L’Italia, sta invecchiando,…ma i motivi di tale fenomeno sono molteplici.
Nelle società moderne, i genitori tendono a investire maggiormente sui bisogni dei propri figli in termini sia economici sia di tempo. Questo investimento ha portato, rispetto al passato, a uno scambio tra quantità (numero dei figli) e qualità (tempo e denaro impiegato per la loro crescita).
Un altro fattore di cui tenere conto si evince dalle norme che si instaurano all’interno della famiglia e nella società. L’idea è che ci sia una relazione tra tasso di fecondità totale ed equità di genere rappresentato dal passaggio da una società caratterizzata da un modello patriarcale “classico” , in cui i ruoli di genere sono tradizionali e dove la maggioranza della popolazione (donne comprese) accetta una divisione del lavoro disuguale e il tasso di fertilità è alto ad uno più attuale dove la rivoluzione femminile ha raggiunto uno stadio avanzato, ma la società non si è ancora adattata e le donne adottano la strategia di exit, riducendo il numero dei figli per competere maggiormente nel mondo del lavoro.
Le istituzioni hanno accettato questa visione della divisione equa dei ruoli sia all’interno della famiglia sia all’interno del mondo del lavoro e ciò si riflette in una società che offre pari opportunità e nella quale, di conseguenza, le donne riescono maggiormente a conciliare vita e lavoro.
Per spiegare il declino della fecondità si può ricorrere ad un’altra argomentazione: la popolazione giovanile sperimenta sempre più tardi l’uscita da casa dei genitori, la formazione di un’unione stabile e, quindi, il diventare a propria volta genitori. In tutti i Paesi occidentali, i giovani-adulti tendono a intraprendere percorsi di studio più lunghi e a entrare, quindi, nel mondo del lavoro più tardi. Inoltre, il rinvio della formazione della famiglia può portare alla rinuncia a diventare genitori .
L’età media delle donne al parto infatti è salita negli ultimi anni in tutti i Paesi e, secondo Istat, in Italia è pari a 31,7 anni.
Questo continuo rinvio della data di natalità in alcuni Paesi, come l’Italia, dove i servizi per l’infanzia sono scarsi, distribuiti in modo disomogeneo sul territorio e relativamente costosi, si manifesta con particolare evidenza anche a causa della difficoltà nel conciliare il lavoro extradomestico con la cura verso i figli, e ciò porta inevitabilmente al fenomeno delle culle vuote. Nel sud Europa, il ritardo in tutti gli eventi cruciali del corso di vita, è infatti particolarmente intenso ed è acuito dagli alti tassi di disoccupazione, dalla carenza nell’offerta di alloggi a prezzi accessibili, e dalla mancanza di politiche di supporto alla natalità.
La popolazione residente non solo diminuisce ma, contemporaneamente, è sempre più vecchia, sempre a causa del calo della natalità.
In questo contesto, a causa sia della riduzione delle nascite sia della numerosità delle nascite del cosiddetto “baby boom”, ovvero degli individui nati intorno alla metà degli anni ’60 continuano a rappresentare la parte quantitativamente più consistente della popolazione.
Questo non è un fenomeno solo italiano. Le proiezioni mostrano infatti come in Europa il “rigonfiamento” dovuto ai baby boom stia cambiando le proporzioni delle fasce d’età, lasciando sia la fetta della popolazione in età lavorativa sia la base di una ipotetica piramide ( le persone di età compresa tra 0-14 non possono essere occupate) sempre meno numerose. Tutto ciò comporterà sempre di più una pressione sui sistemi di protezione sociale (come il sistema pensionistico e il sistema sanitario) dovuta da una parte a un incremento della popolazione anziana e dall’altra a una diminuzione della popolazione attiva su cui ricadranno oneri sempre maggiori.
Le sfide crescenti della conciliazione alla luce dei mutamenti in atto comportano fenomeni come quelli per cui, in Italia, oltre 1 mamma su 2 affida regolarmente i propri figli ai nonni e quasi 1 mamma su 3 rinuncia a mandare i figli all'asilo nido perché la retta è troppo cara.
Molte ricerche hanno dimostrato che la disponibilità di enti statali e non di cura dei figli (come gli asili e i dopo-scuola) è associata negativamente col coinvolgimento dei nonni come fonte principale nella cura dei nipoti. Gli investimenti pubblici nei servizi di cura della prima infanzia, tuttavia, variano notevolmente da Paese a Paese così come le politiche che incentivano l’occupazione delle donne. Negli Stati in cui l’occupazione materna è favorita e il ruolo dei nonni limitato a casi particolari, la cura degli infanti è abbondante e il welfare è sostenuto.
Tuttavia il ritardo nell’età di pensionamento potrebbe impedire agli anziani un così pieno coinvolgimento in futuro. Inoltre, poiché i nonni oggi sono mediamente più anziani di qualche decennio fa, anche un peggioramento dello stato di salute potrebbe ridurre le loro capacità di svolgere un ruolo di cura. Per questo motivo, nonostante i nonni fino ad ora abbiano sostituito o siano stati complementari all’offerta pubblica, né le famiglie né il sistema di welfare devono darli per scontati.
Nei Paesi scandinavi, per esempio, lo Stato si assume una larga quota di responsabilità, specialmente di cura, presentando quindi un alto grado di defamilizzazione perché fornisce servizi pubblici, o finanziati con denaro pubblico, sia per bambini piccoli sia per anziani fragili. Nel caso di bambini piccoli, inoltre, vi è anche un livello elevato di familismo sostenuto, soprattutto tramite congedi relativamente lunghi e remunerati.
Al polo opposto, ci sono i Paesi (tra cui l’Italia) in cui le misure di defamilizzazione sono ridotte, per cui il sostegno intergenerazionale è cruciale. Inoltre, la ridistribuzione di tempo/cura sono sia di tipo discendente (dai genitori e dai nonni verso i figli e nipoti), sia di tipo ascendente (dai figli adulti verso i genitori anziani). Per questo motivo, la generazione di mezzo, soprattutto le donne, è chiamata “generazione sandwich”, a indicare che suddivide il proprio tempo e cura fra i due estremi della catena generazionale. In Italia, quindi, se non ci fossero i nonni, le madri e i padri avrebbero ancora più difficoltà nel conciliare famiglia e lavoro e questo causerebbe ulteriormente un decremento del tasso di fecondità delle giovani coppie.
Inoltre, se i nonni rimangono l’unica possibilità per la cura dei nipoti ed esistono poche altre alternative, siamo di fronte a una diseguaglianza sociale creata da un welfare fai-da-te, dove solo chi ha i nonni, e dove questi siano anche disponibili a offrire il loro tempo, è in grado di raggiungere le proprie intenzioni di fecondità; gli altri devono rimandare la nascita di un figlio, attendendo circostanze economiche più favorevoli, rischiando di essere parte del fenomeno delle culle vuote. Infatti, se è vero che un welfare generoso non indebolisce la solidarietà familiare è anche vero che, dove manca il supporto intergenerazionale, lo Stato deve attuare politiche che permettano alle famiglie, che non possono affidarsi agli anziani, eguali diritti. Il sistema sociale non può e non deve essere esautorato dalla solidarietà intergenerazionale.