Gentile Lady Folle ho per te un altro interessante articolo pubblicato domenica scorsa.
Cristina Taglietti: “Confine sconfinato. Trieste è letteratura” (Corriere della Sera, La lettura, 9 – 2- 2025)
Trieste, forse più di ogni altra città, è letteratura. È ‘la sua letteratura’, come ha spesso sottolineato Claudio Magris che quell’humus geografico e culturale lo abita e lo racconta tessendo nei suoi scritti personaggi, storia, ricordi che lì hanno la loro ragion d’essere. Con libri come il saggio narrativo Microcosmi, il romanzo ‘Non luogo a procedere’, il testo teatrale ‘La mostra o certi racconti di Tempo curvo a Krems’ (tutti editi da Garzanti), Magris è ‘il perplesso indagatore dell’etica di questi luoghi, dell’umanità che li ha coltivati e della violenza che li ha lacerati’ secondo la suggestiva, esatta definizione del critico Giulio Ferroni in quel viaggio letterario-sentimentale nella nostra letteratura che è il saggio ‘L’Italia di ‘ (edito da La nave di Teseo).
Alla sua città Magris ha dedicato anche un saggio scritto con Angelo Ara: “Trieste. Un’identità di frontiera (Einaudi), in cui va all’origine della letteratura triestina: Italo Svevo, Umberto Saba e Scipio Slataper sono gli scrittori ‘che le danno un volto, attribuendole un valore esistenziale, una ragione di vita che non vuole essere confusa con l’esercizio letterario: ‘L’anti-letterarietà dei triestini, di cui si è tanto parlato — notano gli autori nell’introduzione — è l’atteggiamento di uomini che chiedono allo scrivere non bellezza, ma verità, perché per essi scrivere vuol dire acquistare un’identità, non solo come individui ma come gruppo’.
Il tema dell’identità, strettamente connesso a quello storico-geografico della frontiera, del confine, di quell’amalgama di gruppi etnici diversi (‘italiani, tedeschi, sloveni e altri slavi, greci, armeni, nuclei provenienti dalle varie terre dell’impero e da altri Paesi d’Europa’) è stato d’altronde il grande fuoco che ha alimentato l’immaginario culturale di artisti e letterati. Al punto che, come ha ricordato il critico triestino Elvio Guagnini in un dialogo con lo stesso Magris sul ‘Corriere’, persino Juan Octávio Prenz, di origini istriano-croate, nato in Argentina, poteva definirsi uno «scrittore triestino di lingua spagnola.
Un nome, insomma, da mettere accanto a quella generazione attiva dopo gli anni Sessanta che annovera, tra gli altri, Giorgio Voghera, Fulvio Tomizza, Renzo Rosso, Stelio Mattioni, Furio Bordon. E Boris Pahor, triestino di nazionalità slovena, testimone dei totalitarismi del Novecento che fino a 108 anni ha tenuto accesa la fiaccola della memoria di una minoranza oppressa (il suo capolavoro, Necropoli, scritto in sloveno nel 1967, è stato tradotto in Italia, da Fazi, quarant’anni dopo). Non si deve neppure dimenticare una grande autrice estranea ai circoli letterari e perciò sottovalutata: Fausta Cialente (1898-1994), cosmopolita e sradicata, autrice del bellissimo ‘Le quattro ragazze Wieselberger’ (premio Strega 1976, ripubblicato da La tartaruga nel 2018 con la prefazione di Melania Mazzucco), in cui rievoca la sua infanzia e adolescenza oltre alle figure della madre e delle zie, giovani donne nella Trieste di fine Ottocento, austro-ungarica e irredentista.
Negli ultimi mesi basta guardare sugli scaffali delle librerie per capire quanto Trieste continui a nutrire chi scrive. Inaugurando, lo scorso settembre, il Lets Museo della Letteratura di Trieste, Magris ha allungato lo sguardo fino all’oggi, a una letteratura contemporanea «fatta da persone molto più giovani in cui un legame forte con la città giunge a risultati, forme, stili, anche una lingua, diversi». Autori affermati come Federica Manzon, Paolo Rumiz, Susanna Tamaro. O Mauro Covacich che in romanzi come La città interiore ha sovrapposto la sua personale cartografia triestina con quella mutevole della storia. Ma anche come Laila Wadia, scrittrice e traduttrice plurilingue, nata a Mumbai (in India), residente a Trieste dal 1986, che scrive in inglese e in italiano con un occhio particolare alla condizione femminile. Nel 2023 ha curato, per il piccolo editore Cosmo Iannone, ‘Trieste. Uno sguardo intimverso’: il volume contiene, oltre al suo, i racconti di altre sette scrittrici «in transito», adottate dalla città: Diana Bošnjak Monai, Elizabeth Griffin, Gabriela Preda, Betina Lilián Prenz, Ana Cecilia Prenz Kopušar, Liliya Radoeva Destradi, Qing Yue. Come suggerisce il neologismo nel titolo, ‘l’altrove’ da cui provengono le 8 scrittrici genera su questo luogo dalla ‘grazia un po’ scontrosa’ una prospettiva personale, interiore, diversa, a volte controversa, intimversa appunto.
D’altronde Jan Morris nel suo ‘Trieste. O del nessun luogo’ (il Saggiatore) ricorda che già il commediografo viennese Hermann Bahr, al suo arrivo in città nel 1909, ebbe la sensazione di librarsi nell’irrealtà, di trovarsi in nessun luogo. ‘I suoi visitatori — scrive la storica e viaggiatrice inglese, che nella città sbarcò alla fine della Seconda guerra mondiale, quando era ancora un giovane soldato di nome James— spesso la lasciano disorientati e, tornati a casa, la ricordano con un vago senso di mistero, come qualcosa di inafferrabile’. Secondo Morris chi la conosce meglio spesso la vede sotto le sembianze di una metafora, cioè non solo come una città, ma come un’idea di città: Trieste ‘sembra esercitare un’influenza particolare su quanti tra noi hanno un debole per l’allegoria, cioè su coloro che, come si espresse una volta Robert Musil, suppongono che ogni cosa significhi più di quanto abbia onestamente la pretesa di significare’.
A Trieste Daniele Del Giudice ha inseguito (Lo stadio di Wimbledon, Einaudi) l’enigmatica eminenza grigia dell’editoria Bobi Bazlen, fondatore assieme a Luciano Foà di Adelphi, che dalla città dove era nato nel 1902 sotto l’impero asburgico se ne andò a 32 anni per non farvi più ritorno. Una vita che Cristina Battocletti ha approfondito nella bella biografia Bobi Bazlen. ‘L’ombra di Trieste’ (La nave di Teseo), simbolo forse di quella ‘triestinità eterna’ che Diego Marani, scrittore e traduttore nato a Ferrara, ha raccontato in ‘A Trieste con Svevo’ (La nave di Teseo). Alla base c’è l’idea poetica di un tempo che ha una sua consistenza propria, che ‘si accumula come in un lavandino ingorgato, rischia di traboccare, poi di colpo qualcosa lo stura e interi decenni colano via in un fiotto, un tempo e un luogo in cui gli eroi sveviani si mescolano a molti altri personaggi che ‘silenziosamente si riproducono in ogni epoca immortali’.
I romanzi di Federica Manzon, nata a Pordenone, triestina di elezione, ruotano tutti, in un modo o nell’altro, intorno alla città. L’idea di libertà nata da un confine che la attraversa sembra corrisponderle intimamente: è la continua evocazione della possibilità di un’altra vita che accade di là e porta con sé paura, possibilità, desiderio. Il romanzo con cui ha vinto il Campiello 2024, Alma (Feltrinelli), questa inquietudine la accoglie pienamente concentrando storia, geografia, memoria, conflitto nei tre giorni del ritorno in città della protagonista, fuggita anni prima per fare la giornalista a Roma e rientrata per ricevere l’eredità del padre morto. Trieste è al centro del racconto tanto quanto la protagonista Alma: lo è nelle radici asburgiche dei nonni materni, nella pericolosa ambiguità della guerra fredda, nella disgregazione della Jugoslavia degli anni Novanta che in qualche modo la attraversa quando inizia la guerra, in quel conflitto continuo tra identità e appartenenza.
Simbolo di limite o di libertà, parole opposte entrambe connaturate al confine, Trieste è una coperta di segni e di metafore che si stende su un corpo vivo ferito dalla Storia. Le vicende tragiche del secolo breve, le divisioni, i conflitti, le dittature e il sangue versato da più parti sono elementi che si ritrovano nelle opere dei narratori contemporanei. Trieste (Bompiani, 2015), «romanzo documentario» sull’occupazione nazista nel Nord Italia con cui la scrittrice croata Daša Drndic (1946-2018) destruttura la forma classica del genere accostando testi, fotografie, mappe, liste di nomi, rimane un’opera fondamentale. Drndic coglie il respiro epico di una città che si ammala «come un essere umano» e insieme l’orrore inscritto nella storia recente dell’Europa. La Risiera di San Sabba, fabbrica di morte, unico campo di sterminio sul territorio italiano, è, come in Non luogo a procedere di Claudio Magris, restituita alla memoria di un orrore che per anni si è voluto dimenticare.
Il filo rosso di sangue del Novecento recentemente è stato raccolto anche da scrittori di una generazione più giovane che quelle vicende le hanno conosciute sui libri di storia o dai racconti dei nonni. Marco Balzano, milanese classe 1978, ha incardinato il suo Bambino (Einaudi) tra i primi anni Venti e il 1946, quando fascisti, nazisti, titini si danno il cambio in una città che sembra costantemente in balia del più forte. Fedele a un’idea civile di narrativa, Balzano ha scelto di raccontare il Male attraverso la figura di un carnefice, Mattia Gregori detto Bambino, «la camicia nera più feroce della città», a dispetto di un viso glabro e infantile. Nato a Trieste nel 1900, Mattia, marchiato da un’infanzia difficile con una madre che gli rivela di non essere lei ad averlo dato alla luce, è un traditore di tutti: fascista della prima ora, soldato in Grecia e poi, al ritorno nel 1945, a favore dei tedeschi prima e dei partigiani di Tito in seguito.
La geografia e la storia della città sempre più spesso vengono attraversate anche con il passo narrativo del giallo. Lo fa Pietro Spirito nelle pieghe della guerra fredda con È notte sul confine (Guanda); lo ha fatto, affondando le mani negli anni della Seconda guerra mondiale, Ilaria Tuti con Risplendo non brucio (Longanesi). Il romanzo unisce i punti tra la Risiera di San Sabba e il castello di Kransberg, nell’Assia tedesca, dove nel dicembre 1944 si asserragliò Hitler. L’autrice segue le vicende di Johann Adami, luminare di medicina legale triestino che ha detto no al fascismo, internato a Dachau, «reclutato» per risolvere il caso della morte di un giovane ufficiale al castello di Kransberg, e di sua figlia Ada, anche lei medico, che a Trieste si trova a dover scoprire un assassino di donne intorno alla Risiera. Tuti alterna le storie dei due protagonisti con le rispettive indagini, sprofondando il lettore nella Kleine Berlin, la Trieste sotterranea che ospita, attraverso una rete di tunnel, due sistemi comunicanti ma distinti: un rifugio antiaereo costruito dal Comune di Trieste per la popolazione civile e un altro costruito dall’esercito tedesco dopo l’8 settembre, quando la città diventa sede del comando generale delle SS del Litorale Adriatico.
A utilizzare la lente del noir è anche uno scrittore tedesco: in Germania Veit Heinichen è stato tra i fondatori della casa editrice Berlin Verlag, eppure ha eletto questa terra di confine non soltanto a domicilio, ma anche a osservatorio quasi esclusivo per mettere a fuoco, oltre alle zone oscure della città (politica e affari compresi), tutta la complessità del presente. Da e/o sono usciti una dozzina di titoli, tradotti dal tedesco, della saga del vicequestore Laurenti. Anche lui, nel corso delle indagini, si è inevitabilmente calato nel pozzo oscuro del secondo conflitto mondiale e nelle ferite aperte dall’occupazione nazifascista prima e jugoslava poi. Nella prossima, A maglie strette, in uscita il 12 marzo, il vicequestore firma i documenti per la pensione e poi mette le mani in una rete di corruzione e affari sporchi che si irradia dal golfo della città. Trieste, Italia, Europa.