“Queer” (2024) di Luca Guadagnino
Anni 50, un americano rifugiatosi a Città del Messico passa da un bar all’altro, posti frequentati da una coorte di persone eccentriche e annoiate. Più di tutti è però uno studente che lo stimola particolarmente, forse perché appare distante e disinteressato oppure per via di una donna che spesso lo accompagna. Riesce comunque a convincerlo a seguirlo in Sud America. Il film, in concorso all’ultimo Venezia, è tratto dall’omonimo libro di William Burroughs e si compone di tre parti e un epilogo. Quella che mi pare più riuscita è la prima dove la regia di Guadagnino si esprime al meglio grazie anche a montaggio e fotografia e a dialoghi che nell’incedere appaiono più letterari che cinematografici, con la rappresentazione della flora di Città del Messico che rende l’idea del personaggio e dello spirito che ha partorito il soggetto originario. Nella seconda e nella terza parte ambientate in Ecuador e poi nella giungla, il film cambia totalmente con un’ambientazione più uniforme e il rapporto tra i due che diventa via via più intimo anche nel condividere esperienze extrasensoriali. L’epilogo vede il protagonista tornare alla base due anni dopo ma da solo. In questa parte ci sono due scene che mi hanno ricordato “2001 A Space Odyssey” di Kubrick; mi chiedo, sono frutto del caso oppure è una citazione volontaria? Ottima l’interpretazione di Daniel Craig, finalmente liberatosi della maschera “di una unica espressione” di James Bond. Soprattutto nelle scene in cui risulta alterato da alcol e droghe sorprende per il realismo della sua recitazione aiutando Guadagnino a creare delle sequenze convincenti. Ho trovato strano invece l’utilizzo di brani moderni (tra cui Nirvana, Prince, anche uno dei Verdena) accanto a quelli d’epoca e alla musica originale di Trent Reznor.

Queer ***