
Poiché colui che vive più di una vita
Più di una morte deve morire.
IV
Non si va in cappella il giorno
In cui impiccano un uomo:
Il cappellano ha troppo male al cuore,
O sul suo volto c’è troppo pallore,
O nei suoi occhi sono scritte cose
Che nessuno deve vedere.
Così ci tennero rinchiusi fin quasi a mezzogiorno,
Poi suonarono la campana,
E con le loro chiavi tintinnanti i guardiani
Aprirono le celle intente in ascolto,
E noi scendemmo pesantemente le scale di ferro,
sbucando ognuno dal suo isolato inferno.
Uscimmo nella dolce aria di Dio,
Ma non al modo consueto:
La faccia dell’uno sbiancata dalla paura,
La faccia dell’altro era grigia,
Ed io non vidi mai uomini tristi guardare
Così intensamente la luce.
Uomini tristi non vidi mai che guardassero
Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
Che noi reclusi chiamavamo cielo,
E la nuvola spensierata che in alto passava
In lieta libertà.
Ma v’erano alcuni tra noi
Che a testa bassa incedevano,
Ben sapendo che, se ognuno avesse ciò che si merita,
Sarebbe toccato a loro morire:
Egli aveva soltanto ucciso una cosa vivente
Essi ciò che era già morto.
Poiché chi pecca una seconda volta
Desta un’anima morta al patimento,
La trae dal macchiato sudario
E la fa sanguinare nuovamente,
Sanguinare la fa con grosse gocce di sangue,
E la fa sanguinare vanamente!
Come scimmie o pagliacci, in mostruoso costume
Di storte frecce stellato,
Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio,
Intorno al cortile di sdrucciolevole asfalto;
Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio
E nessuno diceva una parola.
Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio,
E nella svuotata mente d’ognuno
Il ricordo di cose terribili
Irrompeva come un terribile vento:
Dinanzi a ognuno incedeva l’Orrore
E dietro strisciava il Terrore.
Tronfi i guardiani andavan su e giù,
Vigilando il loro armento di bruti;
Indossavano uniformi nuove fiammanti,
I loro panni domenicali,
Ma noi capimmo a quale lavoro avessero atteso,
Dalla calce che avevano sugli stivali.
Dove larga poc’anzi una tomba s’apriva,
Non c’era più tomba alcuna:
Solo una striscia di terra smossa e di sabbia
Lungo l’orrendo muro del carcere,
E un piccolo mucchio di calce ardente
Affinché l’uomo avesse un sudario.
Ed ha invero un sudario, il disgraziato,
Quale pochi possono pretendere:
Ben giù, sotto un cortile di prigione,
Ignudo per maggiore sua vergogna,
Giace, con le catene ad ambo i piedi,
Avviluppato in lenzuolo di fiamma!
E senza posa la calce ardente
Rode le carni e le ossa,
Rode le fragili ossa di notte,
Le teneri carne di giorno:
Rode ora le carni, ora le ossa,
Ma sempre rode il cuore.
Per tre lunghi anni non semineranno
Né pianteranno laggiù:
Per tre lunghi anni il sito maledetto
Sarà sterile e nudo,
E guarderà l’attonito cielo
Con uno sguardo privo di rimproveri.
Secondo loro, un cuore d’omicida
Corromperebbe ogni semplice seme che venisse deposto.
Non è vero! La buona terra di Dio
E’ più buona di quanto gli uomini non sappiano,
E la rosa rossa si schiuderebbe semplicemente più rossa,
La rosa bianca più bianca.
Dalla sua bocca una rosa vermiglia,
Dal suo cuore una bianca!
Perché chi può dire per quali vie misteriose
Cristo riveli la sua volontà,
Se l’arido bastone del romeo
Fiorì al cospetto del grande pontefice?
Ma né la lattea rosa, né la rossa
Possono fiorire in aria di prigione:
Ciottolo, coccio, selce,
Ecco che cosa ci danno:
Poiché si sa che i fiori talvolta guariscono
La disperazione dell’uomo.
Così né la rosa rossa come vino né la bianca
Si sfoglieranno mai petalo a petalo
Su quella striscia di terra e di sabbia
Lungo l’orrendo muro del carcere,
Per dire a coloro che camminano per il cortile
Che il Figliuolo di Dio morì per tutti.
Ma benché l’orrendo muro del carcere
Ancora da ogni parte lo rinserri,
E uno spirito non possa errare la notte
Se da catene è avvinto,
Né possa far altro che piangere
Se giace in così empio recinto.
E’ in pace il disgraziato,
E’ in pace, o quanto prima lo sarà:
Più non lo fa impazzire cosa alcuna,
Né il Terrore s’aggira in pieno giorno,
Poiché la buia terra dove giace
Non ha sole né luna.
L’hanno impiccato come s’impicca una bestia:
Non hanno nemmeno suonato
Un funebre rintocco che avrebbe potuto
Calmare la sua anima atterrita
Ma in fretta e furia via l’hanno portato
E nascosto in una buca.
L’han spogliato dell’abito di tela
E abbandonato alle mosche:
Han deriso la gola paonazza ed enfiata,
Gli occhi vitrei e sbarrati:
Con alte risa hanno ammucchiato il sudario
In cui riposa il loro condannato.
Il cappellano non s’inginocchierebbe a pregare
Presso la sua disonorata tomba,
Né la segnerebbe con quella croce benedetta
Che Cristo diede per i peccatori,
Perché l’uomo era uno di coloro
Che Cristo venne a salvare.
Ma non importa: egli è semplicemente giunto
Allo sbocco prefisso della vita:
Lacrime sconosciute riempiranno
l'urna della Pietà per lui.
Avrà i lamenti degli uomini esiliati,
per gli esiliati esiste solo il pianto
V
Io non so se le leggi abbian ragione,
O se le leggi abbian torto;
Tutto ciò che sappiamo, qui in prigione,
E’ che le mura sono forti
E che ogni giorno è simile ad un anno,
Un anno in cui i gironi sono lunghi.
Ma questo so: che ogni legge
Dagli uomini fatta per l’uomo,
Fin dalla prima volta che un uomo tolse la vita al fratello
Ed ebbe inizio un mondo di triste travaglio,
Disperde il grano e conserva la pula
Con un pessimo vaglio.
Anche questo io so – e sarebbe bene
Se tutti lo potessero sapere –
Che ogni prigione costruita dagli uomini
Con mattoni di infamia è costruita,
E munita di sbarre affinché Cristo non abbia a vedere
Come gli uomini mutilano i loro fratelli.
Con sbarre oscuran la graziosa luna
E accecano il buon sole:
E fanno bene a nascondere il loro inferno,
Perché vi avvengono cose
Che né il Figlio di Dio né il figlio dell’uomo
Dovrebbero vedere giammai.
Le più vili azioni come erbe velenose
Prosperano nell’aria della prigione;
Solo quanto di buono vi è nell’uomo
Vi si guasta e intristisce:
La pallida Angoscia sta al pesante portone
Ed è guardiana la Disperazione.
Ché fan patire la fame al bimbetto spaurito
Fin che dì e notte piange,
E frustano il debole, sferzano l’idiota,
Beffano il vecchio dai capelli grigi,
E alcuni impazziscono, e tutti diventan cattivi
E nessuno può dire una parola.
Ogni angusta cella nella quale abitiamo
E’ una sozza e buia latrina;
Il fetido fiato della Morte vivente
Soffoca ogni finestra a inferriata;
E tutto, fuorché il Desiderio, si sbriciola in polvere
Nella macchina dell’Umanità.
L’acqua salmastra che da noi si beve
Fluisce densa di schifosa melma,
L’amaro pane che ci pesano con le loro bilance
E’ pieno di gesso e di calce,
e il Sonno non si stende, ma cammina
Sbarrando gli occhi e lancia grida al tempo.
Ma sebbene la magra Fame e la livida Sete
Come l’aspide e la vipera si diano battaglia,
Poco curiamo del vitto del carcere:
Ciò che davvero ci agghiaccia ed uccide
E’ che ogni pietra alzata nel corso del giorno
Diventa poi di notte il nostro cuore.
Sempre con la mezzanotte nel cuore
E nella cella il crepuscolo,
Giriamo la manovella, sfilacciamo la corda,
Ognuno nel suo inferno separato,
E assai più spaventevole è il silenzio
Che il suono d’una bronzea campana.
E mai non si avvicina voce umana
Per dire una parola di bontà:
L’occhi che guarda traverso la porta
E’ duro e senza pietà:
E da tutti dimenticati andiamo sempre più imputridendo,
Nell’anima e nel corpo rovinati.
Così arrugginiamo la ferrea catena della Vita,
Degradati e soli:
Alcuni maledicono, altri piangono,
Altri non danno lamenti:
Ma le eterni leggi di Dio sono clementi
E spezzano il cuore di pietra.
Ed ogni cuore umano che si spezza
In cella od in cortile di prigione
E’ come il vaso infranto che largì
Il suo tesoro al Signore
E nell’immonda casa del lebbroso
Sparse un olezzo di nardo prezioso.
Ah, beati coloro il cui cuore può infrangersi
E conquistare la pace del perdono!
Come altrimenti potrebbe l’uomo raddrizzare le sue vie
E l’anima mondare dal peccato?
Come, se non per il varco d’un cuore spezzato,
Cristo Signore in lui potrebbe entrare?
E l’uomo dalla gola paonazza ed enfiata,
Dai vitrei occhi sbarrati,
Le mani sante attende che portarono
Il ladro in paradiso:
Poiché il Signore non sprezza
Un cuore infranto e contrito.
L’uomo in rosso che interpreta la Legge
Gli concesse tre settimane di vita,
Tre brevi settimane per guarire
L’anima dal suo intimo conflitto
E per lavare da ogni macchia di sangue
La mano che aveva impugnato il coltello.
E con lacrime di sangue egli deterse la mano,
La mano che aveva stretto la lama d’acciaio:
Poiché soltanto il sangue può il sangue lavare,
E soltanto le lacrime sanare:
E la rossa macchia che già fu di Caino
Divenne il nìveo sigillo di Cristo.
VI
Nel carcere di Reading presso la città
V’è una fossa d’infamia,
E là giace uno sventurato
Roso da denti di fiamma:
Il bruciante sudario è avviluppato.
E sopra la sua tomba non v’è nome.
Là, fin che Cristo chiami fuori i morti,
In silenzio lasciatelo dormire:
Inutile sprecare sciocche lacrime
O trarre vani sospiri:
Quell’uomo aveva ucciso ciò che amava,
E quindi doveva morire.
Ed ogni uomo uccide ciò che ama,
Lo intendano tutti:
Lo fanno alcuni con bieco sguardo
Ed altri con parole carezzevoli,
Il vile con un bacio,
il prode con la spada!
C.3.3.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".
Il mondo è un gran bel posto
(Lawrence Ferlinghetti)
Il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non vi dà fastidio che la felicità
non sia sempre
poi tutto ’sto spasso
se non vi dà fastidio un pizzico di inferno
di tanto in tanto
proprio quando tutto fila liscio
perché perfino in paradiso
non stanno sempre lì
a cantare
Il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non vi dà fastidio che la gente muoia
di continuo
o magari stia solo morendo di fame
ogni tanto
il che non è poi così grave
se non si tratta di voi
Oh il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non vi dà fastidio più di tanto
qualche mente morta
tra gli alti papaveri
o un paio di bombe
di tanto in tanto
sulle vostre facce rivolte all’insù
o altre consimili sconvenienze
di cui la nostra società Marchio Aziendale
è preda
con i suoi uomini distinti
e i suoi uomini estinti
e i suoi preti
e gli altri vigilantes
e le sue svariate segregazioni
e le investigazioni parlamentari
e le altre stitichezze
di cui la nostra carne cogliona
è erede
Sì il mondo è il miglior posto di tutti
per un sacco di cose tipo
prendere parte alla scena divertente
e prendere parte alla scena d’amore
e prendere parte alla scena lacrimosa
e cantare canzoni sommesse e avere ispirazioni
e passeggiare
guardando tutto
e sentendo il profumo dei fiori
e toccando il culo alle statue
e perfino per pensare
e baciare le persone e
per fare bambini e portare i calzoni
e salutare sventolando il cappello e
per ballare
e andare a nuotare nei fiumi
o a fare picnic
in piena estate
e in generale proprio per
«spassarsela»
Sì
ma poi proprio sul più bello
arriva sorridente
il becchino
"Il mio tempo non è ancora venuto; alcuni nascono postumi"
ANORMALE
(Charles Bukovski)
Quando facevo le elementari
il maestro ci raccontò la storia
di un marinaio
che disse al capitano:
"La bandiera? Spero di non
vederla più, la bandiera!"
"Molto bene," gli fu risposto,
"il tuo desiderio
sarà esaudito!"
E lo chiusero nella
stiva
e ce lo tennero,
mandandogli cibo
di sotto
e morì laggiù
senza vederla mai più
la bandiera.
Una storia davvero spaventosa
per dei bambini,
molto
efficace.
Ma non efficace
abbastanza per
me.
Stavo lì seduto a pensare,
bene, è brutto
non vedere la
bandiera,
ma il bello è
non dover vedere
la gente.
Però
non alzai la mano
per dir niente del genere.
Sarebbe stato ammettere
che non volevo vedere
neppure loro.
Ed era vero.
Guardavo dritto alla
lavagna
che sembrava migliore
di chiunque.
semel in anno licet insanire, cotidie melius
Misantropia allo stato puro.
Adesso ci sono computer e ancora più computer
e presto tutti ne avranno uno,
i bambini di tre anni avranno i computer
e tutti sapranno tutto
di tutti gli altri
molto prima di incontrarli
e così non vorranno più incontrarli.
Nessuno vorrà incontrare più nessun
altro mai più
e saranno tutti
dei reclusi
come me adesso…”
(Bukowski)
" L' uomo ha una tale passione per il sistema
e la deduzione logica che è disposto ad alterare la verità,
per non vedere il visibile, a non udire l' udibile,
pur di legittimare la propria logica."
Dostoevskij.
Il sale onesto degli abbracci
(Aleksandr Skidan)
Il sale onesto degli abbracci
il taglio nella fronte
non andar via
lo sfiorarsi labiale
e non sei più cavachiodi di pagine
coi denti della notte nei dorsi non sei peregrino
non il cervello arso
non il fumo dolciastro
ma la torba della terra
nella quale – allungandoti – ti stenderai
che bocca ricordi bocca
e labbro il labbro.
"Il mio tempo non è ancora venuto; alcuni nascono postumi"
Non ti chiedere mai, ché non si può,
quale destino gli dei abbiano pronto per me, per te, Leucònoe,
né ti curar di oroscopi Babilonesi.
Meglio, quel che verrà, prenderlo così com'è.
Se molti inverni Dio ci darà, o sarà questo l'ultimo
che spumeggiante scaglia il Tirreno contro le rupi a infrangersi.
Sii saggia, versami il vino, le tue speranze regola giorno per giorno.
Mentre parliamo, l'ora già scorre rapida.
Cogli il tuo tempo, meno che puoi fidati del domani.
(Quinto Orazio Flacco)
semel in anno licet insanire, cotidie melius