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Discussione: Trieste letteraria

  1. #1
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    Trieste letteraria

    Gentile Lady Folle ho per te un altro interessante articolo pubblicato domenica scorsa.

    Cristina Taglietti: “Confine sconfinato. Trieste è letteratura” (Corriere della Sera, La lettura, 9 – 2- 2025)

    Trieste, forse più di ogni altra città, è letteratura. È ‘la sua letteratura’, come ha spesso sottolineato Claudio Magris che quell’humus geografico e culturale lo abita e lo racconta tessendo nei suoi scritti personaggi, storia, ricordi che lì hanno la loro ragion d’essere. Con libri come il saggio narrativo Microcosmi, il romanzo ‘Non luogo a procedere’, il testo teatrale ‘La mostra o certi racconti di Tempo curvo a Krems’ (tutti editi da Garzanti), Magris è ‘il perplesso indagatore dell’etica di questi luoghi, dell’umanità che li ha coltivati e della violenza che li ha lacerati’ secondo la suggestiva, esatta definizione del critico Giulio Ferroni in quel viaggio letterario-sentimentale nella nostra letteratura che è il saggio ‘L’Italia di ‘ (edito da La nave di Teseo).

    Alla sua città Magris ha dedicato anche un saggio scritto con Angelo Ara: “Trieste. Un’identità di frontiera (Einaudi), in cui va all’origine della letteratura triestina: Italo Svevo, Umberto Saba e Scipio Slataper sono gli scrittori ‘che le danno un volto, attribuendole un valore esistenziale, una ragione di vita che non vuole essere confusa con l’esercizio letterario: ‘L’anti-letterarietà dei triestini, di cui si è tanto parlato — notano gli autori nell’introduzione — è l’atteggiamento di uomini che chiedono allo scrivere non bellezza, ma verità, perché per essi scrivere vuol dire acquistare un’identità, non solo come individui ma come gruppo’.

    Il tema dell’identità, strettamente connesso a quello storico-geografico della frontiera, del confine, di quell’amalgama di gruppi etnici diversi (‘italiani, tedeschi, sloveni e altri slavi, greci, armeni, nuclei provenienti dalle varie terre dell’impero e da altri Paesi d’Europa’) è stato d’altronde il grande fuoco che ha alimentato l’immaginario culturale di artisti e letterati. Al punto che, come ha ricordato il critico triestino Elvio Guagnini in un dialogo con lo stesso Magris sul ‘Corriere’, persino Juan Octávio Prenz, di origini istriano-croate, nato in Argentina, poteva definirsi uno «scrittore triestino di lingua spagnola.

    Un nome, insomma, da mettere accanto a quella generazione attiva dopo gli anni Sessanta che annovera, tra gli altri, Giorgio Voghera, Fulvio Tomizza, Renzo Rosso, Stelio Mattioni, Furio Bordon. E Boris Pahor, triestino di nazionalità slovena, testimone dei totalitarismi del Novecento che fino a 108 anni ha tenuto accesa la fiaccola della memoria di una minoranza oppressa (il suo capolavoro, Necropoli, scritto in sloveno nel 1967, è stato tradotto in Italia, da Fazi, quarant’anni dopo). Non si deve neppure dimenticare una grande autrice estranea ai circoli letterari e perciò sottovalutata: Fausta Cialente (1898-1994), cosmopolita e sradicata, autrice del bellissimo ‘Le quattro ragazze Wieselberger’ (premio Strega 1976, ripubblicato da La tartaruga nel 2018 con la prefazione di Melania Mazzucco), in cui rievoca la sua infanzia e adolescenza oltre alle figure della madre e delle zie, giovani donne nella Trieste di fine Ottocento, austro-ungarica e irredentista.

    Negli ultimi mesi basta guardare sugli scaffali delle librerie per capire quanto Trieste continui a nutrire chi scrive. Inaugurando, lo scorso settembre, il Lets Museo della Letteratura di Trieste, Magris ha allungato lo sguardo fino all’oggi, a una letteratura contemporanea «fatta da persone molto più giovani in cui un legame forte con la città giunge a risultati, forme, stili, anche una lingua, diversi». Autori affermati come Federica Manzon, Paolo Rumiz, Susanna Tamaro. O Mauro Covacich che in romanzi come La città interiore ha sovrapposto la sua personale cartografia triestina con quella mutevole della storia. Ma anche come Laila Wadia, scrittrice e traduttrice plurilingue, nata a Mumbai (in India), residente a Trieste dal 1986, che scrive in inglese e in italiano con un occhio particolare alla condizione femminile. Nel 2023 ha curato, per il piccolo editore Cosmo Iannone, ‘Trieste. Uno sguardo intimverso’: il volume contiene, oltre al suo, i racconti di altre sette scrittrici «in transito», adottate dalla città: Diana Bošnjak Monai, Elizabeth Griffin, Gabriela Preda, Betina Lilián Prenz, Ana Cecilia Prenz Kopušar, Liliya Radoeva Destradi, Qing Yue. Come suggerisce il neologismo nel titolo, ‘l’altrove’ da cui provengono le 8 scrittrici genera su questo luogo dalla ‘grazia un po’ scontrosa’ una prospettiva personale, interiore, diversa, a volte controversa, intimversa appunto.

    D’altronde Jan Morris nel suo ‘Trieste. O del nessun luogo’ (il Saggiatore) ricorda che già il commediografo viennese Hermann Bahr, al suo arrivo in città nel 1909, ebbe la sensazione di librarsi nell’irrealtà, di trovarsi in nessun luogo. ‘I suoi visitatori — scrive la storica e viaggiatrice inglese, che nella città sbarcò alla fine della Seconda guerra mondiale, quando era ancora un giovane soldato di nome James— spesso la lasciano disorientati e, tornati a casa, la ricordano con un vago senso di mistero, come qualcosa di inafferrabile’. Secondo Morris chi la conosce meglio spesso la vede sotto le sembianze di una metafora, cioè non solo come una città, ma come un’idea di città: Trieste ‘sembra esercitare un’influenza particolare su quanti tra noi hanno un debole per l’allegoria, cioè su coloro che, come si espresse una volta Robert Musil, suppongono che ogni cosa significhi più di quanto abbia onestamente la pretesa di significare’.

    A Trieste Daniele Del Giudice ha inseguito (Lo stadio di Wimbledon, Einaudi) l’enigmatica eminenza grigia dell’editoria Bobi Bazlen, fondatore assieme a Luciano Foà di Adelphi, che dalla città dove era nato nel 1902 sotto l’impero asburgico se ne andò a 32 anni per non farvi più ritorno. Una vita che Cristina Battocletti ha approfondito nella bella biografia Bobi Bazlen. ‘L’ombra di Trieste’ (La nave di Teseo), simbolo forse di quella ‘triestinità eterna’ che Diego Marani, scrittore e traduttore nato a Ferrara, ha raccontato in ‘A Trieste con Svevo’ (La nave di Teseo). Alla base c’è l’idea poetica di un tempo che ha una sua consistenza propria, che ‘si accumula come in un lavandino ingorgato, rischia di traboccare, poi di colpo qualcosa lo stura e interi decenni colano via in un fiotto, un tempo e un luogo in cui gli eroi sveviani si mescolano a molti altri personaggi che ‘silenziosamente si riproducono in ogni epoca immortali’.

    I romanzi di Federica Manzon, nata a Pordenone, triestina di elezione, ruotano tutti, in un modo o nell’altro, intorno alla città. L’idea di libertà nata da un confine che la attraversa sembra corrisponderle intimamente: è la continua evocazione della possibilità di un’altra vita che accade di là e porta con sé paura, possibilità, desiderio. Il romanzo con cui ha vinto il Campiello 2024, Alma (Feltrinelli), questa inquietudine la accoglie pienamente concentrando storia, geografia, memoria, conflitto nei tre giorni del ritorno in città della protagonista, fuggita anni prima per fare la giornalista a Roma e rientrata per ricevere l’eredità del padre morto. Trieste è al centro del racconto tanto quanto la protagonista Alma: lo è nelle radici asburgiche dei nonni materni, nella pericolosa ambiguità della guerra fredda, nella disgregazione della Jugoslavia degli anni Novanta che in qualche modo la attraversa quando inizia la guerra, in quel conflitto continuo tra identità e appartenenza.

    Simbolo di limite o di libertà, parole opposte entrambe connaturate al confine, Trieste è una coperta di segni e di metafore che si stende su un corpo vivo ferito dalla Storia. Le vicende tragiche del secolo breve, le divisioni, i conflitti, le dittature e il sangue versato da più parti sono elementi che si ritrovano nelle opere dei narratori contemporanei. Trieste (Bompiani, 2015), «romanzo documentario» sull’occupazione nazista nel Nord Italia con cui la scrittrice croata Daša Drndic (1946-2018) destruttura la forma classica del genere accostando testi, fotografie, mappe, liste di nomi, rimane un’opera fondamentale. Drndic coglie il respiro epico di una città che si ammala «come un essere umano» e insieme l’orrore inscritto nella storia recente dell’Europa. La Risiera di San Sabba, fabbrica di morte, unico campo di sterminio sul territorio italiano, è, come in Non luogo a procedere di Claudio Magris, restituita alla memoria di un orrore che per anni si è voluto dimenticare.

    Il filo rosso di sangue del Novecento recentemente è stato raccolto anche da scrittori di una generazione più giovane che quelle vicende le hanno conosciute sui libri di storia o dai racconti dei nonni. Marco Balzano, milanese classe 1978, ha incardinato il suo Bambino (Einaudi) tra i primi anni Venti e il 1946, quando fascisti, nazisti, titini si danno il cambio in una città che sembra costantemente in balia del più forte. Fedele a un’idea civile di narrativa, Balzano ha scelto di raccontare il Male attraverso la figura di un carnefice, Mattia Gregori detto Bambino, «la camicia nera più feroce della città», a dispetto di un viso glabro e infantile. Nato a Trieste nel 1900, Mattia, marchiato da un’infanzia difficile con una madre che gli rivela di non essere lei ad averlo dato alla luce, è un traditore di tutti: fascista della prima ora, soldato in Grecia e poi, al ritorno nel 1945, a favore dei tedeschi prima e dei partigiani di Tito in seguito.

    La geografia e la storia della città sempre più spesso vengono attraversate anche con il passo narrativo del giallo. Lo fa Pietro Spirito nelle pieghe della guerra fredda con È notte sul confine (Guanda); lo ha fatto, affondando le mani negli anni della Seconda guerra mondiale, Ilaria Tuti con Risplendo non brucio (Longanesi). Il romanzo unisce i punti tra la Risiera di San Sabba e il castello di Kransberg, nell’Assia tedesca, dove nel dicembre 1944 si asserragliò Hitler. L’autrice segue le vicende di Johann Adami, luminare di medicina legale triestino che ha detto no al fascismo, internato a Dachau, «reclutato» per risolvere il caso della morte di un giovane ufficiale al castello di Kransberg, e di sua figlia Ada, anche lei medico, che a Trieste si trova a dover scoprire un assassino di donne intorno alla Risiera. Tuti alterna le storie dei due protagonisti con le rispettive indagini, sprofondando il lettore nella Kleine Berlin, la Trieste sotterranea che ospita, attraverso una rete di tunnel, due sistemi comunicanti ma distinti: un rifugio antiaereo costruito dal Comune di Trieste per la popolazione civile e un altro costruito dall’esercito tedesco dopo l’8 settembre, quando la città diventa sede del comando generale delle SS del Litorale Adriatico.

    A utilizzare la lente del noir è anche uno scrittore tedesco: in Germania Veit Heinichen è stato tra i fondatori della casa editrice Berlin Verlag, eppure ha eletto questa terra di confine non soltanto a domicilio, ma anche a osservatorio quasi esclusivo per mettere a fuoco, oltre alle zone oscure della città (politica e affari compresi), tutta la complessità del presente. Da e/o sono usciti una dozzina di titoli, tradotti dal tedesco, della saga del vicequestore Laurenti. Anche lui, nel corso delle indagini, si è inevitabilmente calato nel pozzo oscuro del secondo conflitto mondiale e nelle ferite aperte dall’occupazione nazifascista prima e jugoslava poi. Nella prossima, A maglie strette, in uscita il 12 marzo, il vicequestore firma i documenti per la pensione e poi mette le mani in una rete di corruzione e affari sporchi che si irradia dal golfo della città. Trieste, Italia, Europa.
    Ultima modifica di doxa; 12-02-2025 alle 15:10

  2. #2
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    Un altro articolo per Lady Folle

    Stendhal e la bora.

    Benedetta Moro: “Ma la bora fece fuggire Stendhal” (Corriere della Sera, La lettura, 9 – 2 – 2025)

    Per sopravvivere a Trieste, James Joyce insegnava inglese alla Berlitz School in via San Nicolò 32. Tra gli allievi, Italo Svevo, che nella vicina via San Lazzaro al numero 8 frequentò lo studio dello psicoanalista Edoardo Weiss, seguace di Sigmund Freud, dove anche Umberto Saba si recava a decrittare il proprio inconscio. Il ritrovo per alcuni di questi intellettuali era al Caffè Garibaldi in piazza Grande (oggi piazza Unità). La passione tutta triestina per la letteratura era allora simbolicamente racchiusa nel perimetro di poche vie.

    Oggi nel capoluogo giuliano scrittori e personaggi illustri, locali o «foresti», vengono per la maggior parte celebrati con statue, giardini, vie, piazze, scuole, biblioteche e sentieri. Ma la loro presenza è raccontata anche da un discreto numero di targhe. Piccole ma tante sono quelle con impressi i volti di Svevo, Saba e Joyce, che compongono il percorso biografico tratto dal progetto Itinerari triestini di Comune, università e altri enti (cui sono dedicati tre libri di Renzo Crivelli, Cristina Benussi ed Elvio Guagnini), che s’intreccia con il progetto Trieste Metro, totem segnaletici dei principali luoghi legati a letteratura, architettura e altri temi. Così si scoprono i traslochi di Joyce (almeno 9) dovuti anche a sfratti. E la casa natale di Svevo? Si pensava fosse in viale XX Settembre 16, ma si è poi scoperto che era in via Mazzini 27: «Un dato — così Riccardo Cepach, responsabile del Museo della Letteratura Lets — che ho ricavato dal Registro dei nati della comunità ebraica». In via San Nicolò 30b la Libreria Saba, ora riaperta, è evidenziata da due targhe e un totem. Non lo è la casa in via Trento 12 di Giani Stuparich, che apprezzava anche un altro poeta, Giulio Camber Barni, avvocato e combattente, nato in via Rossetti 52 ma non segnalato. Diverso destino ha lo scrittore irredentista Scipio Slataper, ricordato da una targa sulla facciata della villa di via Bazzoni 15, oggi adibita in parte a b&b.

    I segni del passato letterario sono infiniti a Trieste. Un’epigrafe nella chiesa di San Bartolomeo rammenta Enea Silvio Piccolomini, umanista, vescovo di Trieste dal 1447 al 1450 e, dal 1458, Papa Pio II. Il Museo Petrarchesco Piccolomineo ne conserva la memoria grazie alla donazione delle collezioni dell’avvocato Domenico Rossetti de Scander, letterato e promotore culturale del primo Ottocento, menzionato da una targa su Casa Galatti in via Rossini. L’iniziativa fu dello scrittore ed editore Giuseppe Caprin, al quale è intitolata la via in cui abitò.

    Fu Caprin stesso ad accompagnare Giosue Carducci nella sua visita a Trieste del 1878: una lapide in via Cattedrale porta incisa l’ultima parte della poesia “Saluto Italico” del grande toscano. Con loro c’era anche Attilio Hortis, bibliotecario, storico e politico che, grazie ai suoi scritti, diede un contributo decisivo alla comprensione del Boccaccio filologo, storico e moralista. Nella sua casa in riva Grumula 2 non è menzionata la sua presenza ma quella di Alexander Wheelock Thayer, console statunitense e autore di una biografia di Ludwig van Beethoven, che qui morì nel 1897. Mentre in via San Nicolò 8 si segnala la nascita dello storico e patriota Pietro Kandler, che molto scrisse su Trieste.

    In città passò nel 1830 anche Stendhal. Soggiornò in corso Italia 6 (un totem lo segnala), ma resistette solo tre mesi, sfibrato (soprattutto) dalla bora. In piazza Venezia 1 una targa spiega che, tra il 1922 e il 1923, vi operò il viceconsole del «regio consolato di Jugoslavia», il futuro premio Nobel Ivo Andric. Attende invece un ricordo sul suo palazzo dietro il Municipio, Žiga (Sigmund) Zois, letterato e mecenate del Settecento. La proposta, avanzata da due scuole, è del 2018. Anche Marica Nadlišek (1867-1940), scrittrice, editrice e redattrice della prima rivista femminile slovena a Trieste, come riferisce Martin Lissiach dell’Unione culturale economica slovena a Trieste, attende un’intitolazione. Nulla nemmeno per gli scrittori Silvio Benco e Delia de Zuccoli sulle loro case di via Pauliana e via della Vena, e per Marisa Madieri, che è stata residente con il marito Claudio Magris sul colle di San Vito. E forse pochi sanno che Leonor Fini, pittrice e autrice di tre libri, abitò in via Torrebianca 26, dove non appare nessuna insegna. Il secolo breve ha dato alla luce anche i «due» Stelio, Crise e Mattioni. Il primo, direttore della Biblioteca del popolo, saggista, critico letterario e scrittore, «aveva il suo rifugio — dice il figlio Stefano — in via Crispi 81. In nessuna delle sue abitazioni c’è una targa». Aveva una casa-studio anche Mattioni, in via Daurant 6 ma una targa, promotrice la figlia Chiara, si trova sulla scala dei Giganti, uno dei luoghi de Il richiamo di Alma.

    Il Novecento triestino non si chiude senza quattro grandi in attesa di essere celebrati: Gillo Dorfles, nato in piazza Dalmazia 1; Boris Pahor, scomparso in Strada del Friuli 246/1; Juan Octávio Prenz, che abitò in via San Lazzaro 10; e Pino Roveredo, che concluse la sua vita in via dei Soncini 36/1. D’altra parte, la legge consente di ricordare con una targa soltanto chi è scomparso da più di dieci anni, salvo deroghe.

  3. #3
    Opinionista L'avatar di follemente
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    Tu Doxa sai veramente cosa mi piace: grazie per i due fantastici omaggi, molto esaustivi!

    Sto proprio leggendo l’ultimo libro di Federica Manzon, di cui si parla qui, ed alcuni degli scrittori che sono menzionati nel primo articolo sono miei conoscenti, compresa Elisabeth Griffin, mentre gli altri li ho letti quasi tutti.

    Purtroppo non apprezzo molto il Magris scrittore (tu sì?), preferisco i suoi saggi: stupendo il suo testo scritto con Ara “Trieste, un’identità di frontiera”. Ha una cultura paurosa.

    Quanto a Pahor, abbiamo già avuto modo di parlarne anni fa sul forum; credo che il suo libro Necropoli sulla sua detenzione nel campo di concentramento dovrebbe essere letto da tutti.

    Mi manca l’ultimo volume di Marco Balzano: sembra proprio che Trieste sia diventata di moda tra gli scrittori non triestini di nascita.

    Dimenticavo: fascinosa la figura di Bobi Bazlen, che non scrisse nulla, ma fu preziosissimo per la cultura triestina.

    Molto interessante anche il secondo articolo, denso di informazioni di cui molte nemmeno io conoscevo.

  4. #4
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    Buongiorno Lady Folle,

    di Claudio Magris come scrittore non mi ricordo se ho letto libri. Mi è capitato di leggere alcuni suoi articoli sul Corriere della Sera. Acquisto questo giornale, ed altri, in particolare la domenica perché contengono inserti culturali.

    Sull’inserto “La lettura” (Corsera) di domenica scorsa ci sono altri due articoli riguardanti Trieste. Te li faccio leggere nei prossimi due post.

  5. #5
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    Mara Gergolet: “La frontiera separa i destini ma unisce giallo e spy story” (Corriere della Sera, “La lettura”, 9 – 2 – 2024)

    Pietro Spirito ambienta un romanzo a Trieste e nei territori circostanti, mettendo in campo tutti gli strumenti della letteratura di genere: un delitto iniziale, fascisti e comunisti, passati che non passano, guerra fredda. Missione compiuta.

    Il romanzo di Pietro Spirito, “È notte sul confine” (Guanda), dà a Trieste quel che a Trieste manca: una bella storia di spionaggio e di guerra fredda. Perché se questo è stato un avamposto, e per dirla con uno dei protagonisti del romanzo, se qui la guerra non è mai finita «perché siamo sul crinale che divide non due etnie o due Stati, bensì due mondi, due modi diversi e contrapposti di concepire il bene e il male», se insomma Trieste è stata una Berlino in piccolo, perché — viene da chiedersi — non ha prodotto i grandi romanzi come quelli di John le Carré o personaggi come Smiley? Perché, in tanta grande letteratura, ha mancato completamente questa vocazione (letteraria, appunto) alla tensione?
    Forse, perché non aveva i sovietici dall’altra parte, o per essere più precisi, nel suo alter ego cittadino: perché la Berlino sovietica era pur sempre il lato cupo, spietato e repressivo di una stessa città. Ma Trieste aveva semplicemente gli jugoslavi; e poi non la Stasi ma l’Udba; non è stata la capitale del nazismo ma la periferia del fascismo. Se quindi il materiale è meno epico — perché Berlino fa gara a sé — resta vero che nessun’altra città in Europa ha avuto, nel dopoguerra, un simile affaccio sul pericolo e le divisioni del mondo. Ma Trieste tutto questo l’ha per lungo tempo ignorato.

    Nella letteratura, è rimasta la città di Italo Svevo, Umberto Saba, James Joyce, Claudio Magris, è stata il triangolo basso della Mitteleuropa che iniziava a Praga e a Vienna. Non è riuscita neanche a inglobare per davvero gli scrittori e i poeti sloveni che qui hanno vissuto, da Vladimir Bartol ad Alojz Rebula, a Boris Pahor. Anzi, li ha scoperti quando erano già vecchissimi, novantenni, attraverso le traduzioni (anche quelle in francese). Ma pure questo fa parte della peculiare storia, o carattere, di Trieste.

    Per questo forse, leggendo il libro di Pietro Spirito, ci si stupisce di quanto materiale scarsamente esplorato, originale, poco noto, l’autore abbia in mano. O forse è solo adesso — e pensiamo al recente Bambino di Marco Balzano, ambientato nella prima metà del Novecento, dallo squadrismo fino all’immediato dopoguerra — che per qualche motivo questi temi cominciano a interessare.

    In ogni modo, con “È notte sul confine” ci ritroviamo negli anni Settanta, o sul finire dei Sessanta: l’ambientazione è storica. In sottofondo, il golpe Borghese, quel misterioso colpo di Stato del 1970, svelato nel 1971, che in Italia non è poi mai avvenuto, mentre i protagonisti in qualche modo lo attendono e aspettano che l’ingranaggio si muova, come su un ineluttabile binario. Il protagonista è un giornalista, Ettore Salassi, un bravo cronista ma anche un informatore dei servizi segreti italiani, il Sid. Spunta dal mare il cadavere di un soldatino di leva, Settimo Santo — dalla biografia più complessa di quel che appare a prima vista — ed Ettore Salassi se ne deve occupare nella doppia veste di cronista e però anche di informatore, di spia. Ci sono i giornali, le armi, il confine, i capiredattori ma anche i colonnelli, l’amore e il tradimento, altre spie e doppi giochi che arrivano fino a Belgrado. E mentre la trama si dipana avanti e indietro, siamo calati in almeno tre decenni di storia di Trieste, con l’occupazione nazista, quella anglo-americana, Tito, per toccare anche l’orrore del campo di concentramento italiano di Rab (Arbe), in quella che oggi è Croazia.

    Visti questi ingredienti, “È notte sul confine” è un romanzo di genere. Un giallo, se però concediamo che i gialli li scrivono anche autori di raffinatezza assoluta come John Banville, e precisiamo che qui le pagine si girano da sole una dopo l’altra e il romanzo si può finire in una sola serata. Ma è un giallo contaminato con lo spionaggio, e quindi per l’autore presentava un livello di difficoltà “superiore”, doppio.

    Soprattutto però, il libro cresce di capitolo in capitolo. Finché l’intreccio ampio che ha disegnato Pietro Spirito, invece di afflosciarsi come nei thriller cattivi, quando la necessità di rivelare l’assassino produce talvolta soluzioni artefatte che incastrano a forza i tasselli lasciandoci insoddisfatti e delusi, culmina con un finale in cui nulla della storia e della trama è andato perduto. E ci si chiede quanta possibilità aveva, colui che ha ucciso il soldato Settimo Santo (o gli altri), di sfuggire al potere, e al meccanismo a cui ha dedicato la propria vita. Giusto o solo soverchiante che fosse.

    Oltre all’ambientazione storica, non è secondaria quella geografica. Pietro Spirito usa tutto quello che il territorio giuliano concede, dalla laguna di Grado alle colline di Monrupino, dal ghetto ebraico dietro piazza Unità alle coste della Croazia. Per dirla con il filosofo sloveno Slavoj Žižek, gran lettore e studioso di gialli — convinto che, grazie alla globalizzazione, portino fama a posti remoti, e poi perfino turismo — ci ritroviamo in un’ambientazione dettagliata e affascinante in sé. Ricorda in parte i luoghi dello scrittore croato Jurica Pavicic, che con Acqua rossa, ambientato non lontano nella Croazia d’oggi, ha creato uno dei polizieschi più premiati in Europa degli ultimi anni. Che questo angolo ai confini dell’Italia e del mondo slavo, diventi un territorio fertile per crimini e delitti?

    E poi c’è il personaggio di Ettore Salassi. Si è arruolato ragazzino — sedicenne — nella Decima Mas, forse in odio al padre professore bolscevico, ha partecipato al massacro di Borgo Ticino. Da adulto è diventato un cronista con i baffetti, alla Charles Bronson, e jeans a zampa d’elefante: e non si capisce quanto si sia distaccato da quelle idee di gioventù o quanto invece conduca una vita di rinuncia, come per espiare a quell’errore e sfuggire a sé stesso. Un giornalista colto che evita di mostrarlo, e che ruba libri per regalarli. Un uomo dal talento sprecato, capace di mentire e di avere formidabili intuizioni, che arrivano sotto forma di ronzio di cicale nelle orecchie. Subisce un pestaggio nel finale, quasi un colpo di genio letterario, che gli fa saltare gli eventi e scoprire a ritroso i colpevoli dei delitti, ma anche i contorcimenti dell’Italia nell’autunno 1970.

    Lo lasciamo lì, nel letto d’ospedale, con le sue cicale in testa, un personaggio troppo promettente per sparire per sempre. Ma non sappiamo, come lui, che strada prenderà, se può esserci redenzione — tutto può succedere, oppure niente — né se ci regalerà un’altra inchiesta, e un’altra storia.

  6. #6
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    Mauro Covacich: “Trieste diventa teatro” (Corriere della Sera, La lettura, 9 – 2 – 2024)

    Mauro Covacich ha portato in scena in tre monologhi (che in realtà sono dialoghi) i tre giganti della letteratura: Svevo, Joyce e Saba. Arrivano in un volume e in una maratona.

    I tre testi qui raccolti su Svevo, Joyce e Saba sono stati scritti per il teatro ma, sulle prime, non pensavo che sarei stato io a interpretarli. Non sono un attore, questa è una delle poche certezze della mia vita, eppure negli ultimi anni ho fatto una cinquantina di repliche per ciascuno di essi, quindi forse tutto ciò richiede una spiegazione.

    Un giorno, dal Politeama Rossetti di Trieste, che aveva già messo in scena alcune pièce tratte dai miei libri, mi è giunta la richiesta di «un lavoro agile sulla nostra letteratura». All’inizio ho preso tempo, non mi capita spesso di scrivere su commissione, ma poi ho pensato che fosse giunto il momento di fare i conti con Italo Svevo, il mostro sacro che mi aveva sempre dato filo da torcere, sia dal punto di vista letterario che personale, un uomo il cui genio aveva avuto un effetto così inibente sulla mia vocazione di scrittore da mettermi in fuga dalla città in cui ero nato e cresciuto. Cosa significava scrivere a Trieste? Come si poteva farlo dopo l’autore della Coscienza di Zeno? Cosa avevo in comune con quel gigante? Be’, ad esempio, il fatto di aver scritto i miei libri in italiano, una lingua non proprio materna, che fino a un paio di generazioni fa quasi tutti i triestini imparavano a scuola, parlando ancora oggi il dialetto sia in casa sia in strada come ai tempi di Svevo. Potevo affrontare un simile argomento a proposito di uno dei più grandi romanzieri del Novecento italiano? Era un tabù? Mi piacciono i tabù, così mi sono messo all’opera.

    Ho immaginato una specie di corpo a corpo solo vagamente in forma di lezione, dove l’attore, meglio se triestino, potesse attingere alle sue esperienze di autoctono per aggiungere un’intonazione personale alle mie parole. Pensavo a un attore dello Stabile che potesse somigliarmi, un uomo non troppo giovane né troppo vecchio nel ruolo di uno scrittore che approfitta di un nume tutelare della letteratura europea per confessare al pubblico qualcosa di sé e magari togliersi anche qualche sassolino dalla scarpa, insomma, qualcuno che dicesse io al posto mio. Di sicuro non sarebbe stato difficile trovarlo. Ma, dopo aver letto il testo, il direttore è stato lapidario: «Questo monologo devi farlo tu».
    Conosco abbastanza il teatro per averlo frequentato fin da ragazzo, ma sempre dalla parte del pubblico. Mi è capitato anche di esibirmi in letture performative, ma non mi era mai successo di lavorare alla realizzazione di uno spettacolo scritto e interpretato da me. Le due settimane di prova che hanno preceduto le quindici recite sono state il viaggio più gratificante che abbia compiuto negli ultimi anni.

    Dopo Svevo, lo Stabile ha accolto con entusiasmo la proposta di replicare nella stagione successiva con un lavoro simile, questa volta dedicato a James Joyce, il che nella mia mente si è trasformato quasi subito nella seconda parte di un’opera in tre atti, la trilogia che avete tra le mani. Già al primo abbozzo di Joyce, infatti, mi è stato chiaro che dovevo per forza misurarmi anche con Umberto Saba, per andare fino in fondo nel rapporto con i tre grandi della letteratura triestina e completare quella che, volente o nolente, stava diventando un’autobiografia per procura.

    I tre spettacoli dovevano possedere una loro continuità interna, questa era l’intenzione mentre scrivevo. Anche la messa in scena sarebbe stata più o meno la stessa, un impianto semplice che comunicasse all’istante un’idea di compattezza e unità. La mia esperienza di teatrante però piano piano stava cambiando, in quella sala che assomigliava così tanto alla pancia di una balena mi trovavo sempre meglio, gli occhi si erano abituati all’oscurità, se ha senso dir così. Ho cominciato a muovermi con maggior disinvoltura e la scrittura si è comportata di conseguenza, assumendo sotto le mie dita ignare una forma via via più drammaturgica. Joyce ha debuttato il 16 giugno 2022, un Bloomsday piuttosto particolare visto che si festeggiavano i cento anni della prima edizione integrale dell’Ulisse.

    Ancorché straniero, o forse proprio per questo, Joyce ha trovato nei suoi lunghi anni a Trieste la condizione di isolamento linguistico che gli ha permesso di scavare nei giacimenti più profondi dell’inglese, quasi fosse una lingua morta, accedendo a un livello di verità e purezza che l’uso comune delle parole, sia nella comunicazione che nella narrativa, gli avrebbe difficilmente consentito. Io ho tentato di tenere sotto controllo la simpatia viscerale che provo per questo irlandese inclassificabile, amante del bel canto, delle bettole e dei lupanari, l’amico che mi ha fatto compagnia fin dal primo esame di Estetica all’università. Di stesura in stesura ho lavorato per mettere in luce sia i tratti umani che artistici di quello che può essere considerato il primo scrittore performer, un uomo che ha subito undici operazioni agli occhi e ha dato vita a una nuova forma di visibilità, un uomo ritenuto troppo cerebrale e che non ha mai smesso di parlare del corpo, un autore accusato di essere elitario e che si è sempre pensato come un operaio della scrittura, il genio che, meglio di ogni altro, ha mostrato come gli umani siano un’invenzione del linguaggio.

    A proposito di stesure, forse vale la pena ricordare quanto sia laborioso, per chi è abituato a scrivere cose di narrativa, concepire un testo per la scena senza che sappia troppo di «scritto», a maggior ragione se a interpretarlo è l’autore stesso. Si tratta di un processo di approssimazione al parlato attraverso una continua alternanza di scrittura, prova e riscrittura, fino alla resa finale di un copione non privo di anacoluti e studiate esitazioni, che restituisce al meglio il mio modo sgangherato di parlare. Anche questa è stata un’esperienza nuova, prestare la massima attenzione mentre leggevo e semplificare e ancora semplificare per produrre un’impressione di oralità. Non so come procedano i drammaturghi, io da autodidatta ho fatto così.

    Comunque, al momento di dedicarmi a Saba, mi sembrava di aver già imparato un po’ il mestiere, e invece mi sbagliavo. Il confronto con la poesia non poteva passare per il racconto di un poeta, doveva celebrarsi attraverso l’esecuzione della parola poetica nella sua intraducibile potenza. Pronunciare, sussurrare, declamare, ripetere i versi di un componimento era forse il modo migliore per spiegarlo, lasciando che si rivelasse da solo, nella sua aura, nel suo magnetismo. Dovevo portare nello spazio scenico la poesia con il mio corpo, farla agire attraverso la mia voce, esporla al rischio di una mia incertezza, di un improvviso vuoto di memoria. D’altronde, non era forse questo il teatro? La condivisione di una parola esposta al rischio nell’atto della sua locuzione. Quindi dovevo recitare, ma non avevo detto di non essere un attore? Ormai al terzo spettacolo, avevo imparato a recitare nei panni di me stesso, un uomo che per scrivere si era allontanato dai giganti della sua città e ora, superati i timori della giovinezza, provava a riavvicinarsi, a riappropriarsi di un’eredità che a lungo aveva scambiato per una tara genetica. Non era poi così lontano da ciò che avevo fatto fin lì, visto che quasi tutti i miei romanzi girano attorno al corpo dello scrittore, all’ambiguità di autore e io narrante, alla differenza spesso inafferrabile tra essere sé stessi e recitare la parte di se stessi. In fondo, se il personaggio principale di una storia ha lo stesso nome della persona che la scrive, è anche perché l’autore intende imprimere alla sua scrittura un carattere performativo. Per molti aspetti si stava chiudendo un cerchio. Nella prova sul palco, recitando con la mia voce le frasi scritte di mio pugno, la fusione tra persona e personaggio si stava compiendo. Mettevo in atto la mia scrittura, ero attore del mio racconto.

    Così, dopo Svevo e Joyce, ecco comparire all’orizzonte Saba, il grande cantore della città, colui che nell’immaginario collettivo rappresenta lo spirito del luogo, avendo posto i suoi versi a suggello del volto di Trieste senza essersi mai stancato di attraversarla, scrutarla, ritrarla. Eppure il rapporto tra Umberto Saba e la città è tutt’altro che idilliaco, segnato semmai da un moto continuo di allontanamento e avvicinamento pieno di ombre e ripensamenti, una doppiezza emotiva che ho cercato di restituire pescando dalle lettere private, dalle poesie più note, ma anche dai siparietti familiari, intrecciando la vicenda personale del poeta con la mia. Il risultato per me è stato spiazzante, mi sono sentito sempre più libero di occupare lo spazio, di scrivere e scomporre e giocare con i versi, riempiendo fogli su fogli, facendoli scricchiolare sul tecnigrafo — una specie di lavagna totem del primo Novecento che domina la scena dei tre spettacoli —, finché Saba mi si è rivelato forse per la prima volta. Quell’uomo così ostico, la cui voce registrata nei vecchi programmi radio ostenta una cadenza lamentosa che ancora oggi mi dà sui nervi, è il compagno di strada con cui ho scoperto di avere più cose in comune — fatte ovviamente le debite proporzioni —, l’uomo che forse più di ogni altro ha creduto nella perfetta sovrapposizione di arte e vita, il poeta che, anche a rischio di risultare prosaico, ha cercato di restituire la complessità dell’esistenza con la semplicità delle parole che sanno arrivare al cuore.

  7. #7
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    Grazie Doxa, mi pare di ricordare che James Joyce non amasse molto la città.

  8. #8
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    Di Marco Balzano io ho letto Resto qui, ambientato nell’Alto Adige, molto bello, mentre Bambino ancora mi manca. E’ incredibile, dicevo prima, quanti scrittori oggi ambientino i loro romanzi a Trieste: la mia città deve esercitare ed emanare un fascino particolare.

    Pietro Spirito lo conosco, ma ho letto solo dei suoi articoli su varie riviste e giornali: le spy-story non mi interessano granché, vedrò.

    Di Covacich ho letto Trieste sottosopra, che non mi ha entusiasmato, e per questo non sono andata nemmeno a teatro a vedere e sentire i monologhi su questi tre grandi autori. Però forse il volume lo acquisto, in quanto leggere è meno impegnativo, in quanto nessuno ti impone i suoi ritmi.

    Grazie per questi articoli, Doxa.

  9. #9
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    Doxa, tu mi costi molto.
    Oggi ho fatto una spesa folle, influenzata dagli articoli che hai postato.

    Nel mio paese è stata recentemente aperta una libreria da una giovane ragazza coraggiosa (visti i tempi di Amazon, di Kindle e Kobo) e simpatica e, pregio maggiore, non invadente. Dovevo fare un regalo e sono andata da lei. Dopo averlo scelto (ma sapevo già cosa comprare) ho sbirciato gli altri libri, tra i quali quelli ispirati a Trieste: insomma, alla fine non ho potuto trattenermi dal comprare l’ultimo libro di Pietro Spirito e quello di Marco Balzano, di cui si parla diffusamente negli articoli del Corriere.

    Essere aggiornati, sentire il respiro delle ultime novità, assaporarle, ha un prezzo.

  10. #10
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    Grazie Doxa, mi pare di ricordare che James Joyce non amasse molto la città.
    Non mi risulta, era ben integrato nel tessuto della città.

  11. #11
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    Lady Folle ha scritto

    Doxa, tu mi costi molto.


    Gentile amica virtuale, Honoré de Balzac ti direbbe che “un vizio costa più caro che mantenere una famiglia”.

    Anch’io nel tempo ho fatto numerosi incauti acquisti in fatto di libri. Spero che quelli che hai comprato ti piacciano.

  12. #12
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    Citazione Originariamente Scritto da follemente Visualizza Messaggio
    Non mi risulta, era ben integrato nel tessuto della città.
    Di James Joyce ho letto diversi libri, quello con cui non sono riuscita a cimentarmi è L’Ulisse (è sempre là che aspetta). Considerando che di nascita era irlandese, costretto a vivere altrove per varie vicende, possiamo anche capire il suo rapporto complicato con la città di Trieste. La sua vita quotidiana era spesso travagliata da problemi contingenti, era un grande scrittore e sicuramente essere costretto a “lavorare” per vivere non aiutava il suo desiderio di narrare, ha comunque scritto molte opere che sono rimaste nella letteratura mondiale.
    Naturalmente ci sono sue biografie che sembrano superare a piè pari le sue inquietudini, che sono comunque l’humus in cui si è sviluppata la sua arte, esiste una sorta di revisionismo sociale nel negare le tragedie vissute dai grandi personaggi, come se il male di vivere potesse essere letto solo attraverso le opere, credo invece, che l’uomo per poter scrivere abbia dovuto lottare con tutte le sue forze per non lasciarsi sommergere dalla banale quotidianità ,che penetra in ogni fibra di ogni essere umano, ma traendo da essa l’ispirazione.

  13. #13
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    Citazione Originariamente Scritto da doxa Visualizza Messaggio
    Lady Folle ha scritto



    Gentile amica virtuale, Honoré de Balzac ti direbbe che “un vizio costa più caro che mantenere una famiglia”.

    Anch’io nel tempo ho fatto numerosi incauti acquisti in fatto di libri. Spero che quelli che hai comprato ti piacciano.
    Vediamo, solo il tempo e la lettura me lo riveleranno.
    Vero, i vizi costano di più.

  14. #14
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    Citazione Originariamente Scritto da Ninag Visualizza Messaggio
    Di James Joyce ho letto diversi libri, quello con cui non sono riuscita a cimentarmi è L’Ulisse (è sempre là che aspetta). Considerando che di nascita era irlandese, costretto a vivere altrove per varie vicende, possiamo anche capire il suo rapporto complicato con la città di Trieste. La sua vita quotidiana era spesso travagliata da problemi contingenti, era un grande scrittore e sicuramente essere costretto a “lavorare” per vivere non aiutava il suo desiderio di narrare, ha comunque scritto molte opere che sono rimaste nella letteratura mondiale.
    Naturalmente ci sono sue biografie che sembrano superare a piè pari le sue inquietudini, che sono comunque l’humus in cui si è sviluppata la sua arte, esiste una sorta di revisionismo sociale nel negare le tragedie vissute dai grandi personaggi, come se il male di vivere potesse essere letto solo attraverso le opere, credo invece, che l’uomo per poter scrivere abbia dovuto lottare con tutte le sue forze per non lasciarsi sommergere dalla banale quotidianità ,che penetra in ogni fibra di ogni essere umano, ma traendo da essa l’ispirazione.
    Certo, Joyce a Trieste aveva difficoltà a sbarcare il lunario, sebbene spendesse con leggerezza e frivolezza i quattrini, anche nei bordelli e nelle pasticcerie rinomate, e non aveva un futuro finanziario garantito. L’alcol era suo amico e causa di dissapori con suo fratello.

    Comunque, specialmente con le sue lezioni private, riuscì a conoscere i nobili del posto e Italo Svevo, con cui ebbe un rapporto di amicizia.
    Era un frequentatore assiduo del Caffè San Marco, dove scriveva le sue opere, e riuscì ad entrare negli ambienti culturali della città.

    Di lui ho letto solo Gente di Dublino, ma sono sicura che qualche forumista si sia sorbito l’Ulisse, deve solo farsi vivo/a.

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