Le mie più profonde scuse a @doxa. Che possa perdonarmi lo sfoggio di ricordi liceali spolverati di castronerie frutto di pretenziosa ignoranza.
Nel corso della storia dell’arte occidentale, in particolare nei periodi romanico, gotico e rinascimentale , i grandi artisti figurativi e architetti lavoravano mossi da autentica fede o da interessi più materiali, come il prestigio sociale o la ricompensa economica ?.
Molti artisti del Rinascimento, da Michelangelo a Raffaello, erano di profonda cultura religiosa, ma non necessariamente conformi all’ortodossia. Alcuni, come Leonardo da Vinci, sembrano aver avuto una relazione più intellettuale e simbolica con la religione. Altri, come Caravaggio, vissero vite turbolente, ben poco esemplari. Ed i committenti : vescovi, papi, confraternite, ordini religiosi dettavano temi, formati, perfino i dettagli iconografici. Quindi...vassapé.
Si puo' concludere che l’artista lavorasse su commissione, ma non scevro da devozione. Andando un po' più a fondo, osservando le opere nei dettagli, per me, 'gnurant doc certificato, emerge una verità più profonda: spesso, sotto il velo della devozione, l’artista cerca l’uomo e piuttosto che mostrare il divino, tende all’umano in tutta la sua complessità. Non "Dio", ma se stesso.
Nel Medioevo, i cicli pittorici e scultorei sono “Bibbie per analfabeti”; le cattedrali gotiche sono teologie visive. L’arte non è autonoma, ma funzionale: educa, converte, consola. Eppure, già in queste opere, per esempio,i capitelli istoriati di Autun o i volti scolpiti a Chartres, compaiono espressioni, posture, gesti che parlano di debolezza, ironia, stupore, compassione. L’artista, pur all’interno di uno schema imposto, inserisce frammenti di umanità viva, talvolta persino dissonante.
Le cattedrali gotiche, i cicli pittorici medievali, le pale d’altare rinascimentali: tutte queste opere si presentano come manifestazioni del sacro. Ma non il sacro in quanto tale, ontologico (l'ho detto !),ma, piuttosto il "vissuto" dell’uomo davanti al sacro. La svolta si avverte chiaramente nell’iconografia cristiana stessa. Il Cristo pantocratore bizantino, distante e ieratico, lascia progressivamente spazio al Cristo sofferente, umiliato, crocifisso. Giotto lo mostra crollato nel dolore, Masaccio lo inserisce in prospettiva tra uomini reali, Donatello scolpisce una Maddalena scheletrica, devastata dal digiuno e dalla colpa.
Queste immagini non si limitano a trasmettere dottrina: mettono in scena l’esperienza umana, del corpo sofferente, , della perdita, della misericordia. Quando Caravaggio ritrae San Matteo o San Tommaso, non li idealizza: li sporca, li rende dubitanti, li illumina con la luce della verità umana prima ancora che teologica. Il “Dubbio di Tommaso” non è un’eresia visiva, ma un’esaltazione della condizione umana come luogo in cui Dio potrebbe manifestarsi.
Il volto di una Madonna non è solo teologico: è materno, triste, fragile. Il corpo di Cristo crocifisso non è soltanto il simbolo di una redenzione: è carne ferita, dolore tangibile, morte reale. Quando Giotto dipinge la Deposizione o Masaccio rappresenta l’Espulsione dal Paradiso Terrestre, ciò che colpisce non è l’astrattezza del dogma, ma la concretezza della disperazione, del pianto, della perdita.
Anche nelle immagini più solenni, come quelle dei Giudizi Universali o delle Assunzioni, il centro emotivo e visivo resta l’uomo: salvato o dannato, estatico o terrorizzato, nudo, vulnerabile, esposto. Il linguaggio del sacro serve dunque non tanto per affermare Dio, ma per indagare e sottolineare l'umano.
Poche figure esemplificano questa tesi come Michelangelo . La sua opera è impregnata di riferimenti religiosi, eppure ciò che la rende grande non è la dottrina, ma il conflitto interiore che essa esprime. Il Giudizio Universale nella Cappella Sistina è teologicamente ortodosso, ma visivamente umano, impietoso, inquieto. I corpi non salgono al cielo: combattono, crollano, si aggrappano. con volti attoniti verso il Cristo giudice, apollineo e inquietante, terribile e non consolatore. Non è un Dio misericordioso quello che appare, ma un’entità che giudica senza parole, mentre l’umanità si torce, precipita, si dispera.
Ancora più toccante è la Pietà Rondanini, in cui l’artista ritrae se stesso come Nicodemo che sorregge Cristo morto. Qui, Dio è assente. Resta l’uomo che regge un altro uomo: il peso della morte, dell’amore, dell’incomprensibile. È il gesto di chi cerca di dare senso al dolore, non attraverso la fede, ma attraverso l’arte. In Michelangelo, l’uomo cerca se stesso attraverso la carne e il tormento, non attraverso una rivelazione mistica.
Anche Leonardo da Vinci, scettico verso le religioni organizzate, curioso di tutto, pur lavorando su commissioni religiose, trasforma ogni soggetto sacro in una riflessione sull’umano. Nella sua Ultima Cena, gli apostoli reagiscono in modo differente all’annuncio del tradimento: ciascuno esprime un moto psicologico, un’introspezione, un carattere. Non sono figure esemplari di virtù cristiana: sono uomini colti nel mezzo della crisi.
Nella Gioconda, il mistero non riguarda Dio, ma l’identità e la coscienza: chi è questa donna? Cosa cela il suo sorriso? Qual è il rapporto tra l’anima e il corpo? Leonardo usa la pittura non per glorificare un trascendente, ma per registrare l’enigma dell’immanenza. (frase annotata a suo tempo nel libro di Storia dell'Arte, rispolverato per l'occasione)La sua arte è uno specchio dell’intelligenza umana, della sua complessità, dei suoi chiaroscuri.
Con Caravaggio, la tesi si fa ancora più netta. La sua pittura è brutale, realistica, drammatica. I suoi santi non hanno aureole evanescenti, ma piedi sporchi, mani tremanti, corpi segnati dalla fatica e dalla colpa. Il Dubbio di San Tommaso non è una rappresentazione della verità divina, ma l’esaltazione del dubbio umano come condizione esistenziale. Tommaso infila il dito nel costato di Cristo non per credere, ma per toccare, per sapere, per comprendere con i propri sensi.
Anche quando rappresenta la Vergine o i martiri, Caravaggio non idealizza: umilia, abbassa, espone. La luce taglia il buio come la coscienza taglia la tenebra dell’ignoranza. La fede non è il punto di partenza, ma un esito incerto, sofferto, mai garantito. L’arte, qui, è il teatro di una ricerca disperata dell’umano in sé, non del divino fuori di sé.
Anche l’architettura, nella sua imponenza, racconta la stessa storia. Le cattedrali gotiche – da Chartres, Reims, Notre-Dame – sono costruite per sollevare l’anima, ma non attraverso dogmi: attraverso la luce, la verticalità, il suono. L’esperienza estetica è l’esperienza di un’emozione umana che si apre al mistero, non la contemplazione di un’entità esterna.
Nel Rinascimento, l’architettura diventa ancora più esplicita: la misura è quella dell’uomo. Il modulo è il corpo umano. La bellezza è armonia, proporzione, equilibrio. Alberti e Brunelleschi progettano chiese non per esprimere Dio, ma per rappresentare un mondo intellegibile, razionale, accessibile alla mente e ai sensi dell’uomo.
Quindi l’artista, quando sembra cercare "Dio", trova l’uomo. La sua arte non è semplicemente rappresentazione della divinità, ma scavo nella condizione umana davanti al mistero. Le opere religiose più potenti sono quelle in cui "Dio" non è solo gloria, ma assenza, attesa, silenzio.
Quando Rembrandt dipinge parabole evangeliche, lo fa con i volti dei suoi vicini. Quando El Greco deforma i corpi, lo fa per esprimere uno slancio spirituale che parte dall’interiorità. Quando Giotto abbraccia San Francesco con l’angelo, non ci mostra un miracolo, ma una verità emotiva: la possibilità di contatto tra carne e luce, tra dolore e sentimento.
Questa tensione non si esaurisce con l’arte sacra. Anche l’arte profana, nelle sue forme più alte, partecipa della stessa dinamica. Quando Rembrandt dipinge i suoi autoritratti, non cerca "Dio": cerca se stesso che invecchia, soffre, spera, si disillude. Quando Goya mostra gli orrori della guerra, non denuncia solo un male storico, ma l’abisso umano.
L' arte, anche quando non ha oggetto religioso, si rivolge all’interiorità, alla coscienza. È sempre un gesto di interrogazione. Come se l’artista dicesse: “Chi sono? Cosa significa essere? Come si vive, si ama, si muore?”. Il sacro, in questo contesto, può essere un linguaggio, un codice, ma non è la meta: è uno specchio.
Da tutto questo, si può trarre la certezza, una prova, o almeno un indizio, dell’esistenza di un "Dio"? In senso razionale e logico, no: l’arte sacra non è una dimostrazione metafisica, né un argomento teologico. Ma in un certo senso, come esperienza e vissuto, sì: l’intensità emotiva, il mistero delle forme, la capacità dell’opera d’arte di commuovere, inquietare, elevare, può essere intesa come traccia, di qualcosa che superi l’umano pur parlando attraverso di esso.
In questa prospettiva, l’arte non prova "Dio", ma lo cerca. O forse meglio: cerca l’uomo nell’atto di cercare "un Dio."E in questo atto lascia trasparire una domanda che può essere letta in chiave religiosa, ma anche umanistica, filosofica, esistenziale.
In definitiva, le grandi opere d’arte e architettura, sacre o profane che siano, non ci dicono se un "Dio" esista o meno. Ma ci mostrano con chiarezza che l’uomo esiste, e che la sua esistenza è inseparabile dal desiderio di comprendere se stesso. In questo senso, non è "Dio" (quale possa essere il significato dato al termine) il fine dell’arte, ma la profondità della domanda umana che, da sempre, cerca di ascoltare se stessa.
L’arte non è la voce di Dio, ma l’eco della domanda.
L’arte non risponde “Dio c'è”, ma chiede: “Chi sono io?”