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Risultati da 1 a 15 di 56

Discussione: Imparare a vivere

  1. #1
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    Imparare a vivere



    Il prof. Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica nell’università di Torino, ha recentemente pubblicato da Laterza un suo libro titolato: “Imparare a vivere. Vivere, sopravvivere, previvere, convivere”: sono le tappe attraverso cui questo libro fa riflettere sul significato della vita e a come si possa imparare a vivere. Ciò è possibile ? Stando a quanto scrisse due mesi prima di lasciare il mondo l’amico fraterno di Ferraris, il filosofo Jacques Derrida, imparare a vivere non è possibile, perché significherebbe accettare definitivamente il fatto di dover morire.

    Se si accetta l’idea heideggeriana che la morte conferisce alle nostre azioni un orizzonte di significato, è anche vero che il pensiero della morte, quando riesce a farsi spazio nella mente non ne esce più e ci immalinconisce.

    In questo libro l’autore spazia su vari temi ma inizia descrivendo una caduta accidentale che lo costringe ad una sosta nella propria quotidianità. Egli dice che nel momento in cui ci si ferma, la galassia di sentimenti e risentimenti che emergono è fatta dalla memoria delle cose vissute nel passato, nel proprio intimo, attraverso gli altri, intrecciata alle cose apprese anche attraverso i libri, la letteratura, da Montaigne a Heidegger, da Nietzsche a Derrida, da Proust a Yourcenar, da Fitzgerald a Hemingway.

    Il banale incidente sembra suggerire che tutto quello che avevamo ritenuto stabile, potrebbe finire. Che forse non abbiamo ancora imparato a vivere. È proprio in quel momento che vale la pena di provarci ancora una volta, sperando che il vento si levi, disincagliandoci dalla secca in cui siamo finiti.

    “Il nostro tempo ha una scadenza ultima e la realtà ci oltrepasserà, esisterà ancora e indipendentemente da noi, quando noi saremo trapassati. L’errore fatale che possiamo commettere è quello di ignorare la questione: come il pesce dell’aneddoto raccontato da David Foster Wallace (che, per dovere di cronaca, si è suicidato) e che campeggia quale simbolo sulla copertina del libro. Due giovani pesci, nuotando, ne incontrano uno più anziano che chiede loro «Com’è l’acqua, oggi?», ma uno dei due giovani risponde: ‘Cos’è l’acqua?’. Come l’acqua per i pesci che non sanno di nuotarvi, così può essere per noi una vita vissuta nella totale inconsapevolezza; il che costituisce un grande peccato, se non religioso di certo filosofico”.

    Ferraris ha fede in quella che egli definisce la “cultura tecno-umanistica”. Secondo lui, noi esseri umani siamo composti da due nature indissolubili: la natura organica, che cessa con la morte, e la natura tecnica, capace di sopravviverci, nella misura in cui l’essenza di homo sapiens coincide con la sua abilità tecnica; e ciò sin dai tempi remoti in cui imparò a fabbricare manufatti e a raccogliersi in gruppo attorno a un fuoco per narrare storie. Infatti, l’artefatto tecnico più straordinario di cui dispone la nostra specie è la scrittura, la trascrizione di storie in documenti capaci di trasmettere il sapere alla collettività al di là della cessazione della vita del singolo. Gli apparati di registrazione, pitture rupestri, papiri, taccuini, volumi, pdf o podcast, film o anche solo post sui social, rappresentano una forma di sopravvivenza, se non del corpo, quantomeno del corpus di informazioni (più o meno utili) da tramandare ai posteri.

    C’è, anche, l’esercizio del previvere, cui ci si dedica da giovani immaginando cosa sarà il futuro adulto fintanto che il futuro non si fa davvero presente, sovrastandoci con la sua ingombrante realtà. Possiamo previvere grazie alle opere letterarie o cinematografiche, attraverso la finzione, utile frutto di quella cultura tecno-umanistica di cui Ferraris tesse l’elogio: le opere di finzione ci fanno provare con l’immaginazione esperienze che avranno un’inevitabile ricaduta nel modo in cui vivremo la nostra vita.

    Nella scrittura, nella lettura, nella comunicazione e condivisione di documenti c’è l’insegnamento che ci proviene dal convivere. Siamo animali socievoli, inestricabilmente legati agli altri, a chi ci sta a fianco e a coloro di cui leggiamo a distanza di secoli. Sono gli altri a darci un significato, sin dalla nascita, sin da quando imparammo a sorridere imitando il sorriso di nostra madre e a recitare filastrocche. Oggi, nell’era dell’individualismo e del narcisismo, è importante ribadire che la convivenza e l’empatia costituiscono l’essenza stessa della nostra umanità e il vero antidoto a ogni forma di nichilismo.
    Ultima modifica di doxa; 18-03-2024 alle 21:40

  2. #2
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    cliccare sul link

    https://www.instagram.com/reel/C3zve...kxNWN4Yg%3D%3D


    da una parte il concetto è tempo in quanto è nell'elemento dell'esser là, e il tempo è il concetto in quanto essere determinato, ma d'altra parte il concetto toglie il tempo, ovvero realizzandosi elimina il tempo. Allora cosa è il tempo per Hegel?

    Il tempo non ha essere perché il futuro non è ancora, il passato non è più e il presente non permane. Ma c'è un essere del tempo e qual è? Proprio questa dimensione di profonda negatività del tempo è quella che ha più profondamente ispirato la meditazione filosofica sul tempo. Perché da un lato avvertiamo questo scorrere, dall'altro però noi parliamo del tempo come qualcosa che appartiene all'essere (diciamo “le cose a venire verranno”, “le cose passate sono state”, “quelle presenti passano”), cioè il passare non è un nulla. Alla base di questa interrogazione c'è una percezione più profonda della temporalità che è articolata in due momenti essenziali.

    Voi avete capito qualcosa di ciò che vuol significare il sor Hegel ?

    Io no ! Ma è notorio che ho dei pregiudizi verso i filosofi: astrusi, confusionari, si perdono nei meandri e non capiscono nemmeno loro ciò che vogliono dire.

    Per consolarmi me faccio du risate co Gigi Proietti

    consolatevi anche voi, cliccando sul link

    https://www.instagram.com/reel/C22mn...NyeWFweTFsdWJy
    Ultima modifica di doxa; 19-03-2024 alle 08:06

  3. #3
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    Il prof. Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica nell’università di Torino, ha recentemente pubblicato da Laterza un suo libro titolato: “Imparare a vivere. Vivere, sopravvivere, previvere, convivere”: sono le tappe attraverso cui questo libro fa riflettere sul significato della vita e a come si possa imparare a vivere. Ciò è possibile ? Stando a quanto scrisse due mesi prima di lasciare il mondo l’amico fraterno di Ferraris, il filosofo Jacques Derrida, imparare a vivere non è possibile, perché significherebbe accettare definitivamente il fatto di dover morire.

    Se si accetta l’idea heideggeriana che la morte conferisce alle nostre azioni un orizzonte di significato, è anche vero che il pensiero della morte, quando riesce a farsi spazio nella mente non ne esce più e ci immalinconisce.

    In questo libro l’autore spazia su vari temi ma inizia descrivendo una caduta accidentale che lo costringe ad una sosta nella propria quotidianità. Egli dice che nel momento in cui ci si ferma, la galassia di sentimenti e risentimenti che emergono è fatta dalla memoria delle cose vissute nel passato, nel proprio intimo, attraverso gli altri, intrecciata alle cose apprese anche attraverso i libri, la letteratura, da Montaigne a Heidegger, da Nietzsche a Derrida, da Proust a Yourcenar, da Fitzgerald a Hemingway.

    Il banale incidente sembra suggerire che tutto quello che avevamo ritenuto stabile, potrebbe finire. Che forse non abbiamo ancora imparato a vivere. È proprio in quel momento che vale la pena di provarci ancora una volta, sperando che il vento si levi, disincagliandoci dalla secca in cui siamo finiti.

    “Il nostro tempo ha una scadenza ultima e la realtà ci oltrepasserà, esisterà ancora e indipendentemente da noi, quando noi saremo trapassati. L’errore fatale che possiamo commettere è quello di ignorare la questione: come il pesce dell’aneddoto raccontato da David Foster Wallace (che, per dovere di cronaca, si è suicidato) e che campeggia quale simbolo sulla copertina del libro. Due giovani pesci, nuotando, ne incontrano uno più anziano che chiede loro «Com’è l’acqua, oggi?», ma uno dei due giovani risponde: ‘Cos’è l’acqua?’. Come l’acqua per i pesci che non sanno di nuotarvi, così può essere per noi una vita vissuta nella totale inconsapevolezza; il che costituisce un grande peccato, se non religioso di certo filosofico”.

    Ferraris ha fede in quella che egli definisce la “cultura tecno-umanistica”. Secondo lui, noi esseri umani siamo composti da due nature indissolubili: la natura organica, che cessa con la morte, e la natura tecnica, capace di sopravviverci, nella misura in cui l’essenza di homo sapiens coincide con la sua abilità tecnica; e ciò sin dai tempi remoti in cui imparò a fabbricare manufatti e a raccogliersi in gruppo attorno a un fuoco per narrare storie. Infatti, l’artefatto tecnico più straordinario di cui dispone la nostra specie è la scrittura, la trascrizione di storie in documenti capaci di trasmettere il sapere alla collettività al di là della cessazione della vita del singolo. Gli apparati di registrazione, pitture rupestri, papiri, taccuini, volumi, pdf o podcast, film o anche solo post sui social, rappresentano una forma di sopravvivenza, se non del corpo, quantomeno del corpus di informazioni (più o meno utili) da tramandare ai posteri.

    C’è, anche, l’esercizio del previvere, cui ci si dedica da giovani immaginando cosa sarà il futuro adulto fintanto che il futuro non si fa davvero presente, sovrastandoci con la sua ingombrante realtà. Possiamo previvere grazie alle opere letterarie o cinematografiche, attraverso la finzione, utile frutto di quella cultura tecno-umanistica di cui Ferraris tesse l’elogio: le opere di finzione ci fanno provare con l’immaginazione esperienze che avranno un’inevitabile ricaduta nel modo in cui vivremo la nostra vita.

    Nella scrittura, nella lettura, nella comunicazione e condivisione di documenti c’è l’insegnamento che ci proviene dal convivere. Siamo animali socievoli, inestricabilmente legati agli altri, a chi ci sta a fianco e a coloro di cui leggiamo a distanza di secoli. Sono gli altri a darci un significato, sin dalla nascita, sin da quando imparammo a sorridere imitando il sorriso di nostra madre e a recitare filastrocche. Oggi, nell’era dell’individualismo e del narcisismo, è importante ribadire che la convivenza e l’empatia costituiscono l’essenza stessa della nostra umanità e il vero antidoto a ogni forma di nichilismo.
    Bellissimo! Grazie Doxa. Altro argomento enorme, profondo, importante. Ce ne sono ben 12, attualmente sul Forum, che rimandano al Trascendente, all'interiorità, al nostro rapporto con gli Altri e con Dio. Eppure molti negano ancora che l'anelito spirituale dell'Uomo sia rilevante nella Storia e la marchi col fuoco.
    amate i vostri nemici

  4. #4
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    Caro Cono, imperfetto Adamo, perciò peccatore, le parole che mi dici hanno come palinsesto la Bibbia e come liturgia i sacramenti.

    Per Heidegger la morte è la trasfigurazione di un tema cristiano, secondo il quale la vera vita inizia con la morte, la vita eterna dopo la morte. Ma più interessante è un secondo significato del tema, sempre in ambito cristiano: l'idea apparentemente paradossale del Vangelo che fa iniziare la vera vita con la rinuncia ad essa, pensa ai martiri cristiani del passato che felici andavano incontro alla morte. Perdere la vita significa ritrovarla nella vita eterna promessa.

    Vera vita che nel pensiero greco s'intende vita filosofica, e che Platone nel “Fedone” definisce come una preparazione alla morte.

    Quindi una tradizione filosofica autorevole, che parte da Platone e finisce con Heidegger, passando per il Vangelo. Vedi “Fenomenologia dello Spirito" di Hegel.

    Filosofia che non è necessariamente metafisica. La filosofia “s’incarna” nella prassi etica meditando sull'orizzonte temporale della morte, itinerante nel suo viaggio che ha un inizio e una fine, incluso lo scopo racchiuso nel medesimo viaggio. Ma il ciclo della vita e della morte rigetta l'appiattimento metafisico e riporta il non essere alla rivelazione epicurea: mentre ci siamo la morte non c'è.

    Conserviamoci in buona salute, rispettando l'orizzonte temporale che l'evoluzione ci ha concesso, senza riempire il tempo dato con insensate malinconie.

    p. s. Tieni sempre presente che “… si scrivono libri e libri senza fine ma il molto studio debilita il corpo”; dal biblico Qohelet/Ecclesiaste (12,12).

  5. #5
    Candle in the wind L'avatar di conogelato
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    C'è una stretta parentela fra filosofia e metafisica: diciamo che sono cugine di primo grado....
    Ungaretti affermava che "la Morte si sconta vivendo" cioè che il sollievo della morte si paga con le sofferenze della vita. Il rapporto tra Vita e Morte si inverte: la Morte assume un significato positivo di fronte alla Vita e non viceversa. Lo stesso prima di lui pensava Ugo Foscolo.
    amate i vostri nemici

  6. #6
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    Carlino, come si impara a vivere? Io non lo so !

    Arrivi ad una certa età pensando di aver imparato qualcosa e invece ti accorgi che quello che hai imparato è ormai superato, fa parte di quel mondo che, mentre sei impegnato a conoscerlo, già sta cambiando.

    Come si può imparare a vivere se tutto attorno a te cambia in continuazione?

    Un mio conoscente ha da poco imparato ad usare il computer e già lo stanno assillando con l’intelligenza artificiale.

    Ti dicono che bisogna adattarsi al mondo che cambia, che imparare a vivere consiste proprio nell'imparare ad adattarsi.

    Dicono anche che durante la vita i problemi che s’incontrano sono proprio quelli che ci danno importanti lezioni, positive o negative, fanno riflettere e inducono a percorrere un’altra strada.

    Ultima modifica di doxa; 20-03-2024 alle 17:10

  7. #7
    Opinionista L'avatar di Ninag
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    Spesso si parla di vivere il presente, e di essere presenti a sé stessi, cosa piuttosto complicata, come i pesci non hanno la percezione dell'acqua, noi non abbiamo bene chiaro cosa vuol dire essere presenti, anche parole come vivere il proprio tempo, o sei fuori tempo. Chi può dirlo, chi conosce davvero il tempo che come tutti sanno è in fondo una convenzione.

  8. #8
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    Nina ha scritto
    essere presenti a sé stessi, cosa piuttosto complicata
    Gentile Nina la tua frase mi evoca il sostantivo “distrazione”, dal latino “distractio -onis”, da distrahĕre (= separare).

    Quando siamo distratti il pensiero si assenta dal presente, dalla realtà circostante.

    Nel Medioevo i monaci che venivano continuamente distratti da altri pensieri, chiedevano di allontanarsi dalle comunità cenobitiche in cui vivevano per cercare luoghi in cui appartarsi al fine di condurre una vita solitaria, da anacoreti, e tuttavia anche lì erano inseguiti dai demoni tentatori, come racconta negli “Gli otto spiriti malvagi” il monaco asceta Evagrio Pontico, che visse dal 345 al 399.

    I monaci, gli anacoreti e le donne religiose per non distrarsi durante le preghiere idearono tecniche psichiche per restare concentrati e respingere gli spiriti del male che li tentavano con le distrazioni.

    Pontico racconta che nei monasteri c’era sempre in agguato il “demone meridiano” che sviava l’orante: leggendo, il monaco veniva sopraffatto dal sonno (post prandiale), distoglieva lo sguardo dal libro e dopo averlo chiuso “lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo”.

    Ci sono vari tipi di distrazione: i distratti dispersivi e i distratti assorti, come ha spiegato Alessandra Aloisi nel suo libro “La potenza della distrazione” ( edit. il Mulino).

    Lo studioso di psicologia, Michael C. Coballis, nel suo libro, “La mente che vaga” ( edit. Cortina), dice che muovendosi con la mente qua e là, seguendo sentieri strani, immagini mnemoniche del passato, ricordi ricorrenti, o altre visioni similari, accade che qualcosa di nuovo giunga dentro la nostra fantasia.

    La distrazione ci isola, ci fa vagare con la mente, può farci costruire racconti complessi, contorti, ci permette di raccontarla, come facevano quei cenobiti quando si raccontavano l’un l’altro le loro visioni, incerti se fossero opera del demonio o invece immagini liberate dalla loro stessa fantasia.
    Ultima modifica di doxa; 21-03-2024 alle 07:44

  9. #9
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    Quando pensiamo ai monaci, soprattutto a quelli dell’epoca medievale, spesso immaginiamo figure serene e profondamente impegnate nella preghiera o nella meditazione. Ci immaginiamo i monaci lontani dalle distrazioni, invece…

    Dalla ricerca della storica statunitense Jamie Kreiner, pubblicata col titolo “La mente vagabonda. Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione” (edit. Il Saggiatore), emerge che anche per loro era difficile mantenere un continuo stato di attenzione. Pur vivendo in ambienti progettati per ridurre al minimo le distrazioni, volavano con i loro pensieri, anche per esigenza di riposo mentale.

    I monaci credevano che una mente errante durante la preghiera o la meditazione non fosse soltanto una perdita di concentrazione dell’attenzione, ma una potenziale apertura all’influenza demoniaca, perciò usavano alcune strategie.

    Una delle tecniche da essi utilizzate per combatterla era quella di “pensare al proprio pensiero”: il monitoraggio costante dei propri pensieri, per capire se la loro attenzione stava vacillando e perché.

    Nel monachesimo è importante il pensiero costante verso Dio per vivere in pace. Ma la distrazione sposta il pensiero verso altre direzioni. Allora è necessario l’autoconvincimento tramite il “metodo antirretico”: contraddire il diavolo con frasi bibliche.

    Secondo loro la "contraddizione" (in greco antirrhesis) era efficace per contrastare le insinuazioni e le suggestioni del maligno, attraverso le parole tratte dalla Sacra Scrittura.

    Ripetendo ogni giorno le stesse parole gli eremiti lavoravano alla propria conversione interiore, frasi abituali in cui ciascuno sceglieva quella che riteneva più adatta.

    I monaci usavano anche un’altra tecnica detta “ruminatio” come la mucca che mastica continuamente il suo bolo così la parola di Dio affiora da sola al momento giusto.

    Amico Cono, tu come stai messo con la "ruminatio" ? , impara a pensare come un monaco o un frate se vorrai andare in Paradiso.

    Ultima modifica di doxa; 21-03-2024 alle 15:46

  10. #10
    Candle in the wind L'avatar di conogelato
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    Gesù faceva esattamente così: alle tentazioni del Maligno rispondeva citando la Parola di Dio...
    La Parola di Dio, caro amico Doxa, è un'arma potente: è conforto, è nutrimento, è acqua che disseta.
    amate i vostri nemici

  11. #11
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    Buonasera doxa, un saluto agli utenti del forum. Il tempo secondo il mio pensiero scorre secondo i periodi che l'umanità ha vissuto. Il periodo che viviamo come è stato già riportato, ha una evoluzione veloce e stare al passo richiede molta energia soprattutto mnemonica, inconsapevolmente si perdono i rapporti sociali che avevamo non molti decenni fa , ma in natura esistono pesi e contrappesi, ciò che si è perso si acquista in modalità diversa. Solo soffermandosi nei momenti di riflessione si prende coscienza di ciò che ci accade, ma per pochi istanti poi riprendiamo l'iter di sempre. L'orologio biologico c'è in ogni essere vivente. Come hai già citato doxa il tempo dissolve il superfluo e conserva l'essenziale. In questa frase si racchiudo il segreto della vita, della natura stessa, perché pur essendo perfetta la natura ai nostri occhi, è imperfetta perché nella sua metodologia è alla ricerca di una perfezione anche se transitoria per poi iniziare di nuovo un nuovo adattamento atto alla sua sopravvivenza. In esso racchiude il ciclo della vita che i greci identificavano in Eros e Thanatos.

  12. #12
    Candle in the wind L'avatar di conogelato
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    Bravo! Tutto muore per risorgere: siamo nel periodo giusto. Inverno/Primavera.....Passione/Resurrezione.
    amate i vostri nemici

  13. #13
    Citazione Originariamente Scritto da doxa Visualizza Messaggio
    Carlino, come si impara a vivere?
    ...scusa il ritardo: leggo solo oggi.
    Non é mia abitudine "ignorare" le richieste, anche se imbarazzanti. Altri sono esperti in materia
    E questa lo é.
    Principalmente, perché non é chiara.
    Se fosse una domanda retorica, non comprendo perché sia indirizzata a me personalmente. Salvo se attendi una risposta "giullaresca".
    Quindi, penso sia una domanda "effettiva". Per poterti rispondere coerentemente ho bisogno di un chiarimento: cosa intendi per "vivere"?
    Ho fatto una domanda precisa, e non un maldestro tentativo di "portare a spasso il cane per la capitale batava". Il termine "vivere" ha molti significati, ed il contesto non mi aiuta ad indentificare quello che tu intendi. Quindi, chiariscimi, in sostanza, cosa ti attendi come risposta da me. O dal giullare?

  14. #14
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    Ciao Carlino, hai indovinato, la mia è stata una domanda retorica, un modo indiretto per salutarti e coinvolgerti nel thread nel tuo modo giullaresco. C’è poco o nulla da dire sul significato di “vivere”. Se si vuole allungare il “brodo” è necessario l’ausilio della filosofia

    Durante, condivido le tue riflessioni.

    Fratel Cono ti ringrazio per la risposta, nel contempo permettimi di farti notare che quando lavoravi avevamo il piacere di avere la tua compagnia dalla sera al mattino. Invece da pensionato la tua presenza in questo forum si limita ad un paio d’ore al mattino e fino al venerdì.

    Noi abbiamo bisogno da te di almeno tre visite quotidiane in questa piazza: due ore al mattino, due ore nel pomeriggio e altre due ore prima della tua veglia notturna che di solito trascorri in preghiera. Ti chiediamo solo il minimo sindacale…, perciò cerca di diradare la tua partecipazione in chiesa e al catechismo.

    Toglimi una curiosità: ma con le persone che in parrocchia hanno il tuo stesso fervore religioso come trascorri il tempo ?

    Ora cambio argomento. Ti dedico questo post, che è l’ultimo in questo thread, perché non so cosa altro aggiungere.

    Stasera ti voglio accennare ad un altro Padre della Chiesa: Cassianus. Lo conosci ? Il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a Giovanni Crisostomo.
    In lingua italiana viene denominato Giovanni Cassiano (360 circa – 435). Fu fondatore di monasteri per cenobiti.


    “Giovanni Cassiano”

    Egli diceva che la mente “sembra guidata da incursioni casuali”, il monaco pensa ad altro mentre prega e canta. Anche a te capita ?

    Tale distrazione non è ammissibile: i monaci e gli eremiti debbono avere la “mens intentus”, la mente sempre dedicata alla divinità, tramite la lettura, la preghiera, i canti liturgici, la meditazione.

    Cassiano evidenziava che i cenobiti devono rinunciare alle cose che la maggior parte delle persone amano: famiglia, proprietà, attività commerciali, vita quotidiana, non solo per erodere il loro senso di diritto individuale, ma anche per non farli preoccupare di queste cose durante la preghiera. Quando la mente vaga si sposta l’attenzione verso gli accadimenti, ai problemi che assillano l’individuo.

    Una mente intenta a rimuginare è alla continua ricerca di spiegazioni per cose passate.

    Rimuginare significa non essere in grado di allontanare i pensieri che distraggono. E’ necessario il pensiero intenzionale: permette di dirigere la propria attenzione verso qualcosa di specifico, facilita l’autocontrollo.

    L’attenzione e la concentrazione sono come muscoli. Più li alleni più si rinforzano, dicono.

    Cono se vuoi migliorare la tua concentrazione non devi subire l’attività dei tuoi pensieri, devi imparare a gestirla: devi essere tu il direttore d’orchestra! Ti devi esercitare, allenarti in modo intensivo con continue preghiere.

    Cosa fare nei momenti in cui la concentrazione sta svanendo e la stanchezza prende il suo posto? Non ti preoccupare. E’ un fenomeno fisiologico.
    Il corpo e la mente hanno dei cicli, per cui è normale sentirsi stanchi e spossati, in particolare se non si è allenati a stati di profonda concentrazione.
    Ultima modifica di doxa; 22-03-2024 alle 20:01

  15. #15
    Citazione Originariamente Scritto da doxa Visualizza Messaggio
    Ciao Carlino, hai indovinato, la mia è stata una domanda retorica, un modo indiretto per salutarti e coinvolgerti nel thread nel tuo modo giullaresco.
    Per imparare a vivere, occorre applicarsi alla bisogna, quotidianamente ed a tempo pieno. Senza preoccuparsi dell'esame finale, perché lo passano tutti.
    E poi, tutto sommato, futtetènne: dopo l'esame, quello che hai imparato non ti serve più.

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