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Fate largo all’artista donna (ma solo dopo 40.000 anni di silenzio, grazie)
Allegato 37414 chauvet-horses-weston-westmoreland.jpg
Nella grotta Chauvet , sono presenti numerose impronte di mani , segni geometrici, animali dipinti e impronte di piedi umani. Di 36000 anni fa, circa. Analisi biometriche dicono che potrebbero appartenere a individui di sesso femminile, contrariamente all’ipotesi tradizionale che attribuiva tali tracce a giovani maschi.
Nella grotta del Tuc d’Audoubert, più recente: circa 17.000 anni fa, sono state rinvenute due grandi sculture di bisonti modellate in argilla, insieme a centinaia di impronte umane nel pavimento argilloso.
Tra queste, spiccano impronte di talloni , tracciati digitali sulle pareti e nell'argilla usata per la scultura, nonché segni geometrici. Le dimensioni e proporzioni di alcune impronte suggerivano la presenza di ragazzi o adolescenti, che pero' potrebbero essere, invece, di adulti di genere femminile.
In entrambi i siti si rilevano elementi compatibili con pratiche rituali o simboliche, inclusi motivi ricorrenti, profondità difficilmente accessibili e assenza di funzione abitativa. Oggi, nelle società di cacciatori-raccoglitori contemporanee ancora esistenti, il ruolo delle donne non è limitato alla cura e alla sussistenza, ma include spesso attività rituali, decorative e simboliche. Quindi é realistico pensare che nella preistoria le donne svolgessero pratiche rituali, simboliche e sciamaniche: che fossero narratrici o "memorie viventi". Insomma, come le "vecchie zie", depositarie della storia della famiglia, nel secolo scorso, in qualche supestite "famiglia all'antica".
Le evidenze archeologiche e biometriche sostengono questa possibilità, che donne abbiano preso parte attiva, se non centrale, alla produzione artistica e simbolica paleolitica, mettendo in discussione l’assunto (implicito) secondo cui l’arte rupestre sarebbe stata esclusivo appannaggio maschile.
Perché sì: forse all’alba dell’Homo sapiens, (sapiens)² o neanderthaliano, o altro, nel silenzio sacro di una grotta dove l’eco risponde solo a chi ha visioni, furono proprio mani femminili a disegnare cavalli, formare bisonti, lasciare spirali e impronte nell’argilla o sulle pareti.
C’era una volta una signora preistorica con senso della composizione che, invece di accendere il fuoco o partorire il futuro del clan tra due sassi, si mise a disegnare scene di caccia su una parete. O a modellare bisonti d'argilla o forse anche una linea espressiva di astrattismo ante litteram.
No, non era il maschio alfa, peloso con la clava, occupato a lottare con l’igiene personale e l'orso delle caverne
Nessuno glielo disse, ma era una femmina sapiens con gusto estetico. Ed una coscienza.
E nessuno glielo dirà mai, tranne ora, ché siamo nel tempo del riscatto e della rivincita storica e tutto ciò che è donna è anche vero, bello e giusto per definizione.
Dal Paleolitico in poi, dell’artista donna si perde ogni traccia. Probabilmente, potenzialmente, ce n'erano. Ma, probabilmente, per “forze strutturali maschiliste”, le signore dell’arte hanno deciso (spintaneamente?
) di passare il testimone. A chi? Ma agli uomini, ovviamente. Quelli col pennello più grosso.
Cosa è successo? Nulla di strano: è iniziata la civiltà. Cioè, l’organizzazione sistematica dell’oppressione a suon di toga, religione, copyright maschile e “non è un lavoro da femmine”.
Breve excursus storico
Durante l’antichità, la situazione è chiara: l’arte è un mestiere manuale, poco nobile, ma comunque interdetto alle donne.
In Grecia, patria della democrazia, della filosofia e della scultura a gluteo levigato, dove si scolpiscono dei con le chiappe perfette, la modella nuda può anche essere una ninfa o una schiava, ma la scultrice é un oggetto misterioso, non pervenuto.
I romani? Idem. Mentre loro disegnavano mosaici con le scene della caccia, le romane disegnavano strategie matrimoniali, come muse ispiratrici
Poi arrivano il Medioevo : tutto è simbolo, allegoria, misticismo. E lì qualche monaca copista si fa viva: miniature, codici, fregi... Ma attenzione, senza firmare, per carità! Umiltà cristiana. O strategia di sopravvivenza?
Comunque, le donne in convento possono disegnare, purché lo sappiano solo Dio e il confessore. Se firmavano un’illustrazione, era peccato d’orgoglio. Se disegnavano bene, venivano accusate di stregoneria. Si chiama "libertà d"espressione".
Salto temporale. Rinascimento. È l’epoca dell’Uomo Universale. E dell’artista uomo. Michelangelo, Raffaello, Leonardo: i ninja della pittura. E le donne? Se volevano dipingere, dovevano essere figlie d’arte, vedove di pittori o miracolosamente tollerate.
Artemisia Gentileschi è l’eccezione: talentuosa, sì, ma anche stuprata, processata, tormentata. In pratica, per poter dipingere doveva subire prima tutta la trafila del martirio. Come dire: vuoi un pennello? Prima passami sul rogo.
Nel frattempo, le accademie (quei luoghi sacri dove si studia l’anatomia maschile nuda con la scusa dell’arte) restano rigorosamente vietate alle donne. Per pudore, si diceva. Per salvare le fanciulle dallo scandalo di vedere un pene in marmo (e fare, magari, amare riflessioni
)
E così, per secoli, la donna artista resta una leggenda urbana. Ogni tanto ne salta fuori una: magari in un salotto, in una cantina, o come insegnante di acquerello alle figlie dei nobili. Ma mai nei grandi nomi. Mai nei manuali. La loro arte? “Delicata”. “Intima”. “Femminile” (che è come dire: carina, ma lascia fare agli uomini quando si tratta di affrescare la Cappella Sistina).
Nel XIX secolo, con l’avvento dell’arte borghese, le cose cambiano. In peggio. Le donne possono frequentare le accademie, ma senza studiare il nudo maschile, perché si sa, vedere un pene può compromettere la composizione (e far nascere problemi familiari
).
Così, mentre i colleghi maschi dipingono rivoluzioni, miti, tragedie e fallocentrismi in grande scala. Le donne possono dipingere nature morte, fiori, gattini. Cose “delicate”. Ma guai a pensare a un nudo virile dipinto da mani femminili: pornografia o isteria, a scelta.
Poi arriva il Novecento, con il suo carico di ismi (futurismo, cubismo, surrealismo...) e finalmente qualcosa si muove. Le donne cominciano a firmare quadri, a fondare movimenti. Ma la critica le ignora, o le riduce a “mogli di”. Frida Kahlo? “La moglie di Rivera”. Lee Krasner? “La moglie di Pollock”. Merito individuale? Solo dopo la morte. Preferibilmente sotto vetro, in mostra postuma.
E oggi? Oggi viviamo nell’epoca della riparazione simbolica. La donna artista viene riscoperta, esaltata, premiata. A volte anche quando l’opera è tremenda, purché sia una donna. Perché l’arte femminile, da invisibile, è diventata intoccabile. Se osi dire che un’opera di un’artista donna è brutta, ti ritrovi un’accusa di sessismo e la galera a vita. Per te ed i discendenti. Se ne hai, ed anche se non sono tuoi.
E qui nasce il sublime paradosso : prima le donne non potevano fare arte perché donne, ora sono artiste per forza, sempre, comunque e a prescindere. Per definizione. L’eccellenza femminile non è più una possibilità, è un dogma. Ogni mostra dev’essere bilanciata, ogni giuria deve avere una quota rosa, ogni Biennale ha una sezione “Donne e…” .
Non parliamo dei premi, riconoscimenti, presidenze.
Fino a quando non arriva il femminismo, che con la delicatezza di un carro armato decide di riscrivere la storia: "D’ora in poi si contano le donne nei musei, nelle gallerie, nei cataloghi, nei nomi delle strade e delle piazze".
Esplode la grande vendetta culturale: le artiste emergono, e sono brave. Tutte solo e soltanto brave. O bravissime. Salvo le Eccellenti. In sostanza, tutte. e comunque.
Sarà mica che, represse per millenni, hanno accumulato genialità in silenzio? Oppure sarà che erano loro le vere maestre dell’immagine fin dall’inizio, ma il patriarcato ha usato la gomma da cancellare con più zelo che il carboncino?
Il problema, oggi, è che la narrazione è diventata così correttiva da essere caricaturale. Ogni pittrice del passato diventa automaticamente “grande”, anche se dipingeva carote che sembravano bohvassapé.
E ora, nel tentativo di recuperarle, le abbiamo incastonate in un altare moralista da cui è più difficile uscirne che entrare.
Il vero rispetto? Farle tornare umane.
Libere di essere grandi, scarse, mediocri, geniali, volgari, insopportabili, folli: come tutti gli uomini che l’arte l’hanno fatta male, bene o malissimo per secoli.
Concludendo (prima della lapidazione e rogo)
Più si cerca di “recuperare” la donna artista, più si rende evidente il dislivello storico. Non perché le donne fossero incapaci, anzi, è ovvio che non lo fossero, ma perché lo erano troppo per il contesto. Talmente brave da non poter esistere, se non in ombra. E allora meglio dire che non c’erano, piuttosto che confessare che il sistema temeva la concorrenza.
E così, da Chauvet/Tuc d'Augoubert a oggi, l’arte femminile è passata da invisibile a iconica. Solo che nel mezzo c’è stato il blackout programmato. Ora lo chiamiamo “pregiudizio”. Prima si chiamava “ordine naturale delle cose”.
Conclusione: se l’arte è il riflesso della civiltà, allora per millenni ci siamo specchiati in uno specchio truccato. E oggi, mentre celebriamo le artiste risorte dai silenzi della storia, possiamo anche sorridere, ironicamente, sapendo che, alla fine, la vera superiorità era là, in quella grotta.
Perché là c'é l'evidenza della nascita della "coscienza umana".
https://discutere.it/showthread.php?...grotta-chauvez
https://fr.wikipedia.org/wiki/Grotte..._d%27Audoubert
Ultima modifica di restodelcarlino; Ieri alle 15:55
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Opinionista
E' un paradosso: anche se l'arte è piena di donne, in netta maggioranza rispetto agli uomini - donne scolpite, affrescate, ritratte - pochissime sono state quelle che, nel corso dei secoli, hanno avuto l'opportunità di emergere e di fare dell'arte una professione. Le ragioni sono molteplici; alcune, ce le spiega Umberto Eco in questo divertente brano tratto da una sua vecchia "Bustina di Minerva" (la rubrica che teneva su "l'Espresso"), datata 19 aprile 2005:
«La vecchia affermazione filosofica per cui l'uomo è capace di pensare l'infinito mentre la donna dà senso al finito, può essere letta in tanti modi: per esempio, che siccome l'uomo non sa fare i bambini, si consola coi paradossi di Zenone. Ma sulla base di affermazioni del genere si è diffusa l'idea che la storia (almeno sino al Ventesimo secolo) ci abbia fatto conoscere grandi poetesse e narratrici grandissime, e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche.
Su distorsioni del genere si è fondata a lungo la persuasione che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. È naturale che, sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un'impalcatura con la gonna non era cosa decente, né era mestiere da donna dirigere una bottega con 30 apprendisti, ma appena si è potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si è fatto vivo Chagall.
È vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinità non doveva essere rappresentata per immagini, ma c'è una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici. Il problema è che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della Chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissioni, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa».
In Europa la comparsa di donne artiste delle quali si abbia una sufficiente documentazione risale al Rinascimento, intorno alla metà del Cinquecento. La spiegazione di questa carenza di autrici prima di quella data si può trovare nell'analisi del ruolo della donna europea nell'antichità e nel Medioevo. Secondo la tradizione, la donna era destinata a vivere tra le mura domestiche: da ragazza, sotto la tutela del padre; da adulta, sotto quella del marito. Suoi principali doveri erano quelli di essere una buona moglie e madre, oltre che un'abile massaia; le pochissime donne che sfuggivano a questo destino erano una rara eccezione alla regola. E l'età medioevale non faceva eccezione: le poche donne che riuscivano a scampare alla vita del convento si fidanzavano quand'erano poco più che bambine e, mediamente, a quindici anni erano già madri. Quasi tutte, nubili o sposate, si dedicavano ad attività familiari e il frutto del loro lavoro apparteneva solo agli uomini: ai padri, ai fratelli, ai mariti.
Le donne, dunque, dovettero scontrarsi nel corso della storia con una dura vita di lavoro, oltre a dover lottare contro gravi pregiudizi. Per esempio, era convinzione diffusa che l'istruzione interferisse con le qualità necessarie per essere una buona moglie e madre; quindi, la quasi totalità delle donne era analfabeta. Prima del Trecento, oltre ad accudire i figli, la famiglia e custodire il focolare domestico, le donne meno abbienti lavoravano nei campi a fianco degli uomini, coltivavano verdura e frutta, allevavano animali da fattoria, producevano formaggio e birra, si occupavano della preparazione e della conservazione dei cibi. Molte di loro, inoltre, si dedicavano alla fattura di tessuti in casa: cardavano la lana, la filavano e la tessevano. Date queste premesse, è chiaro che un'attività lavorativa al di fuori dell'ambiente casalingo fosse pressoché impensabile.
Solo le poche fortunate che facevano parte dell'alta società o dell'aristocrazia sfuggivano alle fatiche del lavoro nei campi o alle incombenze domestiche e potevano dedicarsi al ricamo e all'arazzo, una prima forma d'arte che richiedeva una notevole manualità. Alcune regine - ma anche semplici dame di corte - sono ricordate per la loro abilità nel tessere, grazie alla quale producevano stole, paramenti e stendardi che tuttora si trovano in molte chiese medievali.
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