UNO SCRITTO DI VENTI ANNI FA

Se fosse possibile reinventarsi ogni giorno, distruggersi e costruirsi senza posa, vivere in eterno presente mantenendo solo le cognizioni necessarie per continuare ad esistere, il mondo sarebbe un mondo di pace, di armonia, oserei dire "di amore" se conocessi veramente il significato di questo astruso termine.
Se la memoria, "nemica mortale del nostro riposo" (Cervantes) non ci succhiasse eternamente il sangue, i ricordi, col loro carico di angosce e gioie, vittorie e sconfitte, non ci ingombrassero il cammino, allora potremmo vedere veramente un nuovo orizzonte libero e pulito. In ogni cosa ci ritroveremmo, proprio perché non apparterremmo più a nulla e a nessuno. la stessa morte ci esalterebbe, perché l'avremmo già affrontata e vinta semplicemente accettandola, riconoscendola come base per la nostra evoluzione.
Ma queste sono soltanto futili parole, che pretenderebbero di spiegare sensazioni vaghe, quasi inafferrabili, sfogo velleitario di chi non riesce a sostenere le proprie profondissime paure. Paura di morire senza vedere una rinascita, di perdere tutto ciò che si conosce senza poter sapere se si riacquisterà qualcosa di diverso. E cosa può importare (ammesso e non concesso che ciò accada) l'idea stessa di ottenere delle NUOVE cose senza poter minimamente immaginarle? E se queste nuove cose (ide, emozioni, sensazioni, conoscenze...) si rivolgessero tendenzialmente in negativo?
E' vero, siamo noi che determiniamo il negativo e il positivo della nostra vita, tutto parte dal nostro interno, da esso è rispecchiato anche il mondo fuori. Come avere fiducia in me stesso, nel me stesso che sperimenta e che poi è capace di vivere comunque in modo evolutivo le sue sperimentazioni?