“odi profanum vulgus, et arceo” (= odio il volgo profano, e lo tengo lontano [da me]): questo famoso verso fu scritto dal poeta di epoca romana Quinto Orazio Flacco (65 a. C. – 8 a. C.) nella prima strofa del terzo libro delle “Odi” per esprimere il suo atteggiamento di distacco dal popolo (profanum vulgus), incapace di comprendere la bellezza della poesia e indegno di accedere al tempio dell’arte, specificando che solo un'élite può capire quello che lui afferma ed è in grado di apprezzarlo.
Successivamente la frase divenne un proverbio in cui si esprime una sdegnosa superiorità verso la massa plebea.
Nel solenne proemio Orazio si presenta come sacerdote delle Muse nell’atto di officiare un rito dal quale sono esclusi i profani.
1 “Odio il volgo profano e lo tengo a distanza. Fate silenzio; per i ragazzi e le vergini, da sacerdote delle Muse, io canto canti mai prima uditi…” (Odi, III, 1).
Questa frase di Orazio mi evoca Giacomo Leopardi, il quale ne “Le ricordanze” scrisse:
“Né mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper”.
Per l’oratore e retore Quintiliano (35 d. C. circa – 96): la plebe è “ciarliera e maligna”, perciò, secondo il filosofo e politico Seneca (4 a. C. – 65): “non bisogna gioire del suo favore né dolersi del suo disprezzo”.