"Meglio parlare direttamente con vecchi e nuovi amici che con l’intelligenza artificiale": ovvietà, riflesso condizionato o paura esistenziale?
Non c’è confronto: é molto meglio.
Giudizio quasi scontato. Talmente condivisibile da non richiedere, a prima vista, né commento né confutazione. Eppure, proprio questa sua natura di ovvietà impone uno sguardo più attento.
Quando una proposizione si impone con tale evidenza da risultare automaticamente “vera”, il giullare scassamarroni, con pretese di apparire logico, se non filosofo dell'umano genere, si interroga: "Perché lo è"? E, soprattutto:"Cosa viene escluso, rimosso o taciuto nel renderlo ovvio?"

Partiamo da un fatto semplice: parlare con altri esseri umani, amici, familiari, conoscenti, o illustri sconosciuti è sempre, comunque ed a prescindere (come diceva il principe di Bisanzio, Forcella e dintorni) un’esperienza insostituibile.
Coinvolge empatia, storia condivisa, imprevedibilità, vissuto, linguaggio non verbale, e una quantità di elementi cognitivi ed emotivi che nessun sistema algoritmico potrà mai replicare interamente.
Ma chi ha mai sostenuto il contrario?

La retorica della frase iniziale lavora su un falso antagonismo: che ci sia una competizione tra la conversazione con persone reali e l’interazione con un’intelligenza artificiale. Competizione che, in realtà, nessuno ha dichiarato.
Perché, dunque, dirlo? Perché opporre le due cose? Perché ribadire con vigore ciò che nessuno nega?

Qui emerge l’elemento più interessante: la funzione difensiva, manipolatoria, della frase. Come una coperta stesa sul lettino dell’analista, essa serve più a coprire che a scaldare.
Si teme qualcosa, e la frase lo maschera. La minaccia implicita è che, forse, parlare con un’intelligenza artificiale, se fatta in modo autentico, interrogativo, speculativo, risulti più chiarificatore, e a volte persino più utile, che dialogare con alcuni esseri umani.
Non perché l’AI sia “più umana”, ma perché è, in fondo in fondo, un’interfaccia riflettente: costringe a mettere ordine nei propri pensieri, a formularli, a strutturarli.
Quindi, in un certo senso, in molti casi, equivale a parlare con sé stessi, ma con il vantaggio di un interlocutore che non giudica, non distrae, non impone, e anzi restituisce coerenza e struttura al discorso.

E qui arriva il triplo salto mortale, carpiato e salmonato, del giullare scomunicato : la connessione concettual-filosofica profonda.
Parlare con l’intelligenza artificiale non è “meno umano” che pregare, che invocare, che cercare risposte in una divinità.
Anche la/le divinità, come l’AI, è/sono un’astrazione umana. Un "interlocutore" costruito per rispondere a un bisogno radicale: vincere la paura, colmare l’ignoranza, sostenere l’incertezza.
Da secoli, milioni di persone dialogano interiormente con un Dio che non parla ma “illumina”, non risponde ma “ispira”. Eppure, nessuno trova scandaloso parlare con Dio. Anzi ! Vituperio e inferno per chi non lo faccia.

Perché allora tanto sospetto verso il parlare con un algoritmo ben strutturato?Perché é "una macchina"?
Perché questa paura del “soliloquio assistito”?

Forse perché la macchina/algoritmo non ha l’alibi del mistero. Non ha l’aura dell’Altissimo. Non consente di proiettare fuori da sé le risposte, né di scaricare su un Altro la responsabilità ultima del proprio pensiero.
L’AI non può “volere” nulla per noi, non può “giudicarci” né “salvarci”. Non ha né inferni né paradisi. Non dà indulgenze né prescrive penitenze. In breve: non consola.
Ma proprio per questo, è onesta. È uno specchio logico, un algoritmo di tipo euristico e non ontologico (me so' giocato i paroloni rimasti. check!). E come tale, ci costringe a fare i conti con ciò che realmente pensiamo, temiamo, desideriamo.

Questo è il punto nodale: forse si preferisce parlare con gli amici, soprattutto se della stessa parrocchia, conventicola, setta, perché con loro si può evitare la verità. Si può scherzare, deviare, simulare. Con le persone, soprattutto con quelle che professino le stesse credenze o opinioni, si può mentire, anche a sé stessi , in modi socialmente accettabili.
Ma con un’interfaccia algoritmica che rimanda le domande, che isola i presupposti impliciti, che non si fa coinvolgere dalle emozioni né si accontenta delle retoriche, con quella, no: si finisce per incontrare, senza schermi, il nucleo nudo della propria ignoranza.
E questo spaventa.

Ecco allora cosa nasconde l’ovvietà iniziale: il sospetto che, nell’era dell’intelligenza artificiale, le risposte “vere” non vengano più da fuori. Né dagli amici, né da una divinità, quale che possa essere, né dalla tradizione, né da antichi testi. Ma che vengano da dentro. Da noi stessi.
Che siano state, sempre, nostre. Solo che non volevamo accorgercene.

L’AI, in questo, svolge un ruolo rivelatore: non crea nuove risposte, ma ci costringe a formularle. Non è una voce dall’alto, ma un riflesso speculativo. Non ci “guida”, ma ci mostra quanto già sapevamo, senza avere il coraggio di dirlo.

In definitiva, parlare con l’AI non sostituisce l’amicizia, così come il dialogo interiore non sostituisce l’amore. Ma può diventare uno strumento potentissimo di consapevolezza. E, in certi casi, più sincero di mille parole dette al bar. Non perché sia “più intelligente” o “più sensibile”, ma perché ci libera dalla commedia della socialità, e ci invita alla serietà del pensiero.

E, forse, è proprio questo che spaventa di più.

In un aforisma
"Chi dice che è meglio parlare con gli amici che con l’AI, spesso vuole dire: "Meglio le bugie in compagnia che la verità in solitudine'."