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Le tante parole che molti italiani usano, anche lontano da Roma, forse senza sospettarne l’origine capitolina:
bùfala = notizia falsa;
caçiara = confusione;
fregnaccia e frescaccia = sciocchezza;
jella = sfortuna;
pènnica = sonnellino;
peracottaro = persona inattendibile e pasticciona;
scanzonato = scherzoso, disinvolto, ironico;
sfottere = prendere in giro;
sturbo = svenimento;
zozzo = sporco;
cecagna = sonnolenza;
daje, eddàje = usato come segnale d’impazienza o di disappunto quando accade una cosa spiacevole;
stacce = rassegnarsi;
ce pò sta = è possibile, è plausibile, è accettabile.
Per chi volesse saperne di più vi segnalo il recente “Vocabolario del romanesco contemporaneo”, edit. da Newton Compton, pagg. 480, euro 14,90, elaborato da Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi.
Il dialetto romanesco è come un cocktail: un terzo di origine meridionale, un terzo dal toscano (che risale agli sconvolgimenti demografici avvenuti nell’Urbe tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna), e un terzo dalle successive importazioni e innovazioni, che da Roma capitale si sono irradiate in tutta la penisola.
Il romanesco contemporaneo, quello che oggi si parla a Roma è un misto di dialetto e lingua “colta”, che produce un “italiano di (de) Roma”.
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