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  1. #4
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    Ciao Ale, ti faccio leggere un articolo riguardante la tua zona geografica. E’ stato pubblicato l’altro giorno sull’inserto “Domenica” del quotidiano Il Sole 24 Ore

    Matteo Codignola: “I piedi nel fiume Tagliamento, e scorre la storia” (Il Sole 24 Ore, 10 – 9 – 2023)

    In Friuli tutto è vicino, dal Castello di Colloredo di Monte Albano, dove Nievo scrisse le «Confessioni di un Italiano», al ««tùmbare», monumento funebre dell’Età del Bronzo



    I generali italiani sono notoriamente fenomenali con la penna, ma quando si tratta di imbracciare lo schioppo, come dire, l’intreccio si infittisce. Così, se nell’autunno del 1918 gli alleati non gli avessero fatto presente che, essendo gli austriaci in braghe di tela, forse era il caso di andarsi a prendere le terre in teoria tanto agognate, loro se ne sarebbero tranquillamente rimasti al di qua del Piave, e il Friuli sarebbe ancora – mah, forse quello che tutto sommato è rimasto, una regione di cui gli italiani, alla faccia di trisavoli irredentisti e bisnonni irredenti, conoscono in modo approssimativo l’ubicazione – verso il Veneto, ma un po’ più in là – e che in due casi su tre accentano sulla vocale sbagliata.
    Meglio così, ma non è detto che duri. La Venezia Giulia ce la stiamo giocando, questo sì – da quando le grandi navi sbarcano a Trieste, Piazza Unità d’Italia in varie ore della giornata ricorda l’imbarcadero di Positano nelle domeniche d’agosto. Però il Friuli interno è ancora un altro mondo. Piuttosto esotico.

    Mi abbandono a queste pensose riflessioni col Tagliamento che mi arriva alle ginocchia – e non sa quanto gliene sono grato, essendo la temperatura esterna superiore a quella fin qui ritenuta compatibile con la vita sulla Terra. Povero Tagliamento. A suo tempo ha avuto un paio di settimane di gloria, quando i generali di cui sopra, allontanandosi da Caporetto alla velocità con cui Voyager si allontana dal Sole, proclamarono che mai lo straniero ne avrebbe superato le sponde; salvo poi precisare, con lo straniero già all’asciutto sulla riva di qua, di essere stati fraintesi: avevano detto Tagliamento, vero, ma intendevano il Piave. Fuori dalla ribalta, tuttavia, il Tagliamento ha continuato a scorrere, e lo fa ancora oggi. L’acqua è trasparente, i ciottoli bianchi, le montagne sullo sfondo celesti, come l’aria: e lassù in alto, dal momento che l’area è protetta, volteggiano grossi rapaci. Pur essendo Ferragosto, non c’è nessuno in vista, a parte un paio di ombrelloni sbiaditi in lontananza. A una cinquantina di metri, tuttavia, un gruppo di gitanti molto vintage, tatuaggi a parte, ha montato un baracchino per il barbecue, e un paio di casse per la musica. Le ragazze badano alle salsicce, i ragazzi hanno trovato un grosso scoglio liscio, da dove derapano in una pozza con una delle prime bici da cross apparse in Italia, nei contraddittori anni Settanta. È una scena che potrebbe svolgersi in un’ansa del Don, negli anni incantati fra la fine dell’Unione Sovietica e quello che è venuto dopo, quando l’immane Paese si godeva una momentanea, e però molto scenografica, sospensione della Storia. Del resto tutto, qui – in Friuli, non sul Don – ha uno strano rapporto col tempo. Per dirlo con una parolaccia, è lievemente ucronico.

    Tolti a malincuore i piedi dall’acqua, e risaliti in macchina, seguiamo i cartelli marroni per Colloredo di Monte Albano, a una decina di chilometri. La campagna è verdissima e in apparenza disabitata, come del resto Colloredo e il suo castello, tuttora tali e quali a come li descrive il loro cittadino più illustre. Per chi non c’era, o dormiva, le "Confessioni di un Italiano" sono state scritte qui, nel castello di Colloredo – in arte, di Fratta. L’enorme agglomerato di torri, mura e così via è venuto giù nel 1976, e da allora è in restauro, quindi non si può visitare. Però ci si può mettere all’ingresso e guardare il rettilineo artificiale a saliscendi, in asse col portone, che taglia la campagna. Da quel punto è abbastanza facile capire che Italia Nievo sognasse di costruire – qualcosa di abbastanza simile allo scorcio maestoso e bizzarro che i suoi antenati avevano disegnato nel paesaggio. Poi i suoi sogni sono andati a farsi benedire insieme a uno dei nostri, e cioè che le scuole del Regno, dovendo dare una lingua comune a non si sa quante Italie diverse, adottassero quel suo meraviglioso, irriverente e se dio vuole comicissimo torso romanzesco, anziché il monumento di quel seccatore baciapile e irrimediabilmente lombardo. Ma le cose non sono andate così, e mentre su quel ramo del lago di Como oggi si fa a cazzotti per i selfie (tiè), qui non c’è niente da instagrammare, e la mano cerca ancora la Leica.

    In Friuli, come in Olanda, tutto è a dieci i quindici chilometri da tutto. A sei o sette da Colloredo c’è Brazzacco, il minuscolo paesino di cui era originario Pietro Savorgnan di Brazzà. Brazzà è stato una figura al cui cospetto Stanley, Livingstone e compagnia bella sembrano un gruppo di animatori del ClubMed, eppure il porco Paese in cui era nato, in un secolo abbondante, non ha ritenuto di dedicargli un libro degno di questo nome, né un film, e neppure una serie, che ormai non si nega a nessuno abbia appena messo il naso fuori dall’anonimato. Eppure la sua vicenda sarebbe la chiave migliore per cominciare a capire qualcosa del nostro oscuro, e fin qui in gran parte silenziato, rapporto con l’Africa. Invece niente – ma sapendo che a Brazzacco risultava esistere, nientemeno, un Museo Brazzà, ho chiamato il custode e gli ho chiesto di visitarlo. Il custode, Corrado Pirzio Biroli, è anche il curatore del museo stesso, oltre che il proprietario del fabbricato, del terreno su cui sorge, e della villa adiacente. E discende in linea diretta da Brazzà stesso. La villa è in una posizione talmente felice da essere stata a rotazione il comando di tutti gli eserciti che da queste parti hanno belligerato in due guerre mondiali, però il museo è piuttosto piccolo. Contiene poco di originale, ma non per colpa di Corrado, che ci lavora da anni: Brazzà infatti non ha lasciato molto, e quel poco è finito in fondo al mare in uno sventurato naufragio. Peccato, perché a giudicare da quello che è rimasto – le scatolette di sapone in polvere o di lamette cui in Congo aveva concesso nome ed effigie, sperando di alzare qualche soldo – si sospetta potesse essere materiale non precisamente da cartolina. Alle pareti del museo c’è tuttavia parecchio altro, e di quell’altro con Corrado si finisce per parlare. È infatti inevitabile chiedere informazioni sugli augusti personaggi ritratti o fotografati alle pareti, che sono immancabilmente nonni, zii, cugini o genitori di Corrado stesso: peccato si chiamino Pirzio Biroli (che significa, l’Africa italiana) o Von Hassel (che significa, la resistenza tedesca a Hitler). Quanto all’omone con la barba a due corni lassù, era l’ammiraglio von Tirpiz, nientemeno – cioè il bisnonno di Corrado.

    Troppa storia, e troppo intrecciata, almeno per un articolo. Meglio chiudere con qualcosa di più primordiale. Per trovarlo bastano i soliti tre chilometri, fino a un altro castello. A differenza di Colloredo, il maniero di Villalta è intatto, e infatti ci ospitano matrimoni e baccanali assortiti. Ma il punto di interesse è un altro. Subito sotto le mura, infatti, si apre un pratone vuoto, con al centro un grosso montarozzo. È un «tùmbare», uno degli ultimi monumenti funebri che a quanto pare erano, millenni fa, un landmark queste pianure. Sotto a questo, che è molto bello, ci sono verosimilmente i resti di un notabile dell’Età del Bronzo: sopra, un grosso tiglio, albero venerato dalle popolazioni slave che da sempre hanno abitato la regione. E che, pur costrette da decenni a tollerare i rumorosi e spesso molesti vicini venuti da occidente, continuano imperterrite ad abitarla.
    Ultima modifica di doxa; 12-09-2023 alle 07:18

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