certo; ma non lo dico io; è quello che scrive Paolo, come conseguenza logica delle Scritture;
il punto è che questo in effetti non cambia quasi nulla al credente, se non quanto all'impossibilità di vantarsi, ascriversi un merito e negoziare con Dio;
una volta che un credente accettasse l'idea di essere strumento divino, non diventerebbe una persona peggiore, volta al male, se finora ha agito bene; il suo desiderio sarebbe comunque quello di essere indirizzato al bene, e di cercare conferma di questo nel risultato delle sue azioni, ma non potendo concepire queste come un oggetto di scambio;
qui si sta parlando di due possibili sentimenti di un credente, contrapposti:
uno è il Timor di Dio: se mi comporto male, sarò castigato; quindi mi conviene comportarmi bene;
l'altro è; non so a cosa sono destinato, ma finché mi sento - relativamente - a posto con la mia coscienza, il mio sentimento è di gratitudine nei confronti di Dio, che mi ha fatto in questo modo, consentendomi di affrontare serenamente le circostanze della vita; cioè, il bene l'ho già ricevuto, se credo, ho fede e il fatto di riuscire a comportarmi bene è già il mio premio, il paradiso della serenità, qui e ora.







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