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Seduti in cerchio, i dervisci intonarono la loro cantilena di versi sacri in un antico dialetto aramaico:
“Tu sei Dio, Tu sei la Verità, Tu sei la Vita…”
Un’ambulanza sfrecciava sulla via scandendo con la sirena il ritmo dei suoni della notte:
un bimbo che piangeva –tatú tatà, i sospiri di due amanti – tatú tatà, le note di un contrabbasso uscite da un locale notturno – tatú tatà…
Massimo, steso su un lettino aperto in terrazza al settimo piano, scrutava la distesa di stelle che attraversano il cielo da est a ovest, come un sentiero da percorrere a piedi, indossando le calzature dei sogni. Che colore avrebbero avuto i suoi occhi, visti da una di quelle stelle? Impossibile dirlo, da lassù lui sarebbe stato meno di un puntino monodimensionale, meno di un atomo, meno di un soffio. Eppure, attraverso i suoi occhi, lui poteva vedere in un istante milioni di stelle, mondi, galassie. Che mistero. E ancora più veloce poteva arrivare su qualsiasi punto luminoso conosciuto e sconosciuto nello spazio infinito con un semplice pensiero. Passeggiare fra paesaggi esotici di un pianeta parallelo e speculare al nostro, riposare su una cometa osservando la distesa del cosmo da un punto di vista sempre diverso e fantastico, percorrere a velocità supersonica le distanze fra uno sciame di meteoriti e una supernova. Il suo fido compagno accucciato ai piedi del letto avrebbe potuto fare altrettanto? Ecco un altro mistero che non avrebbe mai risolto.
“Non esiste altra divinità all’infuori di Dio” cantavano i dervisci. Pur non conoscendo la loro lingua, la monotonia delle loro litanie lo affascinava. Un gruppo di ubriachi litigava sul marciapiede sette piani più in basso, qualcuno affacciato alla finestra imprecava, il bimbo si risvegliò e ricominciò a piangere. Nessun rumore veniva più dalla finestra aperta degli amanti.
“E se anche questo fosse un sogno?” si chiedeva ora Massimo. Quante volte aveva afferrato oggetti, guidato automobili, amato una donna per poi riaprire gli occhi nella sua stanza di sempre o sul terrazzo nelle calde notti d’estate. Ogni sensazione ancora viva su tutto il corpo, profumi e sapori difficili da spegnere, muscoli tesi, eppure… Eppure tutto svaniva nel giro di pochi secondi lasciando un ricordo che si spegneva alle prime luci dell’alba. Aveva un senso? Era un segnale? Un avvertimento?
“Tu sei il Vivente, tu sei l’Eterno. Tu sei l’Affabile, tu sei il Perdonatore”.
Un aereo attraversava lo spazio di cielo visibile; interpretò la luce intermittente nel buio come un gioco di bimbi: “Dove sono ora? Mi vedi? Ecco che sono di nuovo sparito e immediatamente riappaio”. Non poté fare a meno di sorridere. Che buffo il mondo visto da quassù, nelle notti calde, immersi nel denso fluido della notte. Chissà perché la realtà è così diversa rispetto al giorno. Restava a pensare senza poter decidere quali delle due fosse meglio. Di certo la notte favorisce i pensieri, ma anche gli incubi. Il giorno invece spazza ogni fantasia della mente, ma ci costringe ad affrontare situazioni che in gran parte non abbiamo scelto e che spesso ci risultano difficili da gestire. Fece capolino la luna, enorme, rossa, pronta ad affrontare le tenebre come un cavaliere errante.
“Non dev’essere stato difficile per gli antiche costruire storie e leggende al proposito” pensò.
Sfide infinite fra divinità avverse, carri celesti che trasportavano il sole da una estremità all’altra del cielo, epopee eroiche di possenti creature per metà uomini e per metà dèi. Il tutto infarcito di sottili metafore, accenni filosofici, saggezze universali. Siamo così diversi noi dagli antichi?
“Sì” rispose Massimo ad alta voce, “siamo diversi”. Disturbati da mille fuochi artificiali della durata media di pochi istanti, notizie ed avvenimenti ampliati dai megafoni dell’informazione, esaltazione della futilità come irrinunciabile novella, la parte maggiore del nostro tempo ipotecata in attività irrilevanti: l’oscurità della mente mascherata da progresso del pensiero. Eppure c’è ancora chi è in grado di porsi domande, le più grandi e le più difficili. Massimo chiuse gli occhi.
“Tu sei il Compassionevole, tu sei il Misericordioso. Tu sei il Custode, tu sei il Sapiente…”
Il canto dei dervisci lo accompagnò fino alle prime luci dell’alba.
K.K.
Berlin
14 Ramadan 1445
Aut hic aut nullubi
King Kong
Very very strong!
amate i vostri nemici
„Ma le onde avranno un nome?”
“Certo” rispose Johnny, il gabbiano.
“Ma è impossibile, sono migliaia, milioni, miliardi ogni giorno, in ogni momento!” esclamò.
“E quale sarebbe il problema, anche i gabbiani sono milioni, eppure ognuno ha un nome proprio. E non è così anche per te e i tuoi simili?”
“Certo, è così. Ma noi abbiamo una vita più lunga e un nome proprio è di grande utilità quando si tratta di distinguere un individuo da un altro, ma le onde? Che bisogno c’è se durano un istante prima di infrangersi su uno scoglio o morire lentamente su una spiaggia?”
“Quindi pensi che il periodo della tua sopravvivenza possa fare la differenza?”
“Certo, non è così? Se misuro la durata della mia vita con quella di un’onda, si tratta di un rapporto anche difficile da calcolare, tanta è la differenza”.
“E hai già misurato la durata della tua vita con quella dell’oceano dove le onde nascono? O con quella della terra che calpesti ogni giorno, del sole che ti dà la vita, dello spazio nel quale viaggiamo a grande velocità?”
“Va bene, ma la terra è una sola, come il sole e lo spazio. Non hanno bisogno di ulteriori elementi per essere identificati”.
“Non è proprio così. Tu non hai bisogno di altri elementi perché ne fai un fenomeno unico, ma pianeti ce ne sono a miliardi, molti di più delle onde del mare. E lo stesso è per il sole. Se lo spazio è infinito, lo è anche il numero degli accidenti al suo interno, anche se probabilmente stiamo parlando di un processo dinamico”.
“D’accordo, ma anche la nostra vita è un processo dinamico che trova realtà diverse ad ogni momento della sua crescita, quindi la necessità di mantenere un elemento identitario che attraversi ogni istante del suo sviluppo è essenziale”.
“E perché vuoi negare questa prerogativa per le onde del mare? Anche queste hanno una evoluzione, una crescita, un mutamento della forma in ogni istante. Perché non un nome proprio?”
“Perché le onde fanno parte dello stesso oceano dal quale nascono e al quale fanno ritorno senza che questo cambi la sua natura”.
“E non ti sembra che sia così anche per te? Individuo effimero, che nasce e muore all’interno della immensa folla dell’umanità senza lasciare tracce del suo passaggio, per generazioni e generazioni”.
“Affascinante, ma a differenza delle onde del mare, oltre ad una identità io ho anche una volontà mia, questa è la differenza”.
“Con il problema della volontà sarei più prudente, di fronte ai fenomeni naturali non hai nessun tipo di influenza, così come non ne hai di fronte a quello che voi chiamate i casi del destino. Sei forse in grado di gestire eventi minimi, di ripararti dalla pioggia o dal freddo, ma solo quando questi fenomeni sono contenuti. Nel caso di un terremoto o di una guerra, la tua sorte è nelle mani del caso. E se vuoi srotolare la tua vita vissuta, le decisioni che ne hanno cambiato il corso, sono state fortuite”.
“Mi sembra ci sia una contraddizione nei termini che hai usato”.
“Quali termini?”
“Decisioni e fortuite”.
“È un inganno. Le tue decisioni sono dipendenti dalle tue esperienze pregresse che a loro volta sono frutto di episodi del passato… così fino al momento della tua nascita. La differenza è altrove”.
“E dove, di grazia”.
“Nella tua intelligenza che ti fa diverso dagli animali che invece reagiscono all’istinto o al massimo al ricordo di una situazione analoga. Eppure anche qui c’è una trappola”.
“E quale sarebbe?”
“Tu non sei l’artefice della tua intelligenza”.
“Santo cielo! Ma allora…”.
“Buona giornata Adamo”.
“Buona giornata, Johnny”.
K.K.
Aut hic aut nullubi
E' una domanda "intrigante". Ancora di più continuando a leggere, con i legami al cosmo.
E la "natura" del'Universo e di cosa lo compone.
Non la faccio lunga, né "pesante": é affascinante il pensiero: "Dare un nome all'onda"...che é la manifestazione di un "campo"...ed anche particella, che si materializza con un'interazione...la pianto.
Bellissimo, king...the king
non ti vergogni a scrivere cose che costringono ad un'attività desueta e reazionaria: "pensare"?
La variante Trinomarena non era stata fatta per soddisfare le aspettative del perno binomico laterale sinistro. Eppure, per quanto prestasse attenzione a non provocare una reazione enodinamica, l’uso oculato di quella che ormai per tutti era un prodotto speculare della diametria opposta, gli provocava ogni volta una forte empatia con tutti gli elementi del quadrato asferico. Come era possibile, si chiedeva perplesso leggendo i risultati della misurazione andromorfa sullo schermo inferiore secondario, se alla fine nessuno degli elementi accessori era stato toccato dal ritmo discontinuo dell’albero conico? Lasciò il laboratorio che era ormai notte, quando anche il più accanito degli operatori deponeva lo strumento per una meritata pausa rinfrescante. Le vie del campus erano deserte, spente le luci dei locali dove ci si ritrovava per uno spuntino e una chiacchierata con colleghi sconosciuti alle prese con chissà quale problematica. Che strano, non si era mai accorto che i vicoli secondari erano invece frequentati da alcune eleganti signorine seminude che prestavano i loro servigi in cambio di una frazione della ricompensa per il suo lavoro. Mentre ancora cercava una soluzione al secolare problema dell’entropia intrinseca al postulato di Sorres, si ritrovò in compagnia di Sandra, senza nemmeno averla davvero osservata da vicino. Senza sforzo si avviarono verso un monolocale, proprio d’angolo al laboratorio di sismologia combinata e lì sembrò svegliarsi di soprassalto alle parole della sua compagna occasionale che lo invitava a spogliarsi. Non oppose resistenza e, steso sul letto, lasciò che lei esercitasse con bravura l’arte imparata con tenacia nei lunghi anni di tirocinio. Qualcosa gli ricordò il movimento asolare della meccanica quantominatica al punto dal provocargli un incontrollato sussulto che colse Sandra di sorpresa. E se il pulso generato dal surriscaldamento metodinamico fosse solo da attribuire alla qualità dei materiali impiegati piuttosto che dalle scale aperiodiche miste? Ecco che la sua attenzione era di nuovo rapita dalla vecchia teoria della unicità dei fenomeni universali. Anche se era ormai abituata alle stranezze degli scienziati del campus, Sandra sembrò essere stata contagiata dalla singolarità di questo paziente e spontaneamente scelse di ripiegare sulle antiche tecniche orientali del Tantra Vajrayana. Fu forse questa nuova tecnica, forse il profumo dell’incenso, forse il tono dell’armonium baja indiano che lo illuminò. Certo! Il biscus anellato ad angoli irregolari era la soluzione! Guardò stupito la giovane donna che armeggiava al suo organo riproduttivo e la salutò con un coito come da ragionevole aspettativa. Lasciò una cospicua somma di denaro sulla consolle all’ingresso, scese in fretta le scale e tornò in laboratorio. Come aveva fatto a non pensarci prima, sarebbero bastati pochi parsec di centrifugazione e il materiale avrebbe reagito in perfetta simbiosi con tutti gli elementi delle pareti di contenimento. Preso dal entusiasmo di questa nuova possibilità, trascurò tutte le regole fondamentali di ogni attività empirica: non iniziò un nuovo protocollo; non chiese l’assistenza di un collega; non avvisò il personale dell’imminenza di un nuovo esperimento; non attivò le telecamere di sorveglianza e nemmeno indossò lo scafandro che lo proteggesse dalle possibili radiazioni quantonometriche.
Il mattino seguente, i colleghi del primo turno, trovarono i suoi occhiali posati ordinatamente sulla scrivania, la giacca appesa all’attaccapanni, un bicchiere d’acqua mezzo pieno (o mezzo vuoto?) sul tavolo d’angolo. La centrifuga accesa, le lampade ultraviolette in funzione, l’aspiratore molecolare attivo testimoniavano la presenza di qualcuno nel laboratorio che era stato per ultimo chiuso dall’interno, ma di un operatore mancava ogni traccia. Nei giorni successivi, dopo che la notizia era trapelata oltre i confini ermetici del mondo della ricerca, i quotidiani si sbizzarrirono in mille speculazioni. Un rapimento da parte di una potenza nemica, l’esistenza di un laboratorio super-segreto accessibile a pochi super-cervelli, una fuga d’amore con una dama sconosciuta, un salto quantico nella quarta dimensione dopo un esperimento avventato. Erano state interrogate anche le signorine dei vialetti secondari, ma in questo caso si trattava di lavoratrici con una ferrea etica professionale e tutto si risolse in un nulla di fatto. Ed ora lui si trovava lì, con una sedia come unico arredamento di un meteorite su un’orbita sconosciuta ad osservare l’infinità dello spazio freddo e buio. Aveva avuto un senso tutto ciò? Non ricordava nemmeno il suo nome, né tanto meno quello dei colleghi. Amici non ne aveva avuti, vagamente ricordava qualche volto dei suoi famigliari. Udì il suono di un armonium indiano e gli sembrò di respirare il profumo di incenso. Quando rivide la signorina del vicoletto venirgli incontro nella sua straordinaria bellezza, si dissolse definitivamente in un orgasmo universale.
K.K.
Aut hic aut nullubi
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L’ultima volta che aveva sentito il verbo “bussolare” era stato nella bisca a cielo aperto nel parcheggio della dogana alle porte della città. “Tocca a te bussolare”, ripetevano i giocatori quando si trattava di agitare i dadi dentro a una sorta di bicchiere di cuoio prima di lanciarli sull’asfalto. Associava così il senso di bussolare all’idea di scombussolare la vita di qualcuno con una azione, parola, sentimento. Fu questo che lo costrinse a rileggere più volte la frase trovata per caso sulla pagina di un libro sconosciuto, forse di uno scrittore russo, forse di un filosofo del rinascimento italiano.
„Spero che Dio non abbia dato ad alcuno la libertà di bussolare il destino di altri”.
Difficile da spiegare. Avrebbe potuto essere anche un riferimento al gergo marinaro, dove bussolare starebbe a significare, mettere il naviglio sulla rotta desiderata. Ad esempio, ciò che fa un padre con il figlio. Cosa c’è di sbagliato in questo? Perché un genitore non dovrebbe preoccuparsi del destino della sua prole? Ma l’autore scrive bussolare, mettere sulla rotta desiderata, come se il soggetto in questione fosse un oggetto privo di volontà propria. Un difficile equilibrio fra l’idea che occupa la mente generando uno stato d’animo ansioso e il rispetto della personalità altrui, ricca di pensieri e desideri propri da osservare senza un giudizio. Per bussolare il destino dei figli pensava ad un atto di forza, maggiore delle aspirazioni individuali, incurante del desiderio di esplorare il mondo con occhi diversi, fondato su esperienze proprie e irripetibili. Sorseggiò dalla tazza il tè di erbe, profumato e aromatico, un’abitudine che in famiglia aveva sempre provocato una reazione divertita e ironica fino a procurargli la fama di persona eccentrica per un gesto invece così banale. Anche se il verbo fosse derivato dal gergo contadino dove la bussola è uno strumento con setole per strigliare i buoi e i cavalli il senso non sarebbe cambiato. In qualche modo, qualcuno cerca di influenzare il carattere di altri misurando la realtà con il proprio metro individuale. È tollerabile un atteggiamento così fatto? E quale sarebbe il riferimento assoluto che possa darci l’idea di giusto e di sbagliato? Colombo non partì forse da Palos de la Frontera sicuro di arrivare alle Indie per poi invece attraccare alle Bahamas? Il suo errore non si risolse forse un vantaggio? Non è tanto l’idea individuale di ricercare una sorta di perfezione o un baricentro che possa valere sempre e in ogni situazione, quanto l’irruenza di volerlo intimare o imporre ad altri che genera il fastidio e che probabilmente ha portato lo sconosciuto autore a formulare la frase del racconto che si era ritrovato davanti agli occhi. Certo c’è un’eccezione, pensò. Se ad esempio sono io a richiedere ad una persona di aiutarmi ad affrontare un sapere che fino a qui mi è sconosciuto, il rischio è mio. Un rischio minimo se si tratta di prendere lezioni di pianoforte, un rischio immenso se invece sto chiedendo una bussola, una direzione, un modello che mi aiuti ad affrontare i problemi della vita quotidiana. Ma il rischio diventa non più misurabile se sto cercando il senso universale della vita e dell’esistenza. Nessuna garanzia, nessuna assicurazione, nessuna restituzione o riparazione per eventuali danni subiti. Una partita a dadi. Ripensò al proprio percorso. Aveva commesso errori? A milioni. Era venuto a contatto con le persone sbagliate? Non aveva nessuna importanza fino a quando non fosse stato in grado di dare una definizione di giusto e sbagliato. Ma in entrambi i casi, ogni incontro aveva aggiunto una tessera al mosaico della sua conoscenza, presupposto per il passo successivo. Sentiva di essersi infilato in un ginepraio dove ogni pensiero ne generava altri che lo costringevano a muoversi in tondo, provocando sempre più ferite aumentando le difficoltà a trovare una via d’uscita. E se tutto fosse stato pensato e predisposto esattamente così? E a quale fine? si chiese improvvisamente scosso da questa idea. Un disegno nascosto nel DNA che srotola giorno dopo giorno un programma scritto all’origine della vita. Scritto da chi? E a che scopo? E quali sarebbero a questo punto le responsabilità individuali e per quale motivo dovremmo ancora parlare di “bussolare il destino di altri”. Nessuna colpa, nessuna responsabilità, nessuna scelta. Un’eresia degna del rogo purificatore, ma sicuramente non l’ultimo capitolo delle sue riflessioni.
“Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce”.
Salmi 15 (16), 7
K.K.
Aut hic aut nullubi