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Discussione: Dolore, buddhismo, natura, ecc...

  1. #1
    Opinionista L'avatar di Tiberio
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    Dolore, buddhismo, natura, ecc...

    Il buddhismo originale

    Sono le 4 nobili verità principalmente.

    «Oh monaci, il Tathāgatha, il Venerabile, il Perfettamente risvegliato, ha messo in moto presso Vāraṇasī, a Isipatana (Sarnath), nel Parco delle gazzelle, l'incomparabile ruota della Legge (dhammacakka), che non può essere ostacolata da alcun asceta o brāhamana o deva o Māra o Brahmā né da chiunque altro al mondo - la ruota della Legge, cioè l'annunciazione, l'esposizione, la dichiarazione, la manifestazione, la determinazione, la chiarificazione, l'esposizione dettagliata delle Quattro nobili verità. E di quali quattro? Della nobile verità del dolore, della nobile verità dell'origine del dolore, della nobile verità della cessazione del dolore, della nobile verità della via che porta alla cessazione del dolore.»

    (Buddha Shakyamuni Saccavibhaṅga Sutta, Majjhima Nikāya, 141.[1])


    Nella vita degli esseri senzienti (sanscrito sattva, pāli satta, cin. 衆生 zhòngshēng, giapp. shūjō, tib. sems-can), tra cui l'essere umano, è insita la "sofferenza" (san. duḥkha, pāli dukkha, cin. 苦 kǔ, giapp. ku, tib. sdug-bsngal). Tale esperienza del dolore riguarda anche i momenti di "appagamento" e "serenità" in quanto essi stessi impermanenti. Nei testi canonici il Buddha Shakyamuni individua otto tipi di dolore:

    Il dolore della nascita, causato dalle caratteristiche del parto e dal fatto di generare le sofferenze future.
    Il dolore della vecchiaia, che indica l'aspetto di degrado dell'impermanenza.
    Il dolore della malattia, determinato dallo squilibrio fisico.
    Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.
    Il dolore causato dall'essere vicini a ciò che non "piace".
    Il dolore causato dall'essere lontani da ciò che si "desidera".
    Il dolore causato dal non "ottenere" ciò che si "desidera".
    Il dolore causato dai cinque skandha (o aggregati), ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. Questi sono: il corpo, (rūpa), quale manifestazione dei 4 elementi terra, aria, fuoco e acqua; le sensazioni (vedanā); le percezioni (saññā); le formazioni mentali (sankhāra); la coscienza (viññāna).
    Questa lista di otto dolori viene riassunta in tre categorie (san. tri-duḥkhatā, pāli tidukkhatā, cin. 三苦 sānkǔ, giapp. sanku, tib. sdug bsngal gsum)[3]:

    Dolore in quanto tale (san. duḥkha duḥkhatā, pāli dukkha dukkhatā, cin. 苦苦 kǔkǔ, giapp. kuku, tib. sdug-bsngal-gyi sdug-bsngal). Questa categoria riassume i dolori inerenti alla nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte. Ma anche quelli riguardanti all'essere uniti a ciò che non si desidera e a quelli procurati nel cercare di fuggire lo stesso dolore.
    Dolore per ciò che muta (san. vipariṇama duḥkhatā, pāli viparinama dukkhatā, cin. 壞苦 huài kǔ, giapp. e ku, tib. 'gyur-ba'i sdug-bsngal). In questa categoria vengono riassunte le sofferenze procurate dall'impermanenza come quelli dell'essere separati da ciò che si desidera o quelli generati da non ottenere ciò che si brama.
    Dolore generato dall'esistenza (san. saṃskāra duḥkhatā, pāli saṃkhāra dukkhatā, cin. 行苦 xíngkǔ, giapp. gyōku, tib. khyab-pa 'dubyed-ky sdug-bsngal). In questa categoria vengono elencati i dolori relativi all'insoddisfazione perenne procurata dall'esistenza nel saṃsāra: la frustrazione, l'inutilità di numerose nostre attività. Queste sofferenze sono collegate ai cinque skandha (o aggregati) e ai relativi attaccamenti.
    Il "dolore" affligge l'uomo a motivo dell'impermanenza sia propria che di tutto ciò che sperimenta e conosce in vita, per effetto della sua nascita immersa nel saṃsāra e per l'adesione alla credenza in un sé imperituro.
    Questa sofferenza si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama (contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi sgradevoli ecc.), come pure è percepita quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama o in cui ci si diletta, o ancora quando si risente di un disagio esistenziale derivante dallo scontrarsi con una realtà che non soddisfa la propria adesione all'idea di un sé solido, affidabile ed imperituro. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del "dolore".
    Più in generale, la constatazione che viene fatta nella "Prima nobile verità" è che esiste nella vita dell'uomo una "sofferenza" associata indistricatamente all'essere nel mondo un mutevole «composto di aggregati».

    La Verità dell'origine del dolore
    Il "dolore" non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama (sanscrito tṛṣṇā, pāli taṇhā, cin. 愛 ài, giapp. ai, tib. sred pa), per ciò che non è soddisfacente. Si manifesta nelle tre forme di:

    kāmatṛṣṇā (pāli kāmataṇhā, cin. 欲愛 yùài, giapp. yoku ai, tib. 'dod pa la 'dun pa) o "brama di oggetti sensuali";
    bhavatṛṣṇā (pāli bhavataṇhā, cin. 有愛 yǒuài, giapp. u ai, tib. srid pa'i sred pa) o "brama di esistere";
    vibhavatṛṣṇā (pāli vibhavataṇhā, cin. 無有愛 wúyǒuài, giapp. mu u ai, tib. 'jig pa la sred pa) o "brama di annullare l'esistenza".
    La Verità della cessazione del dolore
    "Esiste l'emancipazione dal dolore".
    Per sperimentare l'emancipazione dal dolore, occorre lasciare andare tṛṣṇā, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. Questo stato di cessazione viene denominato nirodha (san. e pāli, cin. 滅 miè, giapp. metsu, tib. gog pa).

    La Verità della via che porta alla cessazione del dolore
    "Esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore".
    È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nirvāṇa (pāli nibbāna, cin. 涅槃 nièpán, giapp. nehan, tib. mya ngan las 'das pa).
    Esso è detto il Nobile ottuplice sentiero.

    «Nel mezzo di questo sentiero, realizzato dal Tathāgata che produce la visione e la gnosi, e che guida alla calma, alla perfetta conoscenza, al perfetto risveglio, al nibbāna? Esso è il Nobile ottuplice sentiero, ovvero la retta visione, la retta intenzione, la retta parola, la retta azione, il retto modo di vivere, il retto sforzo, la retta presenza mentale, la retta concentrazione.»

    (Buddha Shakyamuni Dhammacakkappavattana Sutta, Saṃyutta-nikāya, 56,11.[1])

    La retta concentrazione si raggiunge con la meditazione (bhavana), cuore del dharma (insegnamento), che sviluppa le qualità per tutti i sentieri e porta al samadhi (unione con l'oggetto) al sati (auto consapevolezza/mindfulness) e al nirvana/nibbana, l'estinzione delle rinascite penose o nel mondo divino. Un nuovo stato.

    La meditazione si divide in samatha e vipassana.

    metodi principali della meditazione buddhista sono divisi in śamatha (meditazione della tranquillità) e vipassana (meditazione dell'intuito o di profonda visione). Il termine meditazione di visione profonda viene talvolta utilizzato per l'intera meditazione buddhista.[1]

    Le meditazioni samatha includono l'anapanasati (coscienza del respiro) e i quattro brahma-viharas dei quali mettā bhāvanā è il più praticato; attraverso essa il praticante ottiene i quattro dhyāna. Le meditazioni vipassana comprendono la contemplazione dell'impermanenza, la pratica dei sei elementi (la contemplazione del corpo e del respiro, della mente e delle sensazioni) e la contemplazione della condizionalità. Le meditazioni samatha solitamente precedono e preparano per quelle vipassana, a volte possono essere alternate.

    Ognuno dei cinque metodi base, in grassetto, è un "antidoto" per uno dei cinque "veleni" mentali.
    Tipo di meditazione Metodo Neutralizzazione di Sviluppo di
    Śamatha
    (meditazioni della tranquillità) anapanasati distrazione concentrazione
    mettā bhavana odio ed attaccamento sentimentale gentilezza amorevole
    karuna bhavana crudeltà, peccato sentimentale ed ansia compassione
    mudita bhavana risentimento e invidia gioia compartecipe
    upekkha bhavana indifferenza e neutralità apatica equanimità
    Vipassana
    (meditazioni dell'intuito) contemplazione dell'impermanenza bramosia pace interiore, libertà
    pratica dei sei elementi narcisismo chiarezza sulla propria natura
    contemplazione della condizionalità ignoranza saggezza, compassione
    Esistono altri tipi di meditazione, come su temi specifici, o metodi; ad esempio nello Zen/Chán si utilizza la meditazione zhǐguān (giapponese shikan o shikantaza) evolutasi nello zazen (meditazione seduti, concentrati sul respiro e la vacuità); essa è ripresa direttamente dalla Samatha (Zen è la traduzione di dhyāna, gli stati meditativi) e dalla Vipassana (zhi sta per samatha, guan per vipassana). In generale tutte le meditazioni buddhiste del Mahayana e del Vajrayana sono evoluzioni di samatha/vipassana praticato oggi nel Theravada, con l'utilizzo aggiuntivo dei mantra o di particolari oggetti di meditazione (es. Yidam o divinità).
    Ultima modifica di Tiberio; 19-03-2020 alle 21:21
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  2. #2
    Opinionista L'avatar di Tiberio
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    .
    Ultima modifica di Tiberio; 19-03-2020 alle 21:19
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  3. #3
    Opinionista L'avatar di xmanx
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    Il buddismo è una religione altamente INDIVIDUALISTA perchè mette se stessi, il proprio dolore e il superamento del proprio dolore al centro.
    Il buddismo è, quindi, la MASSIMA espressione dell'EGO...proprio di quell'EGO che, a chiacchiere, dice di voler eliminare.
    Lo stagista.
    Apprendista stregone.

  4. #4
    Opinionista L'avatar di Tiberio
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    Citazione Originariamente Scritto da xmanx Visualizza Messaggio
    Il buddismo è una religione altamente INDIVIDUALISTA perchè mette se stessi, il proprio dolore e il superamento del proprio dolore al centro.
    Il buddismo è, quindi, la MASSIMA espressione dell'EGO...proprio di quell'EGO che, a chiacchiere, dice di voler eliminare.
    E che altro serve?

    Io voglio ciò che fa stare bene ME in primis.

    Lo scopo della vita è eliminare la sofferenza.

    P.S. Non confondere il buddhismo con Schopenhauer
    P.P.S. Vivi e lascia vivere

    Pure il cristianesimo è egoista. Ci si sacrifica per ottenere la beatitudine eterna
    Ultima modifica di Tiberio; 19-03-2020 alle 15:19
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  5. #5
    Opinionista L'avatar di Vega
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    Lo scopo della vita è eliminare la sofferenza.
    E dove sta scritto?

    Io mi sbilancerei anche poco a fare un parallelo fra buddhismo e scienza, si rischiano degli scivoloni.

    Il dolore è colpa del mondo, se così vogliamo dire, fa parte della natura e l'evoluzione ha prodotto questo fattore fisiologico, compresi meccanismi di ricerca ed evitamento di condizioni ambientali favorevoli e sfavorevoli per la sopravvivenza.
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  6. #6
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    È lo scopo mio.
    Gran parte della sofferenza è assolutamente inutile.

    Qual è l'utilità della schizofrenia o della cefalea a grappolo?
    Ultima modifica di Tiberio; 19-03-2020 alle 21:45
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  7. #7
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    Per me individualista in senso filosofico è un complimento.

    Mi de-sottoscrivo. Potete sempre lasciare un messaggio sul profilo.
    Ultima modifica di Tiberio; 19-03-2020 alle 21:42
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  8. #8
    Opinionista L'avatar di Vega
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    Citazione Originariamente Scritto da Tiberio Visualizza Messaggio
    È lo scopo mio.
    Gran parte della sofferenza è assolutamente inutile.

    Qual è l'utilità della schizofrenia o della cefalea a grappolo?
    Ognuno bene o male cerca di stare bene, anche perché il dolore spesso riguarda una situazione nociva o qualcosa che non va nell'organismo ma non c'è uno scopo universale, un fine insito nell'universo per capirsi.
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  9. #9
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    Io sono più un titanico romantik hero che un enciclopedista diderottiano. Purtroppo.

    So che la Natura non ha fini, ma la contrasto idealmente.
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  10. #10
    Opinionista L'avatar di Vega
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    In fondo è quello che facciamo da tempo con i progressi della medicina, altrimenti se ti si caria un dente o hai un'infiammazione ad un tendine fino ad arrivare ad un tumore, sarebbero 'zi tuoi come di tutti.
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  11. #11
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    http://www.onuspi.it/articoli/articolo0005.asp

    Richard Dawkins

    ~ La natura: un universo di indifferenza «



    <<Non riesco a convincermi - scrisse Charles Darwin - che un Dio buono e onnipotente abbia potuto creare gli icneumonidi facendo deliberatamente in modo che si nutrissero del corpo dei bruchi ancora vivi>>. Anche altri gruppi di imenotteri, per esempio gli sfecidi studiati dal naturalista francese Jean Henri Fabre, hanno la macabra abitudine degli icneumonidi.

    Fabre scrisse che prima di deporre l'uovo in un bruco (o in una cavalletta o in un'ape), gli sfecidi introducono con precisione il pungiglione in ogni ganglio del sistema nervoso centrale della preda per paralizzarla, senza tuttavia ucciderla. In questo modo la carne si conserva fresca per la larva che nascerà. Non si sa se la paralisi abbia effetto anestetico generale o se, come il curaro, si limiti a bloccare i movimenti della vittima. Nel secondo caso, la preda potrebbe rendersi conto di essere mangiata viva da dentro, ma non riuscirebbe a muovere un muscolo per evitarlo. Questa sembra un'orribile crudeltà, ma come vedremo la Natura non è crudele, è solo inesorabilmente indifferente. Per noi uomini questo è uno dei fatti più difficili da comprendere: non sappiamo accettare qualcosa che non sia nè buono nè cattivo, nè crudele nè pietoso, ma semplicemente insensibile, indifferente a ogni sofferenza e privo di qualunque finalità.

    La finalità è radicata nella nostra visione del mondo: di fronte a qualunque cosa ci è difficile non chiederci a quale scopo è stata fatta, quale potrebbe essere la ragione o il fine che vi si cela. La tendenza a vedere un fine in ogni cosa è naturale in un animale che vive circondato da macchine, opere d'arte, strumenti e altri manufatti; un animale per di più, i cui pensieri, per lo meno da sveglio, sono dominati da scopi, obiettivi e programmi.

    Benchè di fronte a un'automobile, a un apriscatole, a un cavatappi o a un forcone sia legittimo chiedersi a che cosa serva, il semplice fatto di poter formulare una domanda non significa che essa sia legittima o sensata. Vi sono molte cose per le quali si può chiedere <<che temperatura ha?>> oppure <<di che colore è?>>, ma non si può chiedere la temperatura o il colore, per esempio, della gelosia o della preghiera. Analogamente è giusto chiedersi <<a che scopo?>> a proposito dei parafanghi di una bicicletta o della diga di Kariba; ma non si deve credere che la stessa domanda abbia senso quando la si ponga a proposito di un masso, di una disgrazia, del monte Everest o dell'universo. Certe domande sono semplicemente assurde, per quanto benintenzionato sia chi le formula.

    In una posizione intermedia fra i tergicristalli e gli apriscatole, da un parte, le rocce e l'universo, dall'altra, si situano gli esseri viventi. I corpi degli esseri viventi e i loro organi sono oggetti che, a differenza delle rocce, sembrano portare in sé la finalità.

    Naturalmente è ben noto che l'apparente finalismo degli esseri viventi ha improntato le concezioni dei teologi, da san Tommaso d'Aquino all'inglese William Paley. Quest'ultimo, per esempio, sosteneva in pieno Settecento che se un oggetto relativamente semplice come un orologio postula un orologiaio, allora le creature viventi, che sono tanto più complesse, devono per forza essere state create da Dio. Anche i moderni creazionisti <<scientifici>> aderiscono a questo argomento del divino Architetto.

    Oggi si capisce bene per quale meccanismo tutto ciò che riguarda la vita (ali, occhi, becchi, istinto di nidificazione e quant'altro) dia la tenace illusione del progetto finalistico: questa illusione è dovuta alla selezione naturale di Darwin. Darwin capì che gli organismi che vediamo esistono perchè i loro antenati possedevano caratteri che permisero a loro e alla loro progenie di prosperare, mentre gli altri individui meno adatti morirono lasciando pochi o punti discendenti.

    E' sorprendente che abbiamo cominciato a capire l'evoluzione solo da pochissimo tempo, non più di un secolo e mezzo. Prima di Darwin, anche le persone colte, che non si domandavano più <<a che scopo>> di fronte a rocce, torrenti ed eclissi, ritenevano comunque legittimo porre questa domanda a proposito degli esseri viventi. Oggi solo chi non abbia alcuna cultura scientifica potrebbe nutrire una curiosità del genere. Ma questo <<solo>> non faccia dimenticare che stiamo comunque parlando della maggioranza assoluta della popolazione mondiale.

    Darwin riteneva che la selezione naturale favorisse gli individui più adatti a sopravvivere e a riprodursi. Ciò equivale a dire che la selezione naturale favorisce quei geni che si replicano per molte generazioni. Benchè le due formulazioni siano più o meno equivalenti, il <<punto di vista del gene>> presenta molti vantaggi, che risultano evidenti quando si considerino due concetti tecnici: l'ingegneria inversa e la funzione di utilità.

    L'ingegneria inversa è una tecnica di ragionamento che procede in questo modo: supponiamo che un ingegnere si imbatta in un manufatto che non riesce a comprendere; allora fa l'ipotesi di lavoro che esso sia stato costruito per qualche scopo. Quindi smonta e analizza l'oggetto, tentando di immaginare quale funzione esso potrebbe avere: <<Se avessi voluto costruire una macchina per fare questa determinata cosa, l'avrei fatta così? Oppure per spiegare l'oggetto è meglio immaginare che esso sia stato costruito per fare quest'altra cosa?>>.

    Oggi, nell'era dell'elettronica, il regolo calcolatore, che fino a tempi recenti è stato il talismano dell'onorata professione dell'ingegnere, è superato quanto un vestigio dell'Età del Bronzo. Un archeologo del futuro che trovasse un regolo calcolatore e se ne chiedesse lo scopo, noterebbe forse che si presta tanto a tracciare linee rette quanto a imburrare una fetta di pane. Ma in un semplice righello o in una spatola non ci sarebbe bisogno di quell'elemento scorrevole al centro. Inoltre le sue precise scale logaritmiche sono disegnate con troppa esattezza per essere accidentali. All'archeologo verrebbe in mente che in un'era in cui non fossero esistiti ancora i calcolatori elettronici quest'oggetto avrebbe costituito un ingegnoso strumento per eseguire con rapidità moltiplicazioni e divisioni. Il mistero del regolo calcolatore sarebbe quindi risolto grazie all'ingegneria inversa, in base a una ipotesi di progetto intelligente ed economico.

    <<Funzione di utilità>> è un termine tecnico proveniente non dall'ingegneria bensì dall'economia e significa <<ciò che viene massimizzato>>. I pianificatori economici e gli ingegneri sociali si comportano più o meno come gli architetti e gli ingegneri meccanici, perchè si sforzano di ottimizzare qualcosa. Gli utilitaristi perseguono <<la massima felicità per il massimo numero di persone>>. Altri mirano dichiaratamente ad accrescere la propria felicità a spese del benessere comune.

    Se si applicasse l'ingegneria inversa alla politica di governo di un certo paese, si potrebbe magari concludere che le variabili che vengono ottimizzate sono l'occupazione e il benessere universali. Per un altro paese la funzione di utilità potrebbe essere la permanenza al potere del presidente, le ricchezza della famiglia regnante, la consistenza dell'harem del sultano, la stabilità del Medio Oriente o quella del prezzo del petrolio. Il punto è che si possono immaginare parecchie funzioni di utilità. Che cosa cerchino di conseguire gli individui, le aziende o i governi non è sempre evidente.

    Torniamo agli organismi viventi e cerchiamo di identificare la loro funzione di utilità. Ve ne possono essere molte, ma alla fine si scoprirebbe che si riducono tutte a una sola. Una maniera istruttiva di vivacizzare la nostra indagine consiste nell'immaginare che le creature viventi siano state costruite da un divino Ingegnere e tentare, mediante l'ingegneria inversa, di scoprire ciò che l'Ingegnere ha cercato di rendere massimo: cioè la <<funzione di utilità di Dio>>. I ghepardi dimostrano sotto tutti i punti di vista di essere magnificamente costruiti per qualcosa, e in questo caso dovrebbe essere abbastanza facile applicare l'ingegneria inversa per ricavare la loro funzione di utilità. Essi sembrano ben progettati per uccidere le gazzelle. Le zanne, gli artigli, gli occhi, il naso, i muscoli delle zampe, la colonna vertebrale e il cervello di un ghepardo sono proprio quelli che dovrebbero essere se lo scopo di Dio nel progettare questo animale fosse stato quello di rendere massimo il numero di gazzelle predate. Viceversa, se applichiamo l'ingegneria inversa a una gazzella, scopriamo prove altrettanto evidenti di un progetto che mira allo scopo esattamente contrario: far sopravvivere le gazzelle e far morire di fame i ghepardi.

    E' come se i ghepardi fossero stati progettati da un dio e le gazzelle da un dio rivale. Oppure, se è un unico Creatore ad aver fatto il lupo e l'agnello, il ghepardo e la gazzella, a che gioco sta giocando? E' un sadico che gode nell'assistere a sport sanguinari? O tenta di evitare che i mammiferi africani crescano troppo di numero? Oppure si dà da fare per far aumentare l'indice di ascolto dei programmi sul comportamento degli animali? Queste sono tutte funzioni di utilità ragionevolissime, che potrebbero anche risultare corrette. In realtà, ovviamente, sono tutte sbagliate. (*)

    La vera funzione di utilità della vita, quella che viene massimizzata nel mondo naturale, è la sopravvivenza del DNA. Ma il DNA non vaga liberamente: è racchiuso negli organismi viventi e deve sfruttare al massimo le leve del potere che ha a disposizione. Le sequenze geniche che si trovano nel corpo del ghepardo rendono massima la propria sopravvivenza facendo sì che questo corpo uccida le gazzelle. Le sequenze che si trovano nel corpo della gazzella accrescono la probabilità di sopravvivere perseguendo il fine opposto. Ma è la stessa funzione di utilità, cioè la sopravvivenza del DNA, che spiega la <<finalità>> sia del ghepardo che della gazzella.

    Una volta accettato, questo principio spiega una grande varietà di fenomeni altrimenti sconcertanti, tra cui le battaglie (dispendiosi in temini di energia e spesso comiche) combattute dai maschi per conquistare le femmine, compresi i loro investimenti in <<bellezza>>. Spesso i rituali dell'accoppiamento assomigliano alle sfilate (oggi per fortuna passate di moda) per l'elezione di Miss Universo, ma con i maschi in parata sulla passerella. Dove quest'analogia si vede con grande evidenza è nel <<lek>> di certi uccelli, come il gallo della salvia o l'uccello combattente. Il lek è l'appezzamento di terreno sul quale gli uccelli maschi si pavoneggiano davanti alle femmine. Le femmine si recano al lek e, dopo aver osservato le tronfie esibizioni di parecchi maschi, ne scelgono uno e si accoppiano. I maschi delle specie da lek hanno spesso bizzarre livree, che esibiscono con scatti o inchini altrettanto vistosi, emettendo strani rumori. Gli aggettivi <<bizzarro>> e <<vistoso>> riflettono naturalmente giudizi di valore soggettivi.

    E' presumibile che quando danzano pomposamente sul lek, accompagnando con rumori come di bottiglie stappate, i maschi del gallo della salvia non sembrino affatto buffi alle femmina della loro specie, e questa è la cosa che conta. In certi casi accade che il concetto di bellezza di una femmina coincida con il nostro: ne sono un esempio il pavone o l'uccello del paradiso.

    Il canto dell'usignolo, la coda del fagiano, la fotofosforescenza della lucciola e le squame iridate dei pesci tropicali rendono massima la bellezza estetica, ma non si tratta, o solo per caso, di una bellezza fatta per il nostro diletto. Che noi godiamo dello spettacolo è un corollario, un risultato del tutto accidentale. I geni che rendono i maschi attraenti per le femmine vengono automaticamente trasmessi alle generazioni successive. C'è un'unica funzione di utilità che dia senso a tutte queste diverse manifestazioni della bellezza: la quantità che viene puntigliosamente ottimizzata in ogni minuscola nicchia del mondo vivente è, in ogni caso, la sopravvivenza del DNA che presiede alla caratteristica che vogliamo di volta in volta interpretare. Questo impulso giustifica anche certi misteriosi eccessi della natura. Per esempio, il pavone è carico di fronzoli così pesanti ed ingombranti da essere gravemente ostacolato nei suoi tentativi di svolgere qualche lavoro utile (se fosse incline a svolgere qualche lavoro utile, ma in genere non lo è). I maschi degli uccelli canori dedicano al canto una quantità esorbitante di tempo e di energia. Questa smodata attività rappresenta un pericolo, non solo perchè attira gli animali da preda, ma perchè consuma molta energia e porta via del tempo che potrebbe essere impiegato per reintegrare quell'energia. Uno specialista di scriccioli riferì che uno dei suoi maschi selvatici cantò letteralmente fino a morirne. Qualsiasi funzione di utilità che avesse a cuore il benessere a lungo termine della specie o anche solo la sopravvivenza individuale di un determinato maschio, limiterebbe l'attività canora, le parate e le lotte tra i maschi.

    Tuttavia, quando si consideri la selezione naturale anche dal punto di vista dei geni, e non solo sotto il profilo della sopravvivenza e della riproduzione individuali, spiegare questi comportamenti è facile. Dato che ciò che viene massimizzato negli scriccioli è in realtà la sopravvivenza del DNA, nulla può arrestare la propagazione di quel patrimonio genetico il cui unico effetto benefico sia quello di rendere i maschi attraenti per le femmine. Se certi geni conferiscono ai maschi qualità che per le femmine della specie risultano desiderabili, questi geni, volere o no, sopravviveranno, anche se talvolta possono mettere in pericolo la vita di alcuni individui.

    Gli esseri umani hanno l'amabile tendenza a supporre che <<benessere>> significhi benessere di gruppo, che per <<bene>> si intenda bene della società o prosperità della specie o addirittura dell'intero ecosistema. La funzione di utilità di Dio, come la si evince da un'osservazione realistica della selezione naturale, risulta purtroppo in contrasto con queste visioni utopiche. Certo, vi sono circostanze nelle quali i geni possono massimizzare il loro egoistico benessere programmando nell'organismo una cooperazione altruistica o addirittura un sacrificio di sé; ma il benessere del gruppo è sempre una conseguenza fortuita, non la motivazione principale.

    Quando ci si rende conto che i geni sono egoisti, si capiscono anche certi eccessi del regno vegetale. Perchè nelle foreste gli alberi sono tanto alti? Semplicemente per superare i rivali. Una funzione di utilità <<sensata>> farebbe in modo che gli alberi fossero tutti bassi. In tal caso ciascuno di essi riceverebbe esattamente la stessa quantità di luce solare, investendo molto meno in grossi tronchi e rami robusti. Ma se fossero tutti bassi, basterebbe che un singolo individuo variante crescesse un pochino di più e la selezione naturale non potrebbe fare altro che favorirlo. Essendo stato aumentato il piatto, tutti gli altri, come a poker, dovrebbero rispondere. Questo processo continuerebbe senza che nulla potesse arrestarlo, e gli alberi diventerebbero tutti degli assurdi campioni di altezza e di sperpero. Ma tutto ciò è assurdo ed antieconomico solo dal punto di vista di un pianificatore economico razionale che ragionasse in termini di massimizzazione del rendimento e non di sopravvivenza del DNA.

    Vi sono tantissime analogie ben note. Ai ricevimenti tutti parlano a voce tanto alta da arrochirsi. Il motivo è che ognuno parla al massimo del volume. Se tutti si mettessero d'accordo per bisbigliare, sentirebbero tutti altrettanto bene senza sforzare tanto la voce da sprecare tante energie. Ma gli accordi di questo genere non funzionano se non sono imposti con la forza, perchè c'è sempre qualche egoista che li infrange parlando a voce un po' più alta e, uno alla volta, gli altri sono obbligati a seguirlo. Un equilibrio stabile viene raggiunto solo quando ognuno grida per quanto fiato ha in corpo, cioè molto più forte di quanto consiglierebbe la <<razionalità>>. Il freno imposto dalla cooperazione è spesso vanificato dall'instabilità interna. E' raro che la funzione di utilità di Dio coincida col massimo bene per il massimo numero di individui. La funzione di utilità di Dio tradisce le proprie origini nel disordinato tafferuglio che si instaura all'insegna del vantaggio egoistico.

    Tornando al nostro pessimistico punto di partenza, la massimizzazione della sopravvivenza del DNA non è certo una ricetta per la felicità. Purchè il DNA venga trasmesso, non importa se qualcuno o qualcosa ne riceva sofferenza. I geni non si curano della sofferenza perchè non si curano di nulla.

    Per i geni della vespa di Darwin è meglio che il bruco sia vivo, e quindi fresco, quando viene divorato, qualunque ne sia il costo in termini di sofferenza. Se la Natura fosse benevola, il bruco otterrebbe almeno la piccola grazia di essere anestetizzato prima di venire mangiato vivo da dentro. Ma la natura non è né benevola né malevola, non è né pro né contro la sofferenza. La Natura non si cura del tipo di sofferenza che infligge, purchè queste sofferenze non interferiscano con la sopravvivenza del DNA. E' facile immaginare un gene che, per esempio, tranquillizzi la gazzella quando sta per essere azzannata a morte. La selezione favorirebbe un gene siffatto? Soltanto se l'effetto calmante sulla gazzella aumentasse la probabilità che quel gene potesse venire trasmesso alle generazioni future. Ma non c'è motivo per cui le cose debbano andare in questo modo, e possiamo quindi supporre che le gazzelle provino un dolore ed uno spavendo indicibili quando vengono inseguite e uccise, come prima o poi capita alla maggior parte di esse.

    Il dolore che ogni anno provano gli organismi viventi di tutto il pianeta supera ogni possibile immaginazione. Nel minuto che mi occorre per scrivere questa frase, migliaia di animali vengono mangiati vivi, altri fuggono gemendo di terrore per, salvarsi la vita, altri vengono lentamente scarnificati dai loro parassiti interni, migliaia di esseri di ogni sorta muoiono di fame, di sete e di malattie. Così dev'essere. Se mai capita un periodo di abbondanza, subito la popolazione aumenta finchè non si ripristina lo stato naturale di penuria e di tribolazione.

    In questo universo di elettroni e di geni egoisti, di cieche forze fisiche e di replicazione genetica, alcune persone soffrono, altre sono fortunate, e in tutto ciò non si troverà mai alcun senso, alcuna ragione, alcuna giustizia. L'universo che noi contempliamo ha esattamente le proprietà che ci aspetteremmo se, alla base, non vi fosse alcun progetto, alcuna finalità, se non vi fosse né il bene né il male, null'altro che crudele indifferenza. Come cantò il melanconico poeta inglese Alfred Edward Housman:


    Perchè la Natura, la Natura
    senza cuore e senza ragione
    nulla sente e nulla sa.


    Il DNA nulla sente e nulla sa. Il DNA semplicemente esiste, e noi non possiamo far altro che danzare alla sua musica.


    Tratto da:
    Dawkins R. La natura: un universo di indifferenza, Le Scienze n°329, gennaio 1996

    * Cfr. anche Il fiume della vita
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  12. #12
    Opinionista L'avatar di Tiberio
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    «Un buon modo per rappresentare efficacemente il nostro compito è immaginare che le creature viventi siano opera di un Artefice divino e tentare, applicando la progettazione inversa, di comprendere che cosa l'Artefice abbia voluto massimizzare. Qual era la funzione di utilità di Dio? Il ghepardo indica in ogni dettaglio di essere stato superbamente progettato per qualche scopo, e dovrebbe essere abbastanza facile studiarlo applicando la progettazione inversa per comprendere la sua funzione di utilità. Il ghepardo sembra fatto apposta per uccidere la gazzella. I denti, gli artigli, gli occhi, il naso, la muscolatura degli arti, la colonna vertebrale e il cervello di questo predatore sono tutti come potremmo aspettarci se lo scopo di Dio nel progettarlo fosse stato quello di massimizzare le morti tra le gazzelle. Ma se applichiamo la progettazione inversa allo studio della gazzella troviamo evidenze ugualmente impressionanti dello scopo diametralmente opposto: la sopravvivenza delle gazzelle e la morte dei ghepardi per fame. È come se il ghepardo fosse stato progettato da una divinità e la gazzella da una divinità rivale. In alternativa, se vi è un solo Creatore che ha fatto la tigre e l'agnello, il ghepardo e la gazzella, qual è il Suo gioco? È un sadico che si diverte ad assistere a spettacoli cruenti? Cerca di scongiurare la sovrappopolazione tra i mammiferi africani? Oppure ha interesse a mantenere alta l'audience dei documentari naturalistici di David Attenborough? Tutte queste supposizioni sono funzioni di utilità del tutto plausibili. All'atto pratico, ovviamente, sono del tutto false.»
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  13. #13
    Opinionista L'avatar di Tiberio
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    doppi
    "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi".

  14. #14
    Opinionista L'avatar di xmanx
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    @Tiberio

    Occorre uscire dalla logica dell' "utilità".
    Dio si manifesta nella realtà fisico-materiale. E attraverso la realtà fisico-materiale dio manifesta le sue caratteristiche o qualità. In un perenne processo di "trasformazione".
    Domandarsi a cosa sia utile un certo organismo non ha, quindi, alcun senso. Ogni organismo è la manifestazione di specifiche qualità o caratteristiche di dio.

    La natura non è indifferente. Chiedersi se la realtà sia indifferente o meno non ha alcun senso. Poichè la realtà è manifestazione delle qualità o caratteristiche di dio.
    E, nella realtà, nulla nasce e nulla muore, ma tutto si trasforma. E si trasforma proprio per manifestare le qualità o caratteristiche di dio.
    Lo stagista.
    Apprendista stregone.

  15. #15
    Candle in the wind L'avatar di conogelato
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    I cimiteri fanno parte della Realtà.
    Niente è più reale di un cimitero, amico Xmanx. Tutto nasce e tutto muore. Prova a domandarti perchè siamo così atterriti dal virus, in questi giorni.
    L'Uomo ha percezione, del suo limite: E' fatto per la Vita, ma sa che deve morire.
    E' solo nella Fede, che Essa gli appare come un passaggio...un transito...un ponte verso l'Eternità.
    amate i vostri nemici

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