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Il lavoro in turno: chi era costui?
...una riflessione mentre "lavoro" (si fa per dire, né
)
Il lavoro a turni rappresenta una componente fondamentale della struttura produttiva ed economica moderna. È un meccanismo che consente la continuità dei servizi essenziali e della produzione industriale, assicurando il funzionamento ininterrotto di settori strategici come la sanità, i trasporti, l’industria manifatturiera e la logistica. Tuttavia, a dispetto della sua rilevanza strutturale, esso continua a ricevere una scarsa valorizzazione sociale, economica e simbolica. In Italia e in Europa, milioni di persone lavorano a orari discontinui o notturni, spesso senza che ciò si traduca in un adeguato riconoscimento, né economico né in termini di prestigio professionale.
Secondo i dati di Eurostat (2023), circa il 21% dei lavoratori europei è coinvolto in qualche forma di lavoro a turni, con picchi che superano il 30% nei settori industriali e sanitari. In Italia, l’Istat riporta che nel 2022 circa il 18% della forza lavoro complessiva è occupata con orari discontinui, ovvero in regime di turnazione (inclusi i turni notturni e festivi). Questa percentuale aumenta sensibilmente nel comparto industriale, dove si supera il 35% tra operai e addetti alla produzione, e nei servizi essenziali (sanità, sicurezza, trasporti pubblici), dove almeno un lavoratore su quattro è coinvolto in una forma di "turnazione".
La distinzione tra operai e impiegati è altrettanto significativa: nel lavoro a turni, la quota di operai è decisamente predominante, soprattutto nell’industria manifatturiera e nella logistica, mentre tra gli impiegati la turnazione riguarda in prevalenza figure professionali della sanità, del controllo (come forze dell’ordine) o di soccorso (come i pompieri) o dei trasporti. In generale, tuttavia, chi lavora a turni appartiene a una fascia della popolazione lavorativa meno rappresentata nei processi decisionali e con minori margini di contrattazione autonoma.
Il lavoro in turni comporta costi biologici, psicologici e sociali documentati da numerose ricerche: disturbi del sonno, maggiore esposizione a patologie cardiovascolari, difficoltà nelle relazioni familiari, stress cronico. Eppure, nel "grande pubblico", nei media, chi lavora a turni resta spesso ai margini della visibilità. La retorica del "lavoro che nobilita" tende ancora a premiare forme di lavoro diurno, mentre il lavoratore notturno o del weekend è visto come una figura di necessità, non di valore. E questo, fa riflettere.
Questo squilibrio si riflette anche sul piano simbolico. L’infermiere di notte, l’operaia del sabato, il tecnico della manutenzione che lavora alle 3 del mattino per garantire che la catena non si fermi...tutte queste figure non godono di uno statuto sociale corrispondente all’impatto reale del loro lavoro. In molti casi, nemmeno sul piano retributivo esiste una vera compensazione: gli incentivi per il lavoro notturno o festivo, benché esistano nei contratti collettivi, risultano spesso marginali rispetto al disagio che implicano.
Il fattore più importante, pero' é il riconoscimento ,che manca
La scarsa valorizzazione del lavoro a turni è una forma strutturale di disuguaglianza professionale. Non si tratta solo di una questione di salario, anche se questo è un tema non secondario, ma di riconoscimento sociale, ovvero di quella legittimazione simbolica che assegna un ruolo e una dignità specifica a ogni attività nel contesto collettivo. Chi lavora a turni non solo garantisce il funzionamento materiale del sistema, ma spesso interviene proprio nei momenti di maggiore vulnerabilità (nottata, urgenza, festività): si tratta quindi di un lavoro esposto, continuo e altamente esigente. E coi termini di moda, strassante ed alienante.
Eppure, nel dibattito pubblico, il lavoro a turni raramente emerge come oggetto politico. Le politiche del lavoro tendono a concentrarsi sul "lavoro agile", sulle forme di flessibilità compatibili con il lavoro intellettuale e con i profili professionali a più alta qualificazione. Ma l’economia reale, quella che si muove negli impianti industriali , nei magazzini, nei reparti ospedalieri e nelle metropolitane, continua a funzionare grazie a una "forza invisibile" che lavora fuori dai riflettori, spesso in condizioni peggiori, con meno voce.
L’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) sta già modificando profondamente le dinamiche del lavoro, e le sue ricadute sul lavoro a turni sono ambivalenti. Da un lato, l’automazione intelligente promette di alleggerire il carico umano nelle attività più ripetitive, faticose o pericolose, soprattutto nei settori industriali e logistici. Alcuni compiti notturni, come il controllo di macchinari, la sorveglianza di impianti o la movimentazione di merci, sono sempre più affidati a sistemi automatizzati o a software di supervisione predittiva. Questo potrebbe ridurre l’esposizione degli esseri umani a orari disagevoli o rischi fisici. Tuttavia, l’IA porta anche con sé una ridefinizione dei ruoli lavorativi, con un possibile spostamento della turnazione verso nuove figure professionali legate alla manutenzione dei sistemi intelligenti, al monitoraggio da remoto o alla gestione degli imprevisti generati dagli stessi algoritmi.
Inoltre, mentre l’IA può contribuire a una maggiore efficienza operativa, vi è il rischio concreto che aumenti le disuguaglianze tra chi ha accesso alle competenze digitali e chi continua a operare nei comparti più esposti, senza possibilità di riqualificazione. I lavoratori a turni, spesso meno coinvolti nei processi di innovazione, rischiano di trovarsi esclusi dalla transizione tecnologica, con una doppia penalizzazione: da un lato, l’automazione potrebbe ridurre il numero complessivo di turnisti; dall’altro, i residui umani del sistema turnario (o turnistico?
), meno sostituibili , potrebbero continuare a operare in condizioni gravose e sottovalutate, senza che l’innovazione porti loro alcun beneficio reale.
Per questo è fondamentale che le politiche di uso sempre più massivo dell’IA siano inclusive, prevedendo programmi di formazione accessibili, forme di partecipazione attiva dei lavoratori e una progettazione del lavoro che non scarichi sugli anelli più deboli i costi della transizione. La tecnologia, se non accompagnata da una visione sociale, rischia di amplificare la marginalità già presente nel lavoro a turni, anziché risolverla.
Riconoscere il valore del lavoro a turni richiede una svolta culturale e politica. In primo luogo, è necessario rendere visibili questi lavoratori, restituendo loro uno spazio nel contesto dell'immagine collettiva. Questo passa dai media, dall’educazione e dalla rappresentazione del lavoro nelle scuole e nelle istituzioni. In secondo luogo, serve una riforma delle politiche retributive, che compensi in modo più equo il disagio fisico e psico-sociale del lavoro in turno. Terzo punto, è urgente garantire un supporto psicosociale strutturato a chi lavora in condizioni di discontinuità cronica: dalle consulenze mediche alle tutele familiari, dalla flessibilità in uscita alla programmazione degli orari.
Infine, è auspicabile un riequilibrio simbolico: il lavoro a turni non deve più essere considerato una forma inferiore di impiego; una "schiavitù remunerata", ma una funzione strategica per la tenuta della società. Questo significa includere i turnisti nei processi decisionali, nei tavoli di contrattazione e nelle visioni del lavoro del futuro.
Il lavoro a turni non è un’eccezione: è la normalità per una parte significativa della popolazione attiva. È tempo che questa realtà venga riconosciuta per ciò che è: un perno essenziale della nostra vita collettiva. Ignorare il suo valore non è solo ingiusto: è anche miope. Il lavoro a turni è una colonna portante dell’economia e del vivere civile, eppure continua a essere sottovalutato, invisibile e poco tutelato. Le sfide attuali, dalla disuguaglianza sociale alla transizione digitale, rischiano di aggravare questa marginalità se non si interviene con politiche inclusive, riconoscimenti simbolici e compensazioni adeguate. Anche l’intelligenza artificiale, se guidata con responsabilità, può essere un’opportunità per migliorare le condizioni del lavoro turnario; altrimenti, rischia solo di sostituire chi è già più esposto. Riconoscere chi lavora mentre il resto del mondo dorme non è solo un atto di giustizia, ma una scelta strategica per una società più coesa e sostenibile.
Bon, come conclude un giullare in preda a grafomania?
Che mentre gli algoritmi sognano acciaierie intelligenti e corsie autogestite, il turno di notte continua a odorare di caffè bruciato e neon stanco. Il lavoratore turnista resta lì, incastrato tra la catena e la piattaforma, tra l’orario spezzato e l’intelligenza che non lo riguarda. Nessuna IA si alza alle tre per accudire un impianto che fa le bizze, un incendio...o un paziente in un letto d'ospadale.
I problemi lavorano 24/24, 7/7. La gloria solo di giorno.
Ultima modifica di restodelcarlino; 14-05-2025 alle 12:17
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