“Sophie’s choice” (1982) di Alan J. Pakula.
Penuria di nuovi film, con i festival di Cannes e Locarno cancellati, nessuna notizia su Venezia e Toronto, non si sa cosa guardare. È uscito l'ultimo di Spike Lee ma non vale la pena recensirlo, quindi ho rivisto questo. Dopo la guerra Sophie va a vivere col fidanzato in una grande villa a Brooklyn. Un giovane scrittore proveniente dal sud prende in affitto una stanza e i tre diventano grandi amici. Anni fa quando guardai il film per la prima volta, ricordo, ero convinto che la scelta fosse riferita ai due uomini. Mi sbagliavo. Lo stile è quello in voga negli anni 80, patinato e sotto l’influenza dei videoclip. I due attori rivisti oggi non convincono per niente; Kevin Kline, al suo esordio, malgrado gli sforzi non è all'altezza di una parte drammatica. E' Meryl Streep che risolleva l’intero film con la sua interpretazione. La parte sembrava inizialmente destinata a Liv Ullmann; riuscì a convincere Pakula con la promessa che avrebbe imparato polacco e tedesco.
Nel monologo e nella parte di Auschwitz Meryl dà il meglio di sé. Nel primo sorprende come sia riuscita ad ottenere una fisionomia tipica di una donna dell'Europa dell’Est, con il suo inglese dall’accento polacco. Lo sguardo guarda direttamente verso la cinepresa e non ti lascia scampo quando ripete due volte la parola "pulp". Racconta del padre, famoso professore universitario di Cracovia e del suo antisemitismo. Malgrado ciò non si salva dal campo di concentramento e al suo arrivo ad Auschwitz viene costretta ad effettuare la scelta; è il momento più alto del film, una tra le scene più riuscite dell'intera storia del cinema. A Meryl *****, al film ***.