Il recente avvenimento (e l'eccellente articolo di folle) mi fanno pensare. Si, accade.
Certo, il suicidio é "difficile da farsi", perché cozza contro la legge fondamentale di sopravvivenza della specie (ne ho stra-parlato altre volte), quindi, non appare "naturale".
Amalgamare o identificare "naturale " con "etico", pero', mi sembra azzardato. In ogni caso, tuttaltro che scontato o evidente.
Mi sembra che la qualificazione del suicidio come colpa gravissima sia un fenomeno che non appartenga universalmente alla storia delle culture, ma emerga con particolare forza nelle religioni monoteiste. Questo appare ricostruendo la struttura teologica che queste tradizioni introducono e il modo in cui ridefiniscono il rapporto tra individuo, vita e autorità divina.
Nelle civiltà politeiste dell’antichità il suicidio non era necessariamente considerato un atto moralmente illecito. In Grecia e a Roma esistevano approcci differenziati: il gesto poteva essere ritenuto riprovevole, ma non era universalmente assimilato a una trasgressione assoluta. In alcuni contesti assumeva persino una funzione etica o politica: gli stoici vi riconoscevano un atto di libertà razionale, alcuni personaggi pubblici un gesto di coerenza e dignità. Alla base di tali concezioni vi era un modello teologico pluralistico, privo di un unico sovrano metafisico che definisse in modo esclusivo il valore e i limiti della vita umana.Con i monoteismi abramitici il quadro muta in modo decisivo. L’affermazione di un Dio unico, creatore e signore della vita, comporta un principio teologico preciso: l’esistenza dell’individuo non è un bene di sua proprietà, ma un dono che proviene da un’unica fonte sovrana. In tale prospettiva, interrompere volontariamente la propria vita significa sottrarre a Dio una prerogativa che gli appartiene esclusivamente. Il suicidio diventa dunque una violazione metafisica prima ancora che morale: un atto che rompe il rapporto di dipendenza costitutiva tra creatura e creatore.
Il cristianesimo sistematizza questa logica con particolare chiarezza. Agostino interpreta il suicidio come trasgressione del comandamento “Non uccidere”, esteso ora anche alla propria persona. Tommaso d’Aquino ne approfondisce la dimensione teologica e sociale: la vita non appartiene all’individuo, il gesto impedisce il compimento del fine per cui l’uomo esiste, e danneggia la comunità cui ogni persona è vincolata. Nel Medioevo tali principi si traducono in norme drastiche: rifiuto della sepoltura religiosa, marchio d’infamia, confisca dei beni. La condanna acquisisce così una forma istituzionale, destinata a durare nei secoli.
Anche nell’Islam, mi sembra (dal poco che ho letto) che la vita sia concepita come dono di Allah; il suicidio è proibito perché infrange il dovere fondamentale di affidamento alla volontà divina. L’uomo non può arrogarsi la decisione ultima sulla propria esistenza, poiché ciò equivarrebbe a contestare la sovranità del Creatore.
Questi elementi convergono in un risultato coerente: la gravità morale attribuita al suicidio nei monoteismi deriva dalla struttura teologica che essi introducono. Se la vita è proprietà esclusiva di un Dio unico, l’interruzione volontaria appare come atto di indebita appropriazione e, in ultima analisi, come rottura dell’ordine divino. La condanna non nasce dal gesto in sé, ma dalla cornice metafisica che lo interpreta.
Per questo la cultura occidentale, erede di questi sistemi religiosi, continua ancora oggi a portare tracce profonde di tale visione.
Come appaia il suicidio nelle culture non-europee, non ho elementi per parlarne.
Forse qualche lettore esperto potrà dirci di più.





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